di Antonio Lettieri
Valentino è stato un grande intellettuale. Sicuramente non era questo il modo col quale si sarebbe descritto. Amava essere un giornalista, e questo gli bastava. Ma non basta a noi. Sappiamo che aveva una straordinaria acutezza, capacità e rapidità di scrittura, com’era necessario per farel’editoriale di un giornale che nel giro di qualche ora prendeva vita. Ma il suo sguardo sugli avvenimenti del giorno era un breve segmento di una visione lunga e profonda della realtà dalla quale prendeva spunto in quel particolare momento. Gli intellettuali che sono chiamati a scrivere i loro editoriali domenicali non mancano. Ma , appunto, seguono il filo del loro discorso. Obbediscono al compito dell’intellettuale, tanto più apprezzato in quanto distaccato (spesso solo apparentemente) dalle vicende della cronaca politica.
Non mancano giornalisti eccellenti, ma rispettosi dei ruoli. C’è chi fa analisi politica e chi economica. Chi, più raramente, si affaccia sugli scenari dei rapporti sociali, sulle condizioni di lavoro, ma lasciando intendere o ammonendo che, in definitiva, i problemi del lavoro, del vivere quotidiano per milioni di persone, la diseguaglianza sono i tratti e gli esiti naturali del tempo in cui viviamo. Per l’intellettuale che era Valentino, queste distinzioni fra politica, economia, rapporti sociali rischiavano di essere un artificio: nei suoi brevi quanto intensi editoriali sul Manifesto queste diverse angolazionis’intrecciavano in una visione non ideologica ma puntualmente riferita agli eventi analizzati.
La politica e l’economia e i loro riflessi sulla condizione di vita e di lavoro delle persone normali, un tempo si diceva delle masse, diventava naturalmente un unico campo di riflessione e di rappresentazione della realtà. Le lotte operaie, il ruolo del sindacato, i suoi successi come i suoi errori, erano parte essenziale del suo discorso insieme rigoroso e ricco di sollecitazioni per un confronto sull’analisi dei fatti.
Valemtino è stato un maestro del giornalismo, senza averne mai l’aria. Come gli artisti del Rinascimento facevano delle loro botteghe una scuola, così contribuì a fare del Manifesto una scuola di giornalismo. Da tutti apprezzata, anche da quanti la utilizzarono per intraprendere itinerari lontani e talvolta estranei ai punti di partenza.
La biografia di Valentino s’intreccia con la storia della sinistra italiana della seconda parte del secolo scorso – una storia per tanti versi contraddittoria, spesso deludente e, alla fine, autolesionista. In altri tempi si parlava del vizio congenito del trasformismo. Oggi il paradigma è così diffuso che la definizione appare scarsamente significativa o, come si dice, novecentesca. Ma nella sinistra esisteva anche una diffusa attitudine caratterizzata dalla ricerca di rigorose compatibilità ideologiche: un rigore per alcuni aspetti apprezzabile, ma anche spesso incline a cadere nella rigidezza dell’analisi e in un atteggiamento intellettuale di superiore partigianeria, talvolta sfociante nel settarismo. Mentre della prima inclinazione, nel suo caso, non ci fu mai nemmeno l’ombra, Valentino non fu mai neppure sfiorato dal secondo vizio. Guardava agli avvenimenti con rigore intellettuale ma insieme con interessata e schietta apertura al discorso anche con quanti teorizzavano o semplicemente inclinavano verso un diverso o contrapposto modello di interpretazione e valutazione.
Gli capitava così di potere essere irrevocabilmente se stesso con le sue convinzioni di fondo, pur rimanendo sempre aperto alla verifica e al confronto; in questo modo, godendo non solo dell’apprezzamento naturale degli amici e dei compagni, ma anche di tanti politici e commentatori chiaramente e, consapevolmente, lontani.
Oggi è facile incorrere nel rischio dell’enfasi nel lodare l’amico e il compagno che ci ha lasciati. Può succedere in altre circostanze; ma non nel caso di Valentino. Ogni enfasi sarebbe inutilmente artificiosa e banalmente fuori luogo. Valentino raccoglieva in sé molte doti in modo spontaneo, senza nemmeno l’ombra di una superba consapevolezza. Esercitava la sua intelligenza di analista politico economico e sociale nel quadro di una cultura generale che si può definire limpidamente classista, con uno stile e una professionalità che sarebbero potuti apparire frutto del suo disincanto, se non fossero stati connaturati a un’identità forte, che gli consentiva l’esercizio di un intelligente e fecondo scetticismo rispetto alle pretese novità della politica quotidiana.
Ho incontrato per l’ultima volta Valentino verso la fine di aprile in occasione di un convegno alla Sapienza in ricordo di Federico Caffè. Valentino non si era lasciato sfuggire l’occasione di partecipare a un momento di celebrazione del vecchio maestro nel trentennio della sua misteriosa sua scomparsa. In un’epoca ormai remota si era stabilita una sorta di consuetudine per la quale andavamo nel piccolo studio di caffè alla Facoltà di economia per avere la sua valutazione di avvenimenti economici a livello nazionale e internazionale, la cui acutezza e profondità ci apparivano istruttive e preziose. Caffè, rigoroso nei suoi giudizi morali prima ancora che politici, era un grande estimatore di Valentino, e non sapeva dirgli di no ogni volta che gli chiedeva di esprimere sul Manifesto la sua opinione intorno ad eventi di politica economica di particolare rilevanza politica e sociale.
Profittammo dell’occasione per scambiare qualche idea, e ci lasciammo promettendoci che avremmo preso il caffè insieme al solito baretto al centro della Suburra, dove abitava. Sarebbe dovuto accadere appena dopo le festività che si concludevano col Primo maggio. Immediatamente dopo, gli inviai una mail ricordando l’impegno del caffè. L’impegno è con grande rammarico svanito. Ma il suo ricordo, la sua intelligenza, la sua umanità e l’inattaccabile coerenza delle sue convinzioni di fondo e del suo stile di vita sono destinati a rimanere presenti nel ricordo di tanti amici e compagni che l’hanno conosciuto.
Fonte: eguaglianza e libertà
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