La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 15 settembre 2016

Perché Stiglitz sbaglia sull’euro

di Guillam Duval
Joseph Stiglitz, economista americano e vincitore del premio Nobel per l'economia, ha scritto un nuovo libro: “come la moneta comune minaccia il futuro dell'Europa”. Nelle ultime settimane ha rilasciato numerose interviste alla stampa, auspicando un’uscita senza traumi dall'euro. Egli, inoltre, ritiene che la fine della moneta unica non implichi la fine del progetto europeo. Tale posizione, però, tradisce una profonda incomprensione della realtà europea. Come la maggior parte degli economisti americani, che si rifanno alla teoria delle aree valutarie ottimali, Stiglitz è stato molto critico riguardo al progetto della moneta unica fin dal suo inizio, negli anni '90.
L'idea delle aree valutarie ottimali risale ai primi anni '60, grazie agli studi del canadese Robert Mundell, che ottenne il premio Nobel per l'economia nel 1999. L'interesse di un'area ad adottare una sola moneta, scrisse Mundell, è soddisfatto se vengono rispettate alcune precondizioni: alta mobilità dei fattori di produzione (capitale e lavoro), simmetricità degli shocks (sincronia dei cicli economici fra i paesi), significativi trasferimenti fiscali, preferenze omogenee fra i cittadini dell'area. Sotto molti aspetti, la futura eurozona non soddisfaceva questi requisiti. Ma, come spesso accade con gli approcci teorici, in pratica nessun'area soddisferà mai tali criteri: un area valutaria ottimale difficilmente sarà mai qualcosa di diverso rispetto alle aree che hanno già avuto negli scorsi decenni una moneta unica. Lo stesso Mundell, d’altra parte, non ha mai considerato che le sue teorie potessero veramente implicare l'impossibilità o l'indesiderabilità di una singola moneta europea. Appoggiò il progetto della moneta unica, alla quale è stato regolarmente associato fin dagli anni '70, anche se egli ha anche spesso criticato le posizioni assunte dai politici tedeschi riguardo al percorso per giungere a crearla.
Un modo per rompere con l'approccio neoliberale
Ciò che in questo contesto è irritante, dato che viene da un economista progressista come Stiglitz (e che non è in questo, fra l'altro, l'unico), è la sua apparente incomprensione della posta politica in gioco: l'euro è il primo e principale modo per rompere con l'approccio neoliberale che lascia alla guida del mercato il processo di integrazione. Sotto tale aspetto il mercato unico si è distinto non solo per la concorrenza fiscale e sociale al ribasso (che resta tuttora un problema) ma per la stessa concorrenza monetaria. E' stato fatto un tentativo di limitare questo fatto organizzando cambi fissi ma aggiustabili fra le valute europee, ma il meccanismo non ha mai effettivamente funzionato. L'euro ha posto fine a tale sistema con il trasferimento di un elemento chiave della sovranità all'Unione, permettendo alla fine nuove politiche comuni (monetarie e di cambio) e non solo la sacrosanta politica della concorrenza. Stiglitz ha ovviamente ragione a far notare che le condizioni previste dal Trattato di Maastricht del 1992 e le regole poste per la effettiva attuazione dell’euro nel 1999 sono state profondamente inadeguate e hanno contribuito alla dura crisi del 2010 (il che è ciò che anche noi abbiamo continuamente sottolineato per 25 anni in Alternatives Economiques).
Tuttavia gli economisti americani odierni, che devono la loro autorità globale allo status di dominio del dollaro, hanno una fastidiosa tendenza a dimenticare come la storia dell'unificazione monetaria americana è stata anch'essa un processo complicato: ci sono voluti 137 anni dopo l'indipendenza (e una sanguinosa guerra civile) perchè gli americani creassero una banca centrale (1913). Si tratta di una storia tumultuosa che riporta alla memoria un recente e pertinente articolo dell'istituto Bruegel che confronta quel processo, lungo, laborioso e politicamente conflittuale (la creazione di una unione monetaria e fiscale negli USA) con la breve storia dell'euro.
