di Franco Astengo
L’esito del referendum sulle cosiddette “trivelle” (accettiamo la denominazione giornalistica ormai diventata “vulgata”) rappresenterà un’occasione molto interessante per poter valutare le novità che stanno presentandosi i in tema di capacità d’aggregazione e di espressione di consenso all’interno del sistema politico italiano.
Com’è noto, infatti, perché il referendum (trattandosi di “abrogativo”) per essere valido richiede il raggiungimento di un quorum di partecipanti pari al 50% più uno degli aventi diritto: di conseguenza sarà necessario si rechino alle urne oltre 25 milioni di elettrici ed elettori. Soglia superata, per l’ultima volta, il 12 – 13 giugno 2011 nel caso del referendum sull’acqua come bene pubblico (tralasciamo il giudizio sulla concretizzazione effettiva di quell’esito referendario).
Il prossimo 17 Aprile vedrà, però, la competizione referendaria svolgersi in modo del tutto diverso dalle precedenti, ed è in questo che sta l’interesse degli analisti.
Tra il 2011 e oggi, infatti, sono cambiate molte cose nel rapporto tra sistema politico, elettorato, ruolo dei mezzi di comunicazione rispetto alla possibilità di espressione pubblica del consenso e del dissenso.
Andiamo per ordine: prima di tutto si è stabilizzata l’astensione dal voto, sia per le elezioni politiche sia per quelle amministrative, al di là di una dimensione molto alta: il raggiungimento del 65% dei partecipanti al voto appare già una quota ragguardevole. Insomma, almeno il 35% dell’elettorato appare composto da astensionisti stabili.
In secondo luogo è aumentato il peso della “rete”: ovverosia la formazione dell’opinione attraverso i social network, i siti, i blog, nell’insieme della comunicazione virtuale.
Il secondo “partito” (virgolette d’obbligo) italiano usa stabilmente la via della virtualità quale strumento di comunicazione e di scelta politica al proprio interno e quando si muove per “scendere in piazza” lo fa soltanto attraverso il mezzo della mobilitazione dei vertici, com’è stato nel caso dei tour di Beppe Grillo o nelle adunate dei parlamentari, come nel recentissimo caso della Basilicata.
Ci troviamo dunque di fronte a tre elementi di novità, che in questo caso emergeranno con forza quali elementi fondativi della concretizzazione del risultato elettorale: la quasi totale sparizione del voto di appartenenza ormai ridotto ad aree assolutamente minoritarie; all’affermarsi di una trasversalità nell’espressione del voto d’opinione perché saranno molteplici le posizioni degli elettori dei maggiori partiti, sia del PD sia del centrodestra, con la novità (relativa) del partito di maggioranza relativa e di governo che indica la via dell’astensione; il peso del voto di scambio. Voto di scambio beninteso che si avrà in forma diversa da quella clientelare normalmente adottata in questo caso e che riguarderà le elettrici e gli elettori delle regioni maggiormente interessante all’oggetto del contendere, quelle del versante adriatico, stretti tra il peso della questione ambientale e di quella – pur rilevante nell’interesse di molti – dei posti di lavoro.
Inutile aggiungere che il merito è assai poco conosciuto, quasi impossibile da far conoscere meglio, e che l’immaginario collettivo si misura con questo tipo di questioni: l’indicazione degli opinion – makers più importanti attraverso l’utilizzo delle varie specie di mezzi do comunicazione di massa e i temi ambientali, della qualità dello sviluppo, dell’occupazione.
Si tratta, per certi versi, di una situazione inedita: nel già ricordato referendum sull’acqua pubblica del 2011 infatti i DS, pur tra contorcimenti vari, diedero comunque indicazione di voto e questo elemento ebbe il suo effetto: oggi, come già accennato la maggioranza del PD e il governo forniscono, invece, l’indicazione di astensione, in una situazione che genererà sicuramente una “trasversalità di opinioni” che verificheremo quanto consistente.
Non è la prima volta che il governo indica, in un’occasione referendaria, la via dell’astensione: anzi, in quell’occasione fu annunciato il famoso “andate al mare”.
Era il 1991, il referendum in questione era quello sulla preferenza unica e Andreotti e Craxi puntarono sul “non voto” restando clamorosamente smentiti. Ma in quel frangente gli eredi del PCI, che si erano appena separati, fornirono l’indicazione opposta utile per costituire la base per il superamento del quorum. Quelli erano tempi però nei quali l’astensione “strutturata” non superava il 15%, in un paese nel quale dal 1948 al 1987 i votanti alle elezioni politiche avevano sempre regolarmente superato il 90% in presenza del forte richiamo al voto di appartenenza esercitato dalla presenza dei grandi partiti di massa e dal muoversi nell’ottica del partito a integrazione di massa anche di quelli numericamente “minori”.
Certo che molta acqua è passata sotto i ponti dal 1974, referendum sul divorzio, quando gli schieramenti erano molto netti e precisi e l’analisi del voto poteva essere sviluppata confrontando i dati dei partiti nelle elezioni politiche per verificare, appunto, quanto il voto di appartenenza fosse stato rispettato.
Oggi l’intreccio è tra voto d’opinione, in gran parte raccolto per via “virtuale” senza un minimo di partecipazione e presenza diretta e un mutevole voto di scambio.
L’interrogativo rimane questo: quanto potrà reggere un sistema politico fondato sulle sabbie mobili di una “trasversalità” non riconducibile all’identità di opzioni di fondo e di un sistema di valori?
Si profila una micidiale “contraddittorietà di sistema” fondata sull’individualismo e su di una “democrazia del pubblico” che ci riconduce al populismo personalistico.
Un insieme di egoismi e di presunzioni pressappochistiche: la cifra insomma sulla quale si è formato il governo Renzi.
Un quadro negativo e fortemente preoccupante che reclama una riflessione sulla fragilità di un sistema politico esposto a tutti i rischi del populismo autoritario.
La sconfitta dell’astensione il 17 Aprile prossimo potrebbe rappresentare, al di là del merito puro importantissimo, un buon viatico per aprire una stagione diversa dal considerare l’agire politico come mero fattore di soddisfacimento dell’opportunismo più deteriore come sta, proprio, nell’indicazione di non voto del cosiddetto “Partito della Nazione” presuntamente a vocazione maggioritaria e governativa ma in realtà scudo di una somma di interessi particolari da nascondere attraverso il più basso livello di propagandiamo spicciolo.
Fonte: controlacrisi.org
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