La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 20 aprile 2017

Capitalismo, energia, ecologia. Intervista a Stéphane Haber

Intervista a Stéphane Haber di Paolo Missiroli
Stéphane Haber è Professore di filosofia a l’Université Paris-Ouest-Nanterre, nonché Direttore aggiunto del centro di ricerca Sophiapol, si occupa principalmente di filosofia politica ed epistemologia delle scienze umane, in particolare ha approfondito la teoria critica tedesca: Marx, Honneth ed Habermas. Più di recente si è occupato del concetto di alienazione a partire dalla tradizione marxista mentre i suoi lavori odierni si concentrano su un’analisi della storia del capitalismo legando insieme una ricostruzione storico-genealogica ad una prospettiva critica che intende tenere conto anche delle questioni ecologiche e degli sviluppi tecnologici, nonché delle conseguenze che l’evoluzione dei sistemi di produzione comportano sulle forme di vita delle persone.
Gli obbiettivi che Pandora si propone sono, essenzialmente, due: da un lato, cartografare il nostro momento storico, cioè leggere le sue trasformazioni e le sue problematiche cercando di comprenderle; dall’altro, pensare politicamente il presente, ovvero pensarlo come il risultato di una lotta (o di un gioco) tra una molteplicità di forze. Fare questo non ha voluto dire per noi studiare esclusivamente il capitalismo, ma in ogni caso considerarlo come un argomento privilegiato della nostra ricerca. Ora, nel corso di essa, abbiamo scoperto un tema che ci sembra centrale per svolgere il compito che ci siamo assegnati: l’ecologia. Ci pare infatti che anche secondo lei, mi riferisco soprattutto al libro Penser le néocapitalisme, ma, da un punto di vista più filosofico anche a Critique de l’anti-naturalisme, pensare il capitalismo senza pensare il problema ecologico sia arrestare l’analisi a metà. È d’accordo? Che ruolo gioca oggi l’ecologia nell’analisi del capitalismo?
"Nel libro, pubblicato ormai qualche anno fa, di cui parla, partivo da una certa diagnosi della critica sociale e del suo impatto politico. Mi sembrava, all’epoca, che il femminismo e l’anti-razzismo avessero operato un ribaltamento completo del riferimento alla «Natura» (un classico nel pensiero critico occidentale, almeno da Rousseau) in un antinaturalismo radicale fondato sul tema della costruzione. In altre parole, la messa in questione dell’essenzialismo (le Donne, la femminilità, l’esser-nero, etc.) prendeva, a quel punto, la forma di una decostruzione delle attribuzioni autoritarie che si volgevano verso le popolazioni dominate, interiorizzate e stigmatizzate. Certo, si sapeva da molto tempo che l’ideologia tende a naturalizzare degli stati di fatto e delle differenze sociali, cioè convenzionali (e profondamente imprecise, di fatto); ma la novità della situazione, diciamo, post- foucaultiana era che la messa in evidenza di questo meccanismo banale di naturalizzazione sfociava in un rifiuto dell’idea di Natura in generale ed anche nella supposizione che, appena si parla di Natura, è per affermare cose estremamente sospette e pericolose per quanto riguarda la realtà sociale. D’altra parte, questo movimento del pensiero di estendeva anche al di fuori della sfera della teoria sociale critica grazie a dei nuovi modi di approcciare la storia delle scienze e delle tecniche (secondo lo stile di Bruno Latour, il quale, pur distaccandosene ufficialmente, si mostrava prossimo alla problematica della «costruzione»). Come sbocco ultimo di questo rigetto, abbiamo Philippe Descola, per il quale il termine «naturalismo», paradossalmente, designa la controparte di un prometeismo ottuso, una maniera insolente di isolare la natura lontano dalle attività umane e di ignorarla irresponsabilmente.
