La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 30 maggio 2016

La corsa del debito mondiale

di Martin Feldstein
Negli Usa in 10 anni l’indebitamento potrebbe superare il 100% del Pil. I capi di Stato e di Governo dei 7 Paesi industrializzati più importanti sono in Giappone per discutere dei problemi comuni in materia economica e di sicurezza. Un problema importante che merita la loro attenzione è l’incremento insostenibile del debito pubblico dei maggiori Paesi sviluppati. Se questa esplosione dell’indebitamento non verrà affrontata, ci saranno contraccolpi negativi per l’economia globale e per gli stessi Paesi indebitati. Il problema è grave e in via di peggioramento quasi ovunque. Negli Stati Uniti, l’Ufficio bilancio del Congresso calcola che il debito del Governo federale è raddoppiato nell’ultimo decennio, passando dal 36 al 74 per cento del Pil. E prevede anche che, ipotizzando condizioni economiche favorevoli e nessuna nuova misura che incrementi la spesa o riduca le entrate, il rapporto debito/Pil fra dieci anni sarà arrivato all’86 per cento.
Un dato ancora più preoccupante è quello sul disavanzo, che dovrebbe raddoppiare nel prossimo decennio fino al 4,9 per cento, avviando il debito su una traiettoria che oltrepassa il 100 per cento del Pil.
In Giappone la situazione è peggiore, con un debito lordo che supera il 200 per cento del Pil. Con l’attuale disavanzo annuo del 6 per cento, a meno che non vengano prese misure il rapporto debito/Pil continuerà a crescere rapidamente.
All’interno dell’Eurozona, le condizioni sono diverse. Ma tre delle quattro economie più importanti dell’Unione Europea – Francia, Italia e Regno Unito – hanno livelli di debito e disavanzo che lasciano intuire livelli di debito ancora più alti in futuri.
L’incremento del debito pubblico assorbe fondi che potrebbero essere usati per finanziare investimenti finalizzati ad accrescere la produttività delle imprese. Le imprese ora temono che l’aumento del disavanzo possa portare ad aumenti delle tasse che scoraggeranno ancora di più gli investimenti.
È una prospettiva preoccupante per chiunque. Quando i tassi di interesse cresceranno, come sicuramente succederà, il costo del servizio del debito costringerà ad aumentare le tasse, penalizzando gli incentivi economici e indebolendo l’attività economica. E la persistenza di grossi disavanzi lascia meno margine ai Governi per incrementare la spesa di fronte a una recessione economica o a una minaccia per la sicurezza nazionale.
Ridurre il disavanzo ovviamente è un compito che spetta a chi ha la responsabilità degli introiti fiscali e della spesa pubblica, cioè Governi e Parlamenti. Ma anche le Banche centrali giocano un ruolo, in due modi: la politica dei tassi di interesse bassi nei Paesi avanzati riduce le dimensioni correnti del disavanzo di bilancio, ma così facendo allenta la pressione sui leader politici per affrontare il problema dei disavanzi futuri e incoraggia gli elettori a favorire ulteriori programmi di spesa e maggiori riduzioni delle tasse. Le Banche centrali possono dare una mano in questo senso annunciando senza mezzi termini che i tassi di interesse aumenteranno sensibilmente in futuro, rendendo più costoso per i Governi indebitarsi e rinnovare il debito esistente.
Per ridurre i disavanzi bisogna aumentare le entrate fiscali o diminuire le spese. Aumentare le aliquote marginali è al tempo stesso politicamente impopolare ed economicamente dannoso. Negli Stati Uniti, ci sono margini per accrescere le entrate senza aumentare le aliquote, limitando le cosiddette spese deducibili, cioè quelle forme di spesa che derivano dalla normativa fiscale invece che dagli stanziamenti decisi ogni anno dal Congresso.
Per esempio, un americano che compra un’auto elettrica può dedurre dalle tasse 7mila dollari. Fra le deduzioni più consistenti, negli Stati Uniti, c’è quella degli interessi sui mutui e l’esclusione dal reddito imponibile dei premi per l’assicurazione sanitaria pagati dal datore di lavoro.
Probabilmente eliminare una qualsiasi di queste deduzioni fiscali importanti non è politicamente praticabile, ma limitando l’ammontare della deduzione si potrebbero incrementare in misura rilevante le entrate dello Stato. Ecco perché faccio del mio meglio per convincere i miei amici repubblicani nel Congresso che ridurre la perdita di introiti derivante dalle spese deducibili in realtà è un modo per tagliare la spesa pubblica, anche se la riduzione del deficit nel bilancio figura nella voce delle entrate.
La buona notizia è che una riduzione relativamente contenuta del disavanzo annuo può bastare a indirizzare l’economia verso un rapporto debito/Pil molto più basso. Per gli Stati Uniti, tagliare il deficit dal 4,9 per cento previsto al 3 per cento farebbe scendere il debito verso il 60 per cento.
Lo stesso vale altrove. Il rapporto debito/Pil di lungo periodo è uguale al rapporto fra il disavanzo annuo e il tasso di crescita annuo del Pil nominale. Con una crescita del Pil nominale del 4 per cento, un disavanzo di bilancio del 2 per cento farebbe scendere il rapporto debito/Pil di lungo periodo al 50 per cento. Questo dovrebbe essere l’obiettivo a cui mirare per tutti i Paesi del G7.

Traduzione di Fabio Galimberti
Articolo pubblicato su Il Sole 24 ore
© PROJECT SYNDICATE, 2016 

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