L'unione bancaria
Inoltre, Stiglitz sottostima chiaramente l'importanza dei mutamenti che sono già stati apportati all'architettura dell'eurozona dopo la crisi del 2010. Spiega, anzitutto, che sarebbe necessario costituire un'unione bancaria comune. Si, naturalmente: era uno degli elementi essenziali mancanti all'inizio, e ciò ha causato molti dolori alimentando un circolo vizioso fra le difficoltà delle banche e quelle degli stati. Ma dal novembre 2014, l'unione bancaria è stata realizzata, anche se non ha ancora superato la prova del fuoco e resta tuttora imperfetta. Ciò che manca in particolare è il deposito comune di garanzia, come giustamente il nostro premio Nobel sottolinea. Mancano anche, ci dice Stiglitz, regole per limitare i surplus commerciali. Anche questo è esatto: il surplus eccessivo della Germania è il cuore del cattivo funzionamento dell'eurozona. Ma simili regole sono state già introdotte con il Six Pack del 2011, segnando un passo avanti importante per l'eurozona. E quello di cui si sente maggiormente la mancanza, per il momento, è soprattutto un sufficiente coraggio politico da parte della Commissione europea nel far uso di quelle regole e nel denunciare i surplus tedeschi.
Gli eurobond in embrione
Servirebbero anche, secondo Stiglitz, eurobonds e altri meccanismi per mutualizzare i debiti. Naturalmente, ma anche se non vengono chiamati così per ragioni di taboo politici, il Meccanismo europeo di stabilità, con una probabile capienza 700 miliardi di debito, e il piano Juncker con i suoi 300 miliardi, rappresentano proprio degli eurobond in embrione. E, soprattutto, la politica di acquisti dei titoli di stato da parte della BCE sta conducendo a una de facto velocissima raccolta di debiti europei finora nei bilanci delle banche (il che eventualmente pone altri seri problemi). 
Un altro fattore mancante, dice ancora Stiglitz, è una politica monetaria che si concentri sulla disoccupazione, sulla crescita e sulla stabilità finanziaria, e non solo sull'inflazione. I politici francesi di destra e di sinistra hanno invocato l'euro fin dagli anni '70, per recuperare una parte di sovranità monetaria che era stata, de facto, perduta dall'indebolimento del franco. In tal modo la Francia intendeva evitare che la politica monetaria continuasse a essere determinata unilateralmente dalla banca centrale della Germania, interessata solo all'inflazione e non anche alla crescita e alla disoccupazione. Su questa scorta, diversamente da ciò che dice Stiglitz, l'euro ha raggiunto i suoi obiettivi. La BCE è oggi impegnata in una politica monetaria estremamente espansiva, e il suo bilancio è superiore a quello della Federal Reserve degli USA. All'interno della BCE le critiche più feroci vengono dai rappresentanti della Bundesbank, due dei quali si sono dimessi dal board nel 2011. Anche prima della crisi del 2010, comunque, la principale critica levata contro la BCE nel periodo 1999-2008 è stata che essa stava conducendo una politica monetaria troppo espansiva, che alimentava una bolla speculativa nell'Europa del sud. Tutti questi mutamenti sono stati, è vero, messi insieme quandi ci si è trovati sull'orlo del precipizio, secondo il “troppo poco, troppo tardi” modus operandi, il che ha prolungato la crisi dell'eurozona. Eppure, se all'inizio del 2010 qualcuno avesse detto a Angela Merkel e a Wolfgang Schäuble che nei 5 anni seguenti si sarebbe costituito un fondo di 700 miliardi per aiutare i paesi in crisi, che si sarebbe formata un'unione bancaria e che la BCE avrebbe cominciato a comprare titoli di debito privati e pubblici su vasta scala, i due o sarebbero scoppiati in una risata o si sarebbero infuriati. All'epoca, erano certamente convinti che niente del genere sarebbe successo.
Mancano ancora politiche industriali
In pratica, la cosiddetta clausola “no-bail out”, che è al cuore del Trattato di Maastricht e vieta qualunque solidarietà ai paesi in difficoltà fiscale, è stata messa da parte. Stiglitz sottolinea, comunque, una persistente mancanza di politiche industriali, per non parlare di un orientamento di politica fiscale che resta fondamentalmente restrittivo. E' questo il nodo politico difficile da sciogliere. Nonostante le preoccupazioni in Francia, è un vero peccato che i cinque anni della presidenza di Francois Hollande siano stati praticamente irrilevanti rispetto a questo problema. Non è detto che avrebbe avuto successo, ma Hollande non ha nemmeno provato ad affrontare la questione. 