La mia preoccupazione di allora era un po’ ingenua. Essa nasceva da un dubbio. Forse, questa nuova configurazione epistemologica, feconda su moltissimi punti, non rischiava di scontrarsi con le nuove intuizioni provenienti dalla coscienza ambientalista? Non abbiamo certamente a che fare, a questo livello, con una «origine» od un principio che la società dovrebbe rispettare incondizionatamente. Si tratta infatti di un ordine di realtà che è esso stesso assolutamente storico, -cioè contingente e composto da assemblaggi approssimativi- un ordine che le attività umane sono portate a modificare ma da cui allo stesso tempo dipendono, come da qualche cosa che le precede e le sviluppa in un modo particolare. Chi si preoccupa per l’attuale crisi della biodiversità o crede che sia ragionevole mantenere sotto controllo il riscaldamento climatico non si richiama a nessun Fondamento ed a nessuna Divinità. Egli pensa, più semplicemente, che le forme di vita umane si siano sviluppate in seno ad un insieme di dipendenze e interazioni con il loro ambiente (un insieme che può ancora evolvere e cambiare in futuro). Egli considera anche che queste forme di vita si siano sviluppate grazie ad un certo numero di situazioni date (per esempio, un certo clima planetario, una certa forma di biodiversità) che sono stati allo stesso tempo molto più determinanti e molto più fragili di quanto non si sia creduto finora. Questa presa di coscienza può guidare il nostro pensiero e la nostra azione. Vorrei dire che, mettendo in luce questo insieme di situazioni date siamo senza dubbio sulla via di un’interpretazione ragionevole di ciò che è concepito altrove come «Natura» e quindi su una sorta di naturalismo rinnovato, un naturalismo infine liberato dalla ricerca dell’assoluto, dell’intemporale, della certezza, della resistenza ad ogni ostacolo."
Neocapitalismo e alienazione
Negli ultimi anni ha lavorato anche alla problematica energetica all’interno del neocapitalismo. Potrebbe riassumerci il suo lavoro su questo specifico punto?
"Mi sto interessando ai diversi modi di scrivere la storia del capitalismo. Dall’epoca di Rudolf Hilferding e Rosa Luxemburg, il marxismo ha contribuito a dare molta forza all’idea (a malapena abbozzata da Marx) secondo la quale il capitalismo maturo può evolversi e stabilizzarsi approssimativamente attorno a dei modelli ricchi di implicazioni sociali: il capitalismo che è emerso alla fine del diciannovesimo secolo (che è stato spiegato tramite concetti come imperialismo, concentrazione, finanziarizzazione) non è più lo stesso che Marx a suo tempo aveva analizzato. Con l’analisi del fordismo e del keynesismo, poi con quella del neoliberalismo, questo contributo è rimasto cruciale. Eppure, il problema è che si continua spesso a pensare la storia del capitalismo come una successione di epoche discontinue, nel senso delle antiche filosofie dogmatiche della storia, in cui ogni epoca dovrebbe possedere il suo principio originale che determinerebbe l’insieme della vita economica e sociale, abolendo progressivamente i residui dell’epoca precedente.
Si può uscire da questa visione piazzandosi dal punto di vista della lunghissima durata. Per esempio, esiste eccome, al di là delle differenze, una sorta di unità globale del capitalismo come esperienza storica: gli uomini e le donne che, in un futuro oramai probabile, vivranno in condizioni climatiche estremamente degradate non faranno alcuna fatica a comprenderlo. Eppure, ad un livello meno panoramico, e prima della catastrofe, è ugualmente pensabile che ci siano molti modi di scrivere la storia di ciò che chiamiamo capitalismo, in funzione di interessi epistemologici e di situazioni contingenti a partire dalle quali degli aspetti del passato, dei processi specifici, dei problemi, si svelano grazie ad una luce che di volta in volta è particolare. Al di là della solennità dei «cicli» e delle «fasi» inglobanti, che si pretende sottomessi ad un unico ritmo, causanti le mutazioni grandiose di un mega-sistema, dobbiamo invece sottolineare la molteplicità varie dei fatti e delle tendenze che non intrattengono per forza delle relazioni strette gli uni con gli altri, sebbene contribuiscano alla costruzione di una totalità estremamente resistente, per quanto piena di ambiguità e non completamente schematizzabile.
