La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 29 ottobre 2015

L'eresia di Pasolini

di Davide Nota
1. Il nemico
“Il pericolo sovrasta tanto il patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono. Esso è lo stesso per entrambi: di ridursi a strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.” (Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, da Angelus Novus)
2. Se la destra cita Gramsci
“E ora che abbiamo perso, ci vuole Gramsci”.
No, non sono le parole del compagno Paolo Ferrero dal palco del congresso nazionale di Rifondazione comunista, né si tratta di un intervento di Nichi Vendola a “Ballarò”.
A scrivere che “ci vuole Gramsci, cioè che è necessario un progetto gramsciano anche nel centrodestra” è Angelo Crespi, consigliere dal 2008 al 2011 del Ministro dei Beni e delle Attività Culturali Sandro Bondi, docente di “Storia del giornalismo” presso l’Università Cattolica di Milano e collaboratore dei quotidiani “Il Giornale” e “Il Foglio”. È il 15 aprile del 2006 e l’Unione di Romano Prodi ha da poco (e di poco) vinto le elezioni politiche alla Camera e al Senato. Dalle pagine del settimanale di cultura “Il Domenicale” (2002-2009), ideato e finanziato da Marcello Dell’Utri, il direttore Crespi diffonde questa analisi: al centro-destra è mancata “una adeguata politica culturale per creare quel consenso indispensabile per ottenere la rivoluzione liberale che si preconizzava nel 1994 e poi nel 2001 […]. Solo attraverso la cultura può realizzarsi una vera rivoluzione […]”.
Facciamo un salto indietro e affacciamoci al meeting di Rimini del 2000 di “Comunione e Liberazione”. Ospiti dell’anno: Silvio Berlusconi e Giulio Andreotti. All’interno del convegno viene allestita una mostra anti-risorgimentale dal titolo “Un Tempo da riscrivere: il Risorgimento italiano”. Attenzione al verbo-chiave, “riscrivere”, perché sarà proprio questa la linea perseguita su più fronti nel ventennio berlusconiano. Intellettuali di diverso pensiero, da Scalfari a Montanelli, esprimono preoccupazione. Il cenacolo dongiussaniano risponde con rassicurante pacatezza. E cita Gramsci: “Antonio Gramsci, che non era un chierico, sosteneva che il Risorgimento fu borghese e antipopolare” (Da CL una risposta ai laici, di Giancarlo Cesana). Vero. Che però Gramsci contesti il Risorgimento da comunista e non da restauratore della monarchia papalina sono dettagli che per Cesana non contano.
Stacco di camera: è il 2008. Licio Gelli ha un programma su “Odeon TV” dove riformula la storia del Fascismo (“Sono nato fascista e morirò fascista”), loda l’operato della Loggia massonica P2 e consegna pubblicamente il testimone a Silvio Berlusconi. Per il completamento del Programma di Rinascita democratica, sostiene, “l’unico che può andare avanti è Silvio Berlusconi”. Primi invitati alla trasmissione “Venerabile Italia”: Giulio Andreotti e Marcello Dell’Utri. Ma il delirio di potenza della restaurazione non fa più scandalo. La metamorfosi è compiuta.
3. Piccoli populismi crescono
Al di là del greve ma ben noto processo di revisionismo clerico-fascista, tutto sommato facilmente interpretabile, l’egemonia del blocco conservatore in Italia si è caratterizzato per un fenomeno più ambiguo di neutralizzazione semantica ed esproprio del lessico dell’alternativa.
Basti pensare all’ex Ministro dell’Economia Giulio Tremonti che per un triennio (dal 2008 al 2011) imperversò in tutti i salottini della tv pubblica e privata in qualità di post-moderno discepolo di Marx. Pensiamo a un libro come La paura e la speranza (2008) in cui tutte le tesi “No global” contro il mondialismo, il neo-liberismo e la finanziarizzazione dell’economia vengono mimate per proporre, infine, una ricetta di destra (elemosine ai poveri e finanziarie al Capitale). “Il re è nudo!” – grida il re.
