di Francesco Martone
Qualche giorno fa mi sono imbattuto in alcune vecchie foto, in bianco e nero, scattate nel lontano 1979, avevo poco più di diciotto anni, ed ero assieme ad un gruppo di pacifisti, antimilitaristi e nonviolenti che decisero quell’estate di attraversare l’Europa e protestare contro la Nato e il Patto di Varsavia. Partimmo da Bruxelles, facendo una catena umana intorno al quartier generale della Nato e dopo varie tappe attraverso basi Nato in Belgio, Olanda e Germania arrivammo a Berlino. C’era ancora il muro, e ci sedemmo a cavallo della linea che separava Berlino Est da Berlino Ovest per bloccare – formando un enorme simbolo della pace (che poi significa Disarmo Nucleare in verità) – il Checkpoint Charlie.
Ci sono voluti una manciata di minuti per i Vopos, la polizia di frontiera della Germania Est, e la Military Police degli Stati Uniti per prenderci e trascinarci via senza tanti complimenti. Eravamo fisicamente e non solo stretti tra due fuochi.
Ci sono voluti una manciata di minuti per i Vopos, la polizia di frontiera della Germania Est, e la Military Police degli Stati Uniti per prenderci e trascinarci via senza tanti complimenti. Eravamo fisicamente e non solo stretti tra due fuochi.
Gli anni sono passati, sono passate guerre, da quella nei Balcani, eravamo sdraiati dietro al Colosseo per protestare contro i bombardamenti Nato, quella del Golfo, quasi ci sparano addossi gli addetti dell’ambasciata irachena quando con un manipolo di attivisti di Greenpeace avevamo aperto uno striscione contro la guerra. La guerra in Afghanistan, eravamo andati fino a Washington per fare – sotto una tormenta di neve – un’ispezione di “popolo” in una base Usa dove erano stoccate armi chimiche, e quella in Iraq, milioni di persone in piazza. E poi la Siria, e tutte quelle guerre che non hanno mai smesso di uccidere. Gli anni sono passati, e con loro fiumi di inchiostro per catalogare, definire, spiegare, giustificare la guerra, per fare la radiografia di questo o quel movimento.
Quel muro sul quale avevo pisciato non c’è più, ma le armi nucleari restano anzi aumentano, e dopo la crisi ucraina il rischio di una nuova guerra fredda è lì dietro l’angolo. Ad un certo punto però si pensò si immaginò un dividendo di pace, il disarmo avrebbe liberato enormi quantità di denaro per la pace e lo sviluppo del pianeta. Non è stato così, anzi la distruzione degli ecosistemi, l’aumento delle diseguaglianze, e delle violazioni dei diritti umani va di pari passo con l’aumento della spesa militare e il moltiplicarsi dei conflitti. Un tragico bilancio di sangue che i social media oggi portano drammaticamente nella nostra quotidianità, in maniera compulsiva, ripetitiva, quasi a volerci dare assuefazione.
La realtà ci sembra insormontabile, per noi costruttori di pace e di ponti, nemici della violenza e degli eserciti. Sono passati gli anni e così mi sento, ancora tra due fuochi, tra la narrazione dominante che ci parla di guerra – addirittura si torna a ipotizzare un conflitto nucleare! – o di scontro tra potenze imperialiste vecchie e nuove, e chi non sa come reagire. E ci si interroga su dove sia finito il movimento pacifista come se fosse qualcosa di altro, esterno rispetto a quel che dobbiamo fare e dire. E si reagisce con le parole di sempre, appelli alla mobilitazione, parole forse stanche, ma necessarie per tentare di rompere la consuetudine. Fatto sta che mi trovo, come credo tanti e tante nel mezzo. Stanco di parole, preoccupato per gli atti ed i proclami, pieno di orrore per la sofferenza di popoli come quello siriano. E della Palestina non ne parli? E del Sud Sudan?
Non so mi pare che a forza di provare a prenderci sulle spalle i mali del mondo siamo finiti per perdere la forza, e speriamo di ritrovarla in appelli alle coscienze buone o al passato. Quel vuoto tra le due fuochi oggi ci dice però qualcosa. Anzitutto ci suggerisce di fare i conti con noi stessi, con i nostri limiti e le nostre capacità. Con l’urgenza di apprendere a coltivare la “trasversalità” come ci dice la grande Angela Davis, l’intersettorialità delle vertenze e delle mobilitazioni, delle piattaforme che sembrano così distanti, ma che invece sono assolutamente connesse e interdipendenti. Quel vuoto ci dice poi che non sarà possibile mettere in crisi l’ingranaggio della guerra se non si decolonizzano e si disarmano le nostre menti. E per mettere in crisi l’ingranaggio della guerra ci toccherà fare la nostra parte, gettare manciate di sabbia in quell’ingranaggio che ci è più vicino, piuttosto che guardare lontano e immaginare di poter cambiare le sorti del mondo. Decolonizzare le nostre menti oggi significa apprendere che nella guerra non ci sono solo vittime e carnefici, ma ci sono popoli che cercano di scardinare quella logica con la costruzione di sentieri di pace, riconciliazione, dialogo, verità e giustizia.