A partire dalla crisi allo stesso tempo economica ed energetica che stiamo vivendo, determinati autori contemporanei ci ricordano fino a che punto il nostro mondo è stato modellato secondo un modo di approvvigionamento dell’energia che ha sostenuto sotto-traccia l’arricchimento delle società. Prendete i lavori di Timothy Mitchell o di Andreas Mals. Opponendosi al grande racconto ottimista dello sviluppo scientifico-tecnologico, fattore di progresso economico lineare, essi dimostrano che, con la scelta di ultra-consumo di carbone prima e di petrolio poi, le nostre società si sono avventurate lungo strade profondamente irrazionali. In effetti, esse hanno scelto (in un senso quasi esistenziale) di massimizzare allo stesso tempo il dominio sui lavoratori (il minatore, poi l’operaio dell’industria del petrolio come «lavoratori tipici») e sulle risorse ambientali. Gli effetti a lungo termine di questa scelta, che hanno pesato violentemente sulla nostra storia, si rivelano oggi catastrofici. È questo uno dei sensi possibili della crisi climatica attuale.
Mettere a valore la questione dell’energia permette di fare due cose: scrivere una storia non convenzionale, inabituale, del capitalismo, con la sua periodizzazione propria e delle proprie linee di evoluzione, ma anche di svelare il ruolo di scelte collettive, di biforcazioni storiche singolari, piuttosto che ragionare in termini di evoluzione monolitica e necessaria. Aggiungerei addirittura che tutto questo ci permette di mostrare lo spazio enorme che ha la contingenza nella storia del capitalismo. Dopo tutto, il fatto che sia esistito nel sottosuolo del nostro pianeta, in quantità importanti ed in una forma relativamente accessibile, una scorta di energia così efficiente come il petrolio costituisce un fatto bruto, legato all’evoluzione passata delle specie viventi, a determinate proprietà chimiche di organismi in decomposizione ed alla storia geologica: siamo di nuovo, al contempo, in piena natura, ed in piena storia. È questo fatto che, completamente per caso, dunque (una sorta di fortunato incontro, provocato da cause che non hanno nulla di grandioso), ha dato spinta e fortuna al tipo di capitalismo che conosciamo dalla metà del secolo scorso: un capitalismo della superpotenza, della fuga in avanti continua e dell’auto-accrescimento infinito, ed in quanto tale vorace di energia fossile. Ricordiamoci dei grandi economisti (Keynes o Schumpeter), anteriori all’età del petrolio: essi prevedevano un capitalismo estremamente debole, se non addirittura colpito a morte. L’errore non era relativo all’essenza del capitalismo in generale. Esso piuttosto era dovuto al fatto che bastava un piccolo elemento accidentale per svegliare un appetito di affermazione sfrenato, di eccessi e di continui sopravanzi, che la modernità aveva praticamente finito per compiacere per lasciare spazio al modo di produzione capitalistico."
Lavora da qualche anno ad una riconsiderazione del concetto di alienazione all’interno dell’analisi del capitalismo, ed all’elaborazione del concetto di neocapitalismo. Potrebbe spiegarci brevemente di cosa si tratta?