Oppure pensiamo ai neo-fascisti, improvvisamente mutati (sempre nel magico 2008) in militanti di “Casa Pound” e del “Blocco studentesco”. Sono anche loro No global come Tremonti, utilizzano il simbolo del lampo nel cerchio dei Centri sociali degli anni Novanta, partecipano alle occupazioni scolastiche dell’Onda e intonano “Né rossi né neri, ma liberi pensieri.”.
L’anno seguente, il 4 ottobre del 2009, sulla stessa piattaforma di “confusione teorica” di Casa Pound ma con maggiori popolarità e capitale, viene fondato il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Il resto della storia è noto.
Esiste un filo sottile che collega questi tre momenti della recente vita politica italiana ed è un filo linguistico. Tanto Giulio Tremonti quanto il gruppo di Casa Pound e Beppe Grillo si appropriano di un lessico di derivazione movimentista e “social-forumista” recidendone la connessione con la tradizione del pensiero marxista. L’appropriazione avviene anche a livello iconografico: al volto di Pasolini inglobato nelmerchandising della comunicazione virale non corrisponde più alcun tipo di contenuto. Ogni citazione nel blog dei 5stelle si contestualizza in uno pseudo-discorso finalizzato alla performance che la neutralizza nel momento stesso in cui la esprime. Un frammento di testo isolato dal suo contesto originario e riusato come campanello di Pavlov evocativo di emozioni indotte è lo strumento di una manipolazione di classe. È la “Narrazione emotiva” di cui parlava Luttazzi prima di essere bruciato da una rappresaglia virale. Sarebbe utile chiedersi, al di là dei singoli protagonisti per cui la storia non richiede necessariamente auto-coscienza, chi tra i poteri italiani possa avere interesse ad una operazione del genere.
Io credo tutti. L’incendio del 2008 si estende a vista d’occhio e inizia a deflagrare in una crisi strutturale dalle imprevedibili conseguenze sociali. Il vocabolario, la terminologia e il consenso della “lotta al sistema” devono saldamente stare nelle mani del Capitale. Occorre prevenire la rinascita di una Sinistra di classe (che organizzi razionalmente il dolore di lavoratori precari, disoccupati e migranti) anticipandone tempi e parole d’ordine. La comunicazione amplifica ciò che fa piacere ai suoi padroni e i giochi sono presto fatti. L’alternanza senza alternativa tra centrodestra e centrosinistra lascia posto, nel 2013, ad un conflitto tra “larga intesa” e “populismo”, cioè tra conservazione e reazione. Ora la destra è tutto l’esistente.
4. L’eresia di Pasolini
L’eresia di Pasolini è il titolo di un libro di Gianni D’Elia edito da Effigie nel 2005 e a cui fa seguito il pamphlet Il Petrolio delle stragi (2006), indagine svolta assieme al giudice Calia sull’omicidio del poeta corsaro e sul suo ultimo romanzo incompiuto, Petrolio, dedicato alla mutazione antropologica italiana, al doppio Stato (come cifra politica del doppio psicanalitico) e all’omicidio di Enrico Mattei come primo atto di un golpe graduale che Pasolini definì il “Genocidio”.
D’Elia dedica il suo libro di “studi pasoliniani” alla generazione di Genova e Firenze e scrive: “Ed è proprio la nostra storia sempre più globale e tragica che spinge all’urgenza di un nuovo incontro tra la poesia rivoluzionaria di Pasolini e il movimento prossimo venturo, che si è già affacciato in Italia e sulla scena del mondo, per una consonanza ideale e «una disperata vitalità» di lotta, contro la «Nuova Preistoria» della guerra e del terrore, del dogma e del dominio, della retorica di potenza contemporanea.”.