Significa allora un primo passo prettamente “politico”, quello di offrire loro sponda. Rompere la logica della guerra che li vede vittime da commiserare o da soccorrere con altra guerra. Disarmare le nostre menti, significa respingere la possibilità che paradossalmente la guerra finisca per essere l’elemento che dà significato al nostro agire, anche contro di essa. Come se la guerra temuta o attesa finisca per diventare una ciambella di salvataggio. Significa assumere che oggi non sarà possibile alcuna pace senza diplomazia popolare e dal basso, quella dei corpi civili di pace, e senza azioni di disturbo, di disobbedienza – ricordate quella splendida campagna contro l’invio di armi via rotaia, la campagna Trainstopping? civile e nonviolenta. Dobbiamo diventare portatori di speranza e “incorreggibili disturbatori della pace”. Non pensare a manifestazioni di piazza, che ormai la piazza non tira più, è virtuale c’è niente da fare – ma ad altro. Senza generali disarmati che guidano cortei, con i loro rituali e liturgie, ma andando nei luoghi della guerra, dove la guerra si cucina, si prepara, dove ci si arma, sotto casa nostra, magari proprio dietro casa nostra, con i nostri volti e i nostri corpi per portare testimonianza, diretta e nonviolenta.
Esserci per resistere, come mi raccontò una volta un prete portoricano Luis Barrios quando si fece arrestare per essere entrato nella base di Vieques per celebrare messa. Sorridendo e canticchiando magari, come ho sentito fare da Turi Vaccaro qualche giorno fa all’assemblea del Movimento Nonviolento. Resistere alla guerra che c’è o a quella che ci sarà è un atto politico, che presuppone la messa in discussione radicale dell’esistente, degli equilibri di forza, delle alleanze dell’apparato industriale che produce armi e strumenti di morte. Significa oltre a denunciare l’aumento delle spese militari e delle esportazioni di armi, andare al cuore del problema. Dire chiaramente che esportare armi in zone di guerra è come andare a fare la guerra, e che quindi esportare armi in zone di guerra è contro la Costituzione, e agire di conseguenza, per difendere la Costituzione.
Ma non solo, significa denunciare con forza la logica aberrante secondo la quale ad esempio il fallimento possibile del progetto europeo si potrebbe evitare attraverso un’Europa forte, non quella della moneta, ma quella della spada e che il volano per il rilancio dell’economia non è più quello speculativo ma quello industrial-militare. E per portare il discorso alle estreme conseguenze: dovremmo una volta per tutte sciogliere il nodo che contrappone disarmo e creazione di posti di lavoro, e invece rilanciare con gran forza una proposta di conversione dell’industria degli armamenti, possibile e necessaria. E accanto a questa chiedere che l’Italia diventi paese denuclearizzato, non solo senza centrali nucleari, ma anche senza armi atomiche. Che paradosso quello che ci vede oggi assistere a un minuetto tra potenze nucleari tali o sedicenti tali, mentre il nostro paese, i governo italiano, nel silenzio assoluto si permette di non sostenere il negoziato Onu sulla messa al bando delle armi nucleari. E anzi, si attrezza per diventare – se necessario – potenza nucleare per conto terzi, con suoi aerei da bombardamento, che siano Tornado, F16 o F35 e bombe atomiche di nuovissima generazione. Una punta di diamante per le prossime possibili guerre di Washington. Invece di gridare contro Donald Trump presidente di un paese del quale l’Italia è alleata, non sarebbe di gran lunga più efficace mettere una chiave inglese nel suo ingranaggio di guerra a cominciare proprio dallo spiegamento di armi nucleari a casa nostra, e cosi’ facendo mettere in discussione anche gli accordi con la Nato?
Ma se vi dicessero che a qualche centinaio di chilometri da casa vostra, o forse a centinaia di metri, dalla scuola dei vostri figli ci sono bombe atomiche con potenza superiore a quella di Hiroshima, che fareste? Vi chiedereste ancora dov’è il movimento pacifista o se quelle bombe servono per mantenere sotto scacco Mosca? O prendereste l’iniziativa come si dice “dal basso”? Possibile che non si riesca a concentrare le nostre ahi noi poche forze su pochi obiettivi chiari, politici, di vera rottura, invece di invocare la pace delle nostre coscienze?
Fonte: comune-info.net
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