di Piero Maestri
In genere per presentare un libro si sceglie un'impostazione che parta dall'esposizione delle tesi di fondo e degli spunti più importanti del libro stesso per poi discuterle, confutarle, approfondirne le tematiche. Questa volta è sembrata naturale a tutte/i una scelta differente, che partisse direttamente dai temi del libro – precarietà, sfruttamento, lavoro gratuito – perché questi stessi temi rappresentavano per tutte/i le/invitate alla discussione molto di più di un oggetto di studio o ricerca, ma esperienza soggettiva, parte integrante della propria biografia. Una biografia che, per quanto riguarda il rapporto con il mercato del lavoro, per molte/i ha prodotto (in progress) un “curriculum gassoso”, come è stato definito da Chiara M.
Il punto di partenza potrebbe essere la consapevolezza di una generazione passata, quella della nonna di Chiara R., che un giorno le disse, come fosse un'ovvietà, che “non esiste lavoro – che non sia quello di cura – che non debba essere pagato” (uso le virgolette perché aiutano a definire il suo pensiero).
La generazione successiva, quella della mamma di Chiara (e delle sorelle maggiori del sottoscritto, sic!), andrà oltre, ritenendo che lo stesso lavoro di cura avrebbe dovuto essere valorizzato socialmente, “retribuito”, oltre che redistribuito. Ma questa battaglia fondamentale la lasciamo lì per il momento.
L'esperienza diretta e le ricerca ci mettono di fronte alla iperframmentazione dei contratti e – di conseguenza – ad una moltiplicazione delle figure sociali presenti nel mondo del lavoro. Conosciamo bene – o comunque hanno una larga diffusione – i dati statistici e macroeconomici sulla disoccupazione, sull'aumento dei lavori precari, sulla crisi del sindacato...
Meno si sottolinea però il nesso – o almeno la forte correlazione – tra crisi economica, crisi sociale, disoccupazione (soprattutto maschile) e crisi dell'identità (altrettanto maschile) e violenza contro le donne.
E qui spunta una delle parole chiave della discussione: conflitto.
Una necessità urgente, di cui abbiamo bisogno “come l'acqua da bere” – anche perché la mancanza di conflitto sociale rinchiude la violenza dentro le mura domestiche.
La domanda a questo punto sarebbe: quale conflitto? Chi dovrebbe praticarlo? Con quali modalità?
Ma facciamo ancora un passo indietro.
Alla realtà della condizione sociale precaria e all'emersione prepotente del lavoro gratuito, si accompagna una normalizzazione dell'idea stessa di lavoro gratuito – che a noi continua a sembrare un ossimoro. Questo avviene dentro la consapevolezza della condizione sociale collettiva della precarietà “a tempo indeterminato” – condizione lavorativa ed esistenziale.
Questo riferimento al lavoro gratuito come “nuova” frontiera – ormai strutturale - del mercato del lavoro e della precarietà, apre una prima finestra direttamente sul testo, in particolare richiamando il concetto di “economia politica della promessa” (sviluppato soprattutto da Marco Bascetta).
In questo senso si dice che obiettivo delle imprese è quello di “conquistare” la forza lavoro prima ancora che pagarla...
Ed ecco che ritorna la necessità del conflitto...
Chiara M. ci propone per questo tre impegni per praticare il conflitto: in primo luogo dis-identificarsi e de-naturalizzare la mistica del lavoro (gratuito) – per scindere concettualmente (e politicamente) lavoro-reddito-identità, per tornare a considerare il lavoro come attività umana autodeterminata.; in secondo luogo, lavorare per una prospettiva di welfare non basato sul lavoro (in primo luogo attraverso forme di reddito universale); terzo, investire sulla nostra responsabilità etica – anche individuale – e sulla relazione con altre/i come precondizione per il conflitto.
Una condizione interessante – che può apparire in questo senso come quella della maledizione cinese “possa tu vivere in tempi interessanti”... ma la condizione è questa e sono i tempi che dobbiamo vivere.
La discussione si è poi arricchita di due esperienze che cercano, in maniera decisamente differente, di contrastare l'attuale condizione precaria.
In primo luogo la campagna “Diritti non piegati“, incentrata sulle nuove norme in materia di alternanza scuola-lavoro contenute nella “buona scuola” di Renzi e che cerca di monitorarne l'uso che ne fanno le scuole, quasi sempre per nulla formativo e dequalificante. I limiti di questa campagna, sono però quelli di accettare la possibilità di un'alternanza scuola-lavoro formativa, probabilmente impossibile se gestita dalle imprese e da questa “buona scuola”.