Perché ripartire proprio dal corpo massacrato di Pasolini come occasione fondativa della Sinistra da rifare del XXI secolo? Innanzitutto perché nella sua opera di intellettuale a tutto tondo, oltre che di “cavia” antropologica nel campo della realtà del «nuovo fascismo», dai «campi di concentramento» delle borgate italiane alla scoperta del nuovo proletariato del Terzo mondo (ma anche dei movimenti libertari della contestazione americana), sono già previsti tutti i grandi temi della crisi culturale che nel giro di tre decenni seppellirà una storia politica nata come riferimento di popolo nel 1921 e implosa dopo molti anni di inefficacia nell’anno chiave del 2008, nell’esilio determinato dalla «Restaurazione di sinistra» del Partito democratico e dal folle conflitto fratricida di Rifondazione a Chianciano.
Non dico che è mancata la “Cultura” in questi anni, perché parlare di cultura oggi è dire tutto e niente (può darsi anche una cultura puramente accademica e autoreferenziale, che non ha nulla da dare ma solo da chiedere) ma è mancata una “Visione” d’insieme sulla nostra storia passata e recente, una prospettiva vasta che dal 1848 parigino di Blanqui e Baudelaire arrivasse all’atomo opaco del presente interrogandosi sul trentennio ultimo della restaurazione neo-liberista e sugli errori compiuti da almeno due generazioni della nostra famiglia utopica e comunista.
L’abolizione degli studi umanistici nella pratica politica, sotto forma di lezioni, convegni e workshop, è concausa di una regressione burocratica e tecnicistica di quel che fu il “Partito degli intellettuali” e che da molti anni non è più in grado di assolvere a quella sua funzione propulsiva di nuove idee ed opere, d’avanguardia e popolari al contempo (oltre ogni specialismo d’élite e snobistico), che rappresentava invece la sua più profonda ed intima differenza dalle altre organizzazioni partitiche, caratterizzandolo come “Scuola di pensiero” organizzatrice del movimento reale di liberazione umana.
Prendo a prestito le parole di Fabio Monti: “Dopo il ciclo dei fascismi del secolo scorso il movimento operaio seppe riorganizzarsi e riformulare un’alternativa di sistema basata su un pensiero filosofico chiaro. Ciò è potuto accadere grazie alla paziente opera di grandi intellettuali, come Antonio Gramsci e Rosa Luxemburg, che gettarono le basi per la rinascita della sinistra con anni di anticipo. Molto probabilmente ci troviamo oggi in una fase storica simile.”.
Concordo. Dobbiamo dunque essere consci del fatto che il nostro compito attuale è quello di raccogliere il materiale idoneo per la ricostruzione di un orizzonte filosofico. Ciò può essere fatto solo a partire da chi questo “nuovo fascismo” oggi palesatosi nelle forme del pensiero unico e dell’egemonia del mercato transnazionale, ma anche della minaccia di una svolta autoritaria come unica alternativa, seppe comprenderlo e denunciarlo sin dalla sua origine melliflua degli anni Sessanta, tra gli abbagli di una generazione che preferì invece confondere lo «Sviluppo» per il «Progresso» e la “Rottamazione del passato” per la libertà. Ecco perché è importante ritrovare Pasolini per fondare la Sinistra del XXI secolo.
5. Alcuni temi contro l’egemonia
Ci sarebbe bisogno di un convegno per elencare i temi pasoliniani che pongono le basi possibili per una nuova Sinistra di alternativa e di classe nella postmodernità. La difficoltà consiste nel fatto che essi non si rintracciano solo nelle raccolte di articoli politici (come nei libri Scritti corsari o Lettere luterane) ma sono ovunque disseminati nelle opere poetiche, nei romanzi e persino nei libri di teoria letteraria e cinematografica. Leggere un articolo come “Genocidio”, dagli Scritti corsari, senza avere studiato un romanzo come Petrolio (di cui infatti parla), o senza avere presente il poemetto La Guinea, è a dir poco riduttivo.
