di Rocco Olita
L’intervista di Nardella al Corriere della Sera è la miglior risposta che dal Pd poteva arrivare all’accorato appello epistolare dei sindaci arancioni: in sostanza, dice il loro collega gigliato, lo schema destra-sinistra è superato, ed è tempo, ormai, di guardare al “partito della nazione”, comunque lo si voglia chiamare.
Nardella non è uno qualunque, capiamoci. Non lo direi un portavoce di Renzi, ché al massimo ne è il segnaposto, ma comunque ha la sua importanza. È il sindaco della città simbolo del renzismo realizzato nella pratica di governo e nella idea di politica, quella dell’amministrazione rottamante e della Leopolda restauratrice, quella scuola di quadri che sceglie e acclama i nuovi vati del corso presente, da cui è passato pure lui, e quindi ha titolo a spiegarne ragioni e visione.
Il cinismo con cui spazza la mozione dei sentimenti di Pisapia, Doria e Zedda può apparire cruento, nondimeno va detto che quell’appello poggia sulla tristezza: Milano, Genova e Cagliari dovevano incarnare il vento della speranza per il centrosinistra, ora si appellano a quell’accordo politico già archiviato sospinti dai refoli delle paure che s’aggirano per l’Europa; non insieme per cambiare e immaginare un mondo nuovo e migliore, al massimo uniti a fortificare i bastioni delle ridotte possedute contro il potenziale assalto di barbari ipotetici.
No, nella sua lapalissiana grossolanità, il successore di Renzi a Palazzo Vecchio coglie il punto: per la nuova classe dirigente democratica, il discrimine non è più giocato sulla contrapposizione politica e ideale destra-sinistra, ma nel clivage pratico alto-basso, vincente-perdente, meglio, dentro-fuori. Dentro il potere, i palazzi, il governo (Nardella lo dice chiaro, seppure credo senza comprenderne appieno il senso: «L’importante è che sia un partito legato alla dimensione del governo, non della lotta». Nessuna idea di cambiamento o alternativa, solo gestione dell’esistente e sopravvivenza nel sistema); fuori da tutto. Questo è quanto.
Una volta dentro, allora valgono regole diverse, pure su quei temi che al tempo dei provini per il talent delle future carriere di partito si dicevano “appartenenti” alla propria tradizione “come il conflitto di interessi e la questione morale” e che oggi, per le cerimoniere dei gran balli della nuova aristocrazia, nella migliore delle ipotesi vengono passati sotto silenzio, al punto che ha ragione chi si chiede cosa sarebbe successo se un problema come quello di cui si discute in questi giorni, invece che una banca “etrusca”, avesse interessato un istituto mediolanensis guidato magari da qualche rampollo di dinastie arcoriane. Dopotutto, ora anche il “principe” di questa stagione scopre che le banche hanno dipendenti e bilanci che rischiano da un loro non salvataggio, mentre prima c’erano solo “le famiglie e le aziende”.
Si potrebbe spiegare a una classe dirigente affermatasi per sottrazione che il compito di una forza di sinistra doveva essere quello, per dirla con Togliatti, di «portare nello Stato le masse che ne erano state escluse», ma servirebbe a poco; sempre per sottrazione, l’attuale élite di potere ha inteso quelle “masse” con la propria compagnia di giro, e quindi direbbe realizzato, con tanto di hashtag, l’impegno del tizio col gelato sulle magliette che si vendono alle feste dei giovani che si dicono di sinistra.
Loro sono dentro, e chi è fuori si arrangi. E poi, sempre Nardella, di quale sinistra parliamo? «Quella antisistema? La svolta di Tsipras dimostra che la scorciatoia dei populismi è sbarrata, ammesso che sia mai esistita. Quella socialdemocratica? Ma la socialdemocrazia in tutta Europa è alla canna del gas». Avrebbe potuto aggiungere senza togliere niente allo spessore della sua analisi e alla finezza dell’eloquio: “e io speriamo che me la cavo”.
Il fatto è, però, che tutti quelli che sono fuori senza speranza alcuna, nemmeno di poter saltare su una carrozza parcheggiata in una vecchia stazione che porta il nome di un granduca, rischiano di vedere in quello schema la loro condanna, ecco perché si lasciano attrarre da chi promette, se non riscatto, almeno vendetta: se non riuscirà a placare le proprie angosce distribuirà a chi sprezzantemente li ignora un po’ del loro timore. E così, l’arrocco spaventato di chi è dentro, rischia di consegnare il resto a quelli che sempre più minacciosi s’affollano all’esterno, irrobustendone le fila in virtù di una particolare eterogenesi dei fini.
Fonte: Filopolitica
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