"Spesso, la teoria sociale critica resta insufficientemente cosciente del suo pluralismo- normalmente, essa si organizza attorno a dei grandi concetti irriducibili gli uni agli altri. Ciò è in parte dovuto al pregiudizio secondo il quale Marx, nella sua opera matura, avrebbe finito per incentrare l’analisi attorno al tema unico dello sfruttamento del lavoro salariato, facendo da esempio, in qualche modo, a chiunque volesse percorrere la via della sistematizzazione. Eppure, storicamente, prima della teoria dello sfruttamento, nei giovani hegeliani degli anni Quaranta dell’Ottocento, vi era il concetto di alienazione: si criticava il fatto che dei prodotti significativi dell’attività creativa propria dell’uomo si cristallizzavano, si autonomizzavano e cominciavano a crescere senza limite prima di ritorcersi contro i loro produttori. La questione che si pone è quella di sapere che cosa si può fare oggi di quest’eredità, al di là di differenti tradizioni che, qualche volta brillantemente, si sono concentrate, a partire da questa nozione, sullo Stato, sul feticismo della merce, del denaro o della tecnica. La mia risposta è, in prima battuta, che vi siano su questo punto delle risorse teoriche indispensabili – la critica dell’alienazione oggettiva ha il suo posto a lato della critica dello sfruttamento della natura e del lavoro, della critica della reificazione, della dominazione, dell’esclusione, etc. nel senso in cui ella si rivolge, a partire da interessi conoscitivi specifici, degli aspetti particolari della realtà sociale e storica. Tuttavia, di conseguenza, si impone la constatazione di una frammentazione se non di una distruzione di forme di coscienza dell’alienazione oggettiva: il subire l’auto-espansione di una potenza fuori controllo, il provare il peso di una istituzione «superata» ma che persiste a esercitare la sua volontà di potenza, l’inquietarsi di fronte al gigantismo di organizzazioni e di dispositivi che determinano la nostra vita in modo più o meno cieco, il sentire che ciò che si è fatto ci sfugge e che siamo qualche volta preda della nostra stessa trappola, etc., sono tutte esperienze differenti. Esse «rivelano» ogni volta una modalità dell’oggettività sociale singolare. In breve, se non siamo più nel ventesimo secolo, è perché non possiamo più aspettarci una teoria dello Stato, una del Denaro, una della Tecnica, una della Merce, del Capitalismo, del Potere, etc. che possa esprimere lei sola i problemi inerenti all’avversità del mondo in generale ed alla debolezza della nostra azione nel mondo in particolare. Su un piano più storico, è d’altra parte evidente che il neocapitalismo moltiplica le occasioni di sentirsi sminuiti e spossessati da un’oggettività divenuta ostile: i data che produciamo su Internet sono utilizzati, contro la nostra volontà, per dei fini di sorveglianza; determinate decisioni storiche disastrose (la dipendenza fossile) prolungano i loro effetti presenti con un effetto di inerzia terrificante, le imprese transazionali configurano il nostro mondo senza che la loro libertà d’azione si scontri con il minimo limite. Insomma, facciamo numerose esperienze di ciò che significa l’alienazione oggettiva (il fatto di essere intrappolati da cose che abbiamo prodotto mediante la nostra creatività). Prendendo sul serio allo stesso tempo il carattere comune a queste esperienze è la loro irriducibile diversità, abbiamo occasione di comprendere certi aspetti interessanti del mondo neocapitalista, che è il nostro. Si tratta di un buon filo conduttore, affiancato ad altri."
Haber: pensare il presente come pluriverso
L’ultima domanda che vorrei porle è legata ad un’attitudine estremamente frequente nella sinistra, cioè al pensare tutti i problemi del presente come legati ad una figura della storia. Ad esempio, si parla di neoliberismo come fonte di tutti i mali, come se il neoliberismo fosse una cosa fissata in un’unicità sostanziale. In effetti, il suo approccio si oppone a questa tendenza. Ad esempio, in Penser le néocapitalisme lei scrive: «Ora, se la critica è plurale, quale che sia il contenuto preciso che le si assegna, l’ontologia lo sarà a sua volta, o addirittura vi saranno più ontologie compatibili, nella misura in cui il nostro è un pluriverso socio-storico». Potrebbe darci qualche indicazione di metodo per continuare a pensare il presente come pluriverso e non più come universo, senza tuttavia pensarlo come talmente frammentato da renderlo inesplicabile?