Alcune riflessioni che vengono solo accennate negli interventi d’opinione sono approfondite e sviscerate nelle terzine dei poemetti o nella voce fuori campo dei film documentari come Appunti per un’Orestiade africana, opera girata in Uganda e Tanzania tra il 1968 e il 1969 e che illumina non poco sull’atteggiamento dell’autore nei confronti della contestazione universitaria di quegli anni in Italia. Nella nota polemica in versi relativa ai fatti di Valle Giulia (ma anche in alcune pagine de La divina mimesis e in Petrolio; o in un film come Porcile) egli interpreta provocatoriamente la rivolta giovanile come un processo sostitutivo interno alla classe egemone, una “rottamazione” della vecchia borghesia paternalista e cattolica da parte della futura classe dirigente aggiornata ai canoni europei della modernità industriale ma ininfluente in termini di “lotta di classe” poiché senza alcuna connessione con il movimento operaio, con la questione meridionale e soprattutto senza cognizione dell’esistenza di un Terzo mondo il cui feroce sfruttamento coloniale permetteva quell’agio europeo di cui, secondo Pasolini, la cultura del Sessantotto era inizialmente pervasa.
Quella che parve subito come un’analisi ingenerosa e paternalista, insopportabile al punto che ancora oggi dà adito ai peggiori fraintendimenti su un Pasolini “reazionario” e nemico degli studenti, non era invece altro che l’invito severo ma fraterno ad assumere un punto di vista di classe rivolto a una generazione che sin dal Convegno palermitano del Gruppo ’63 (che la anticipa e ne prepara le tesi) rischiò di caratterizzarsi (e in parte lo fece) per il rifiuto programmatico delle tesi di Gramsci in nome di un conflitto vitalistico e generazionale rivolto anche contro gli intellettuali della Resistenza.
L’equivoco a cui si prestano in malafede molti dei commentatori conservatori oggi, a cui piace particolarmente citare Pasolini a seguito di ogni scontro di piazza, è quello di fare finta che una poesia contro la borghesia sia stata una poesia contro la lotta. Chissà perché, però, non arrivano mai a leggere i versi finali del testo, quando Pasolini invita gli studenti ad usare la violenza non contro i poliziotti ma contro l’istituzione della Magistratura!
La realtà è che Pasolini è il primo intellettuale New-global della storia del marxismo europeo. Egli infatti contestualizza il processo di “borghesizzazione” del proletariato italiano in un’ottica transnazionale dove la momentanea diffusione di ricchezza pro capite europea non dipende dalla soluzione delle contraddizioni del sistema capitalista ma dalla delocalizzazione dell’iniquità in altre aree del mondo e rimanda necessariamente a una crisi ventura. Non assumere un punto di vista globale avrebbe condotto la sinistra italiana a gravissimi errori teorici conducendo contemporaneamente un proletariato assimilato alla qualità di vita della borghesia all’abbaglio di uno Sviluppo che ne avrebbe colonizzato, anche grazie ai metodi della “comunicazione” oggi analizzati dal filosofo Mario Perniola in alcuni testi fondamentali come Miracoli e traumi della comunicazione (Einaudi, 2009), la lingua e l’inconscio.
Negli anni in cui Pasolini inviava le sue “lettere eretiche” agli italiani, non senza molti e inascoltati inviti all’aggiornamento dei metodi della partecipazione politica («Il PCI ai giovani!») e della filosofia di origine stessa del marxismo verso un’idea di “Sinistra plurale” come casa comune delle solitudini sociali (che vedremo praticata solo nei primi anni del Duemila grazie ai Social Forum) era possibile, forse, non comprenderne a pieno l’urgenza.
Ma oggi sappiamo bene quanto le sue analisi, si siano rivelate fondate a partire dagli anni Ottanta e Novanta del Novecento. La nostra generazione, a cui dobbiamo dare voce, è la prima vera vittima sacrificale di quell’abbaglio a cui gli eredi del PCI non hanno saputo rispondere se non tramite una scissione tra omologazione e cristallizzazione minoritaria. Solo dalla sua critica, umanistica e gramsciana, potremo tornare a esistere come una necessità reale, ritrovando il mondo e la sua lingua e le sue ragioni.

Intervento già apparso sul numero zero de “La Costituente”, Egemonia e controegemonia

Fonte: Esseblog

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