La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 20 dicembre 2016

Poletti contro i giovani, cervello in fuga

di Roberto Ciccarelli 
«Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi». Sono le parole brutali e violente usate ieri a Fano dal ministro del lavoro Giuliano Poletti per attaccare i giovani italiani («100 mila» a suo dire) che hanno lasciato il paese per cercare lavoro all’estero. «Se 100mila giovani se ne sono andati dall’Italia – ha proseguito – non è che qui sono rimasti 60 milioni di “pistola”». «Permettetemi di contestare questa tesi (probabilmente allude alla «fuga dei cervelli, [ndr.]). È bene che i nostri giovani abbiano l’opportunità di andare in giro per l’Europa e per il mondo. È un’opportunità di fare la loro esperienza, ma debbono anche avere la possibilità di tornare nel nostro Paese. Dobbiamo offrire loro l’opportunità di esprimere qui capacità, competenza, saper fare».
Poletti ha una lingua impastata di dialettismi («pistola» è uno di questi) gergalità burocratiche e tecnicismi, oltre a un’infallibile capacità di dire la cosa sbagliata nel momento sbagliato. L’affermazione scioccante di ieri si aggiunge a un rosario di uscite. Come quella sull’inutilità della laurea per trovare un impiego sul mercato del lavoro precario: «Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21» disse ad esempio il 27 novembre 2015. Oppure quella di pochi giorni fa sulla presunta necessità di fare la legge elettorale per andare al voto prima del referendum sul Jobs Act indetto dalla Cgil. Come tutte le altre, anche questo pensiero dal «sen fuggito» ha prodotto rigetto e indignazione.
«Evidentemente mi sono espresso male e me ne scuso – ha detto Poletti poche ore dopo – mai pensato che sia un bene per l’Italia se i giovani se ne vanno». «Non è giusto affermare che a lasciare il nostro Paese siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno competenze e qualità degli altri». « Ritengo, invece, che è utile che i nostri giovani possano fare esperienze all’estero, ma che dobbiamo dare loro l’opportunità tornare nel nostro paese e di poter esprimere qui le loro capacità e le loro energie».
Il ministro del lavoro ignora che, nella maggior parte dei casi, questi «100 mila giovani» vanno «all’estero» per trovare un’occasione di lavoro, spesso precaria, anche se molto più tutelata in sistemi sociali che, sempre più, adottano dispositivi di «workfare» e trasformano la vita sociale e lavorativa in un percorso ad ostacoli anche per i cittadini comunitari. Inoltre, i governi che Poletti ha frequentato negli ultimi due anni e mezzo non hanno fatto nulla per istituire un moderno sistema di tutela sociale e di sostegno universalistico al reddito di base per i «60 milioni» di italiani.
Le «scuse» contenute nella precisazione vanno anch’esse analizzate come un documento vivente del renzismo declinante. Nelle parole di Poletti si nota la confusione tra «opportunità» e «precarietà», tipica dei neoliberisti attardati agli anni Novanta, quando la precarizzazione è stata istituita in cambio di una «sicurezza sociale» che non è mai arrivata.Per il momento, ad attenderli, ci sono solo milioni di voucher. Questa è la cifra del «blairismo» di terza mano rimasticato da Renzi e dai suoi epigoni al governo. Vent’anni dopo, sono davvero pochi coloro disposti a credere a queste promesse che in realtà sono fondate su un inganno in cui pochi credono.
Nella giornata in cui l’Inps ha confermato il bilancio drammatico del Jobs Act, Poletti ha ribadito che «la riforma è stata una buona legge», «ha fatto bene e fa bene al Paese. Non vedo ragioni per cui dobbiamo intervenire». A parte una vaga, e indeterminata, concessione sui voucher, Poletti ha confermato la linea di Gentiloni: la riforma, dettata dalle compatibilità europee, è l’ultima trincea del renzismo in attesa delle elezioni politiche. Questa chiusura totale rispetto alla realtà è confermata dal suo personale bilancio del «No» al referendum: «È stata l’espressione di un disagio che è troppo semplificato collegare al Jobs Act. È un problema legato al cambiamento della tecnologia che produce incertezze».
Più che altro il «No» è un rifiuto del renzismo. Ma i renziani, come il Capo, non l’hanno capito. Ancora.

Fonte: Il manifesto 

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