La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 21 marzo 2016

Il liberalismo agonistico di Isaiah Berlin

di Massimo Bacigalupo
Isaiah Berlin, nato a Riga nel 1908 e scomparso nel 1997 a Oxford, dove fu professore di filosofia, continua a essere molto letto (e discusso) in Europa e fuori. È fresca la pubblicazione di un quarto e ultimo volume di corrispondenza (Affirming, Letters 1975-1997, Chatto & Windus, pp. 704, £ 26,00), che riapre un’altra volta la discussione sulla sua statura e personalità. Era un maître à penser? Il suo liberalismo è ancora attuale? E che dire delle contraddizioni e delle proscrizioni accademiche che le lettere impietosamente rivelano, dato che in epoca di voluminosi epistolari scripta manent consentendo di cogliere in flagrante l’estensore? Detestava, prevedibilmente, il radicalismo di Chomsky, ma con quest’ultimo cercò un accomodamento rifiutato dal collega americano quando seppe cosa di lui il professore aveva scritto ad altri. Questo, e lo sviluppo del pensiero di Berlin, rendono le lettere avvincenti. Una scelta oculata del primo volume, A gonfie vele. Lettere 1928-1946, apparve nel 2004 presso Adelphi, che di Berlin si è fatto promotore.
È del 2015 la pubblicazione di un volumetto testamentario, Un messaggio al ventunesimo secolo (Adelphi, pp. 58, euro 7,00), che ristampa un importante saggio riassuntivo, La ricerca dell’ideale, e ribadisce le convinzioni di Berlin, la sua fede nella possibilità di una convivenza umana «decente», il suo moderato ottimismo per cui si congratula con i lettori che a differenza di lui vedranno il secolo XXI, presumibilmente epoca di pace dopo tante nefandezze. E invece le cose stanno andando ben diversamente da come Sir Isaiah si augurava.
Con Berlin si confronta intensamente Andrea Carandini, anch’egli non giovanissimo, in un denso volume anomalo, Paesaggio di idee Tre anni con Isaiah Berlin (Rubbettino, pp. 381, euro 19,00). Anomalo perché è una riflessione personale (il titolo lo annuncia), come del resto sono spesso gli scritti berliniani, su argomenti di solito riservati agli specialisti: le grandi idee di civiltà, da Atene e Roma a Firenze, Parigi, Londra, e i pensatori da Rousseau a Nietzsche a Cassirer a Nussbaum. Carandini è archeologo, ma è giustamente interessato a comprendere perché le civiltà si sono fatte in un certo modo, attraverso conflitti e accomodamenti. Chiude la sua lunga meditazione parlando dei commerci globalizzati del terzo millennio a.C., non senza aver rammentato qualche pagina addietro che il sedicente califfato dell’Isis nulla ha a che vedere con il periodo di notevole tolleranza imperiale che fu del califfo ottomano.
Sicché Carandini legge Berlin e ne segue il cammino per tre anni e quasi quattrocento pagine anche per ripensare il proprio percorso intellettuale e politico, dal marxismo del suo maestro Bandinelli al freudismo di Matte Blanco al liberalismo «agonistico» di Berlin. Agonistico perché fondato non sul superamento delle contraddizioni ma sull’accettazione e il compromesso fra posizioni contrastanti. In questo atteggiamento Carandini trova una lezione per l’Italia, un suo proprio «messaggio al ventunesimo secolo»: un invito a superare la contrapposizione sterile di fazioni abbarbicate ai propri convincimenti (per cui anche Berlin sarebbe stato vittima di damnatio memoriae in Italia da parte di marxisti, storici di altre scuole ecc.), a favore di un vero pluralismo, che Carandini come Berlin tiene a distinguere dal relativismo. Bisogna saper ascoltare, imparare dagli avversari, scegliere il miglior male. Un modello di convivenza sociale non utopistico, soprattutto non apocalittico.
