La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 1 dicembre 2015

Se otto ore vi sembran vecchie

di Carlo Clericetti
L'autorevole e inventivo ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha suscitato un vivace dibattito, come spesso capita quando esterna, affermando che "l'ora di lavoro a fronte dei cambiamenti tecnologici è un attrezzo vecchio". E' necessario, ha proseguito il ministro, "inserire nei contratti anche altri criteri per la definizione della retribuzione che non siano solo riferimento all'ora-lavoro: l'idea sarebbe quella di misurare anche l'apporto dell'opera e quindi lavorare all'introduzione di forme di partecipazione dei lavoratori all'impresa".
Non c'è bisogno di precisare che stiamo parlando di lavoro dipendente, dato che per gli autonomi il problema non si pone. Ora, che ci siano lavori in cui l'orario è un fattore solo formale non è una novità. Non dovevamo aspettare gli stupefacenti progressi della tecnologia perché questo si verificasse.
In generale, praticamente tutti i lavori intellettuali o dirigenziali rientrano in questa categoria, ma non solo: non si è mai visto un pompiere che abbandona lo spegnimento di un incendio perché è ora di timbrare il cartellino, né medici e infermieri che lasciano a metà un'operazione perché hanno finito l'orario, e così via. Anche per i giornalisti, per restare all'esperienza di chi scrive, l'orario è qualcosa di evanescente e dilatabile in modo indefinito, nonostante che nel contratto sia indicato con precisione.
Per moltissime figure, insomma, quello che dice Poletti è sempre esistito e nessuno l'ha mai messo in discussione. E allora, dov'è la novità?
Si deve supporre che la novità stia nell'applicare questo metodo alle altre figure, quelle per le quali invece stabilire un orario è compatibile con il tipo di lavoro da svolgere: uffici, fabbriche, ospedali, supermercati, servizi di vario genere e via enumerando per quindici milioni di lavoratori che lstat correttamente classifica come dipendenti. In questi "misurare l'apporto dell'opera" diventa una perifrasi che può essere tranquillamente tradotta con una sola parola: cottimo. Sei un impiegato? Ti pago secondo il numero di pratiche sbrigate. Un operaio? A numero di pezzi prodotti. La modernità consisterebbe nel tornare al vecchio modo di spremere il più possibile chi lavora. La precarizzazione come sistema generale. Quando la mattina all’inizio della settimana vai lavorare non sai quante ore lavorerai e quanto salario ti spetterà. Insomma un lavoratore alle dipendenze come un avvocato libero professionista.
Naturalmente non è sempre facile misurare l'intensità del lavoro, anzi, in realtà non lo è quasi mai. Ieri la produttività poteva essere ridotta, al di là della buona volontà o dell'abilità del lavoratore, da un tornio o da un telaio non ben funzionanti, oggi potrebbe essere un computer obsoleto che magari lavora lentamente o si blocca ogni tanto. E questi sono solo esempi semplici e banali, perché si sa che la produttività è una questione complessa e dipende da molti fattori per la maggior parte non riconducibili all'impegno di chi lavora.
O forse l'aspetto più importante a cui si mira è un altro ancora. Forse l'idea è che "l'apporto dell'opera" si misura per ogni singolo lavoratore, e quindi bisogna lasciare spazio a una retribuzione diversa per ciascuno. E dunque, dopo lo sforzo tuttora in corso per spostare il baricentro dalla contrattazione nazionale a quella aziendale, si arriverebbe a chiudere il cerchio, arrivando alla contrattazione individuale. Un ritorno non più agli anni '50, ma direttamente all'800, quando organizzarsi in sindacati era considerato un atto sovversivo.
Un processo alle intenzioni? Esatto, proprio così, legittimato dal fatto che le intenzioni di questa classe dirigente appaiono chiare da tempo. Continuando così, una "novità" dopo l'altra, ci ritroveremo indietro di più d'un secolo.

Fonte: Eguaglianza e Libertà 

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