La seconda esperienza è quella delle lavoratrici e lavoratori della RiMaflow, un tentativo di rispondere collettivamente alla condizione di disoccupazione ed espulsione dal mercato del lavoro. Un'esperienza nata mentre in generale è mancata una reazione collettiva vera al lavoro “volontario e gratuito” per Expo – assenza di reazione che mostra quanto sia difficile reagire dall'esterno e senza l'impegno personale e collettivo dei soggetti coinvolti.
Una proposta difficilmente “esportabile” ma che rappresenta un esempio pratico dell'alternativa possibile (e necessaria). Una reazione all'assenza di reddito e lavoro e che trae la sua forza dal mutuo soccorso (che si vorrebbe conflittuale, ma questo è ancora tutto da vedere...).
Questa esperienza e la riflessione su essa rende anche palese la necessità di un movimento che sostenga esperienze come questa e che ponga gli obiettivi della riappropriazione (dei mezzi di produzione) e dell'autogestione come pratica diretta di lavoratrici e lavoratori.
La nascita della Rete nazionale Fuorimercato e il progetto di un'economia alternativa vanno in questa direzione.
Perché anche altri obiettivi importanti – come quello del reddito – non possono essere raggiunti per “concessione” dall'alto, ma grazie alla crescita di una forza sociale che possa strapparli.
Per questo ancora, torna il tema del conflitto – e della crescita di una rete di realtà autogestite.
Altri spunti dal libro e dai suoi temi aiutano a fare passi avanti nella discussione.
Insistere sul lavoro gratuito è importante sia perché sempre più generalizzato, sia perché sta diventando condizione “strutturale” del mercato del lavoro.
Il lavoro gratuito non solo rappresenta una continua erosione salariale – ma anche un processo violento che rischia di non apparire. Perché questa erosione salariale avviene attraverso il ricatto e la paura – e passa anche dall'imposizione della “dote morale” della gratuità – e sulla mancanza di una risposta sociale, dovuta anche alla debolezza della capacità di interpretazione.
Un supplemento di analisi – solo accennato – richiede l'attenzione su quanto questa violenza nei confronti della forza del lavoro precaria si estenda a tutto il paese – quel “sistema Italia” diventato paese di importazione e turistico (ah, la Milano degli eventi...), senza ormai una struttura produttiva, e caratterizzato dall'economia del debito.
Il lavoro gratuito approfondisce questa crisi, colpendo la possibilità dell'aumento di una domanda interna.
Ancora è importante sottolineare l'aspetto ideologico di queste operazioni, come mostra la narrazione del lavoro gratuito per Expo – e della propaganda dei lavoratori volontari che esprimono la loro positiva esperienza fatta.
Ritorna anche l'ossimoro del lavoro gratuito e del lavoro “libero” e non pagato – quanto in realtà si tratta di lavoro obbligato (e l'alternanza scuola-lavoro è proprio questo).
Ossimoro da contrastare e demistificare, insieme a quello dell'idea della rivoluzione tecnologica come fine del lavoro (De Masi) – mentre è stata uno strumento dell'erosione salariale e del vero e proprio furto salariale.
E se torna la necessità del conflitto, si riaffaccia anche la necessità di affrontare le nostre paure (il disagio sociale, la crescita della povertà – non abbastanza esaminata) e provare ad affrontare gli aspetti “terapeutici” del conflitto, come possibilità di consapevolezza e trasformazione della frustrazione quotidiana, individuale e collettiva.
E si riaffaccia la necessità della costruzione di reti – sulla quale ci stiamo confrontando da oltre 20 anni, senza riuscire a incidere davvero.
Impossibile concludere, magari con qualche formula buona per tutte le stagioni.
Resta la necessità e la possibilità di mantenere aperta una riflessione collettiva – e darci qualche impegno comune:
* raccontarsi per riconoscersi – per capire cosa abbiamo in comune e quanto le nostre rispettive precarietà e “vulnerabilità” (J.Butler) possano diventare una risorsa comune. Ma dove ci raccontiamo per poterci ascoltare reciprocamente?
* organizzare il rifiuto delle forme di lavoro gratuito, sottopagato, ipersfruttato;
* sperimentare sempre più forme di riappropriazione e mutuo soccorso – come sostegno al rifiuto di sui sopra e allusione pratica all'alternativa necessaria.
* alla discussione hanno partecipato Francesca Coin, curatrice del libro, Chiara Ronzani (giornalista di Radio Popolare), Chiara Martucci (ricercatrice indipendente), Gigi Malabarba (RiMaflow) e Davide Vismara (Uds, campagna “Diritti non piegati”).
Ma loro non hanno alcuna responsabilità in questo testo, che sono appunti presi da uno dei partecipanti, che magari ha anche capito poco.....
Fonte: communianet.org
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