Nonostante tutto, è nelle conclusioni tratte dalla constatazione di tante inadeguatezze e dalle conseguenti sfide politiche che il nostro premio Nobel, soprattutto, sbaglia. Per lui, data l’incapacità degli europei di compiere significativi progressi su questi temi, sarebbe meglio cercare un’uscita senza traumi dall’euro e addivenire a un sistema monetario flessibile. Da questo punto di vista, dopotutto, “la fine dell’euro non implicherebbe necessariamente la fine del progetto europeo”. 
Ma sarebbe una scommessa pericolosa. Prima di tutto, non è chiaro in che modo un’uscita dalla moneta unica aiuterebbe i paesi che dovessero attuarla. Un paese che si cimentasse nell’impresa vedrebbe subito impennarsi il proprio tasso di interesse sui prestiti. E questo farebbe emergere la spinosa questione dell’accumulo di debiti rispetto al resto del mondo. Se tale paese mantenesse la denominazione del debito in euro nonostante l’adozione della nuova moneta nazionale, che andrebbe a svalutarsi, il peso del debito aumenterebbe; se dovesse decidere unilateralmente di non ripagare anche solo una quota di tali debiti, per molto tempo non avrebbe più accesso ai mercati internazionali. Sicuramente sarebbe costretto a patire per parecchi anni un’austerità di proporzioni peggiori di quella (stupidamente) imposta dalla Troika. Persino la Grecia, il paese che avrebbe meno da perdere rispetto all’abbandono dell’euro, ha resistito a tale tentazione. E lo ha fatto sotto la pressione popolare piuttosto che per iniziativa delle elites greche: coloro che consigliavano il salto non sono gli stessi che pagherebbero in caso di uscita dall'euro, e la gente comune di Atene, qualunque cosa dica Stiglitz, che non ha la necessità di preoccuparsi del valore dei suoi dollari, preferisce avere euro in tasca invece che dracme.
Fantascienza
Riguardo all’idea che un’uscita senza traumi dall’euro non minerebbe la costruzione europea, si tratta di uno schiaffo alla più ardita fantascienza. Se alcuni paesi dovessero lasciare l’euro, certamente la prima cosa da fare sarebbe riguadagnare competitività rispetto ai vicini. Che vuol dire, sottrarre ad essi quote dei loro mercati di esportazione e incoraggiare le imprese dei loro paesi a varcare i confini attratte dal minor costo del lavoro facente seguito alla svalutazione della nuova moneta rispetto all'euro mentre, all'interno, si avrebbe una riduzione dei consumi dovuta a una perdita di potere d'acquisto a causa della svalutazione. 
In altre parole, si tratterebbe di un processo del genere “rovina in tuo vicino” che potrebbe solo intensificare una guerra economica la quale vedrebbe tutti impegnati contro tutti all'interno dell'Unione. In realtà, la sola uscita possibile dall'euro è quella promossa da Marie Le Pen, che mette in discussione la stessa integrazione europea e che getterebbe il continente negli orrori del passato. A dispetto degli spiriti ottimisti che, come Stiglitz, vorrebbero spingerli in quella direzione, i cittadini europei non sbagliano: nonostante tanta disaffezione che legittimamente hanno verso l'euro, da nessuna parte essi sono pronti a sprofondare. Anche Le Pen, sul tema dell'uscita dall'euro, ha dovuto rallentare, dato che si tratta di una prospettiva che giustamente preoccupa gli elettori francesi.
L'impegno
Il compito è difficile e i passi avanti sono stati molto lenti. Tuttavia, una volta assunto l'impegno, l'Europa non ha altre alternative che chiudere gradualmente le vie d'uscita e sistemare i difetti dell'unione monetaria. Il resto è semplice letteratura, anche se letteratura di teoria economica di qualità, come quella di Stiglitz. Anche se la sua preoccupazione per l'Europa toccante, il modo con cui affronta l'argomento dimostra quanto, nei temi in cui un ruolo decisivo è affidato al contesto storico, sociale e politico, gli approcci puramente teorici sono in definitva poco convincenti. Possiamo incolparlo? Ogni europeo che si mettesse a scrivere un libro su ciò che gli americani dovrebbero fare per ridurre le disuguaglianze o sulla distanza che separa i Democratici dai Repubblicani, o fra i bianchi o neri, o fra gli stati a maggioranza cristiana e quelli sulle coste, mancherebbe sicuramente il bersaglio.

Traduzione di Sergio Farris
Fonte: socialeurope.eu

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