«Da noi» scrive Carandini «il pensiero progressista è sovente un guazzabuglio di riformismo e radicalismo, che contrastandosi si neutralizzano, confluendo in una palude residuale di pensieri superati. Ma per progetti politici coerenti bisognerebbe avere una visione almeno per i prossimi lustri: per muoversi verso una società decente oppure verso un cumulo di desideri velleitari e scomposti. Quale potrebbe essere oggi un pensiero fecondo per una liberaldemocrazia aperta al sociale, pluralistica, agonistica, riformistica, insomma normale, capace di imparare pragmaticamente dall’esperienza, tramite prove e errori?».
Alla ricerca paziente di risposte a queste domande che ovviamente premono a tutti, Carandini segue le orme di Berlin nelle varie idee e ideologie che stanno a monte della modernità. I suoi capitoli portano titoli come «Mania dell’uno» (l’eredità pestifera dei monismi di ogni genere), «Contrasti sui Lumi» (responsabili appunto della riduzione a una suprema Dea Ragione che infierirà sull’uomo a partire da Robespierre), «Albe di nuovi mondi» (la scoperta del pluralismo e dello storicismo: Machiavelli, Leibniz, Vico), «Verso il pluralismo» (lo storicismo romantico di Hamann e Herder, eredi di Vico, su cui Berlin ha scritto accanitamente), «Reazioni»: rivalutazione di Burke, simpatizzante della rivoluzione americana con i suoi «diritti dell’uomo» e Bill of Rights, ostile a quella francese, tanto da essere liquidato come reazionario. Qui Carandini sposa la posizione del tardo Bobbio su Marx e Nietzsche «reazionari», in quanto «il valore del mondo borghese sfugge all’uno e all’altro ed è stato combattuto tanto dal nazismo che dal comunismo». Cadute le utopie monistiche di un mondo di giustizia ed eguaglianza universale (comunismo) o di dominio del più forte (fascismo), «si è costretti a tornare alla contraddizione propria della democrazia borghese, con il suo stabile conflitto fra diritti dell’uomo e mercato».
Infatti una delle tesi più note di Berlin riguarda i «due tipi di libertà», la libertà da e la libertà di, che confliggono e vanno entrambe sia limitate che promosse. La mia libertà di agire come mi pare inficia quella del mio vicino che non vuole rientrare nel mio progetto, cerca la libertà dall’intrusione di interessi e libertà altrui. Il Bill of Rights statunitense si riferiva a entrambe le libertà. La famose Quattro Libertà enunciate da Roosevelt nel 1941 erano sia attive che passive, in realtà un riassunto del Bill of Rights del 1789: libertà di parola, libertà dal bisogno, libertà di fede, libertà dalla paura (cioè dai totalitarismi). Carandini indica le radici di questi pensieri di Berlin in Croce e in De Ruggiero (Storia del liberalismo europeo, 1925), entrambi importati a Oxford da Collingwood, traduttore anche del libro di Croce su Vico, che Berlin dice fu per lui una rivelazione, pari alla scoperta di Machiavelli e poi di Herder. Gli rivelarono, spiega in La ricerca dell’ideale, la storicità, praticamente che non esiste un’unica risposta ai grandi perché della convivenza umana, ma ogni epoca proietta una sua visione, forse una lingua intellettuale.
Il giovane Berlin parla di questo lungamente nel celebre saggio Il riccio e la volpe, sulla filosofia della storia di Tolstoj, in realtà in gran parte dedicato a de Maistre, reazionario che influì sull’utopista (?) Tolstoj. «La volpe sa molte cose, il riccio una sola grande cosa», diceva Archiloco. Tolstoj sarebbe stato (forse lo siamo tutti) un po’ riccio e un po’ volpe, affascinato dalla realtà nella sua «infinite variety» e alla ricerca di un principio che tutto spiegasse. In quel vecchio saggio (citato persino da Woody Allen in un suo film: sarò riccio o volpe?) Berlin liquida professoralmente «M. Henri Bergson», ma in realtà conclude con pagine sull’esperienza vitale di flusso in cui siamo immersi. E anche il pacato paesaggista di idee Carandini ha parole commosse quando evoca le rivelazioni dell’interiorità impalpabile di Proust.

Fonte: il manifesto 

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