"Accusare il «capitalismo», «l’imperialismo» o il «neoliberismo» (si possono immaginare altre varianti) ha sempre qualcosa di abbastanza soddisfacente: permette di canalizzare la collera e l’aggressività designando il Male assoluto. Sì, è un problema della sinistra. Ma la difficoltà viene da più lontano. La maggior parte della tradizione della filosofia occidentale ha piuttosto incoraggiato che scoraggiato la tendenza spontanea dello spirito umano a percepire le cose come più coerenti tra loro di quanto non lo siano in realtà, a fuggire l’ambiguità costitutiva o la complessità irriducibile. In questo senso, l’idealismo ed il razionalismo sono in prima battuta delle maniere postume di rassicurare: il mondo non può essere fatto di rapporti di forze instabili e di assemblaggi improbabili, esso deve essere in ordine, in fondo, cioè unificato, e la nostra parte più profonda deve essere legata a questo ordine del mondo. In modo più preciso in relazione alla vostra domanda, si può dire che, in una parte importante del pensiero politico e sociale del diciannovesimo e ventesimo secolo, due temi si sono sostenuti ed alimentati reciprocamente: il tema della rivoluzione ed il tema dell’unità della società (la società come entità coerente, organica, strutturata, sistemica). È perché la società è qualche cosa di unificato (vi è una coerenza globale malgrado la diversità degli scenari e delle istituzioni) che il progetto rivoluzionario ha un senso (a partire dalla conquista di un centro, l’insieme dell’organismo potrà essere trasformato, sottomesso alla volontà generale); per contro, è perché il progetto rivoluzionario è credibile che la società può essere vista come una Gestalt inglobante. Fortunatamente, vi è un ostacolo che impedisce di mantenere la fiducia in questo modo di pensare: il capitalismo attuale si presente come un assemblaggio di elementi eterocliti che funzionano insieme allo stesso tempo malgrado questo carattere eteroclito e anzi grazie a lui. Da un certo punto di vista, non siamo più all’epoca di Deleuze dove bastava invocare in modo quasi incantatorio la disgregazione, la pluralità, la de-totalizzazione, per opporsi ai quadri rigidi ed alle norme opprimenti (scommettere sulla schizofrenia contro il capitalismo). In breve, è corretto dire che il nostro mondo è globalmente determinato da tendenze funzionali al capitalismo, ma a condizione d’aggiungere immediatamente che la realtà concreta del capitalismo è profondamente divergente al suo interno. Da questo punto di vista, è divertente pensare che, negli anni Ottanta, le teoria della «diversità del capitalismo» si accontentava di opporre ancora due tipi di ideali (capitalismo liberale versus capitalismo regolamentato). Oggi, le varianti si sono moltiplicate: i fabbricanti di tipologie hanno parecchio lavoro, perché la globalizzazione non è stata solamente una omogeneizzazione. In effetti, essa si è fatta forza di una serie di pratiche, di dispositivi tecnici (non solamente i più sofisticati: si ha avuto ragione di mostrare a che punto il mondo economico che conosciamo dipende da un invenzione non spettacolare, quella del container), di gruppi sociali, di istituzioni etc. incredibilmente vari e che riescono più o meno ad articolarsi gli uni con gli altri. Una conseguenza interessante di questa situazione fattuale è che i modelli alternativi hanno più opportunità di apparire e di diffondersi indipendentemente dai cambiamenti sistemici che sarebbero oggettivamente preferibili. Quando, a livello di un gruppo, di una città, di una regione, di una filiera economica, a volte di un’impresa (le cooperative) si cerca di mettere sul campo delle forme alternative di produzione, di scambio, di consumo, non si può dire che si tratta solamente di mettere in azione delle forme di disordine nocivo affermandone la marginalità. Una totalità complessa ed eterogenea è estremamente imperfetta, anche prima che le sue «contraddizioni» si manifestino. Essa si compone necessariamente di fragilità che un giorno bisognerà compensare. In breve, in un tempo storico non-lineare, le tendenze fortissime non sono assicurate dalla loro riproduzione perpetua; l’evento di rottura, la causalità radicale (la distruzione imprevista o la trasformazione sistemica che nessuno aveva visto d’anticipo), appartiene anche al campo dei possibili. In un tale «pluriverso» (il termine viene da William James), le linee di un divenire atipico o improbabile si moltiplicano decisivamente. Non serve altro per donare senso alla politica hic et nunc, indipendentemente da ogni confidenza a priori nella Storia."

Fonte: pandorarivista.it

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