di Ivan Cavicchi
Ho letto, su Quotidiano sanità, puntuali come il destino, le rimostranze contro il def dei nostri abituali commentatori. Tutti a gridare risentiti al de-finanziamento della sanità come se fosse una novità. Il de-finanziamento, come ho scritto tante volte, è la conseguenza logica di una precisa strategia finanziaria (peraltro mai nascosta dal governo Renzi) e che in ragione di una, tutt’altro che casuale politica economica, conta di abbassare nel tempo l’incidenza della spesa sanitaria nei confronti del pil. Il def 2017 in sintonia con questa politica economica, ispirata dal Jobs act e che la “mozione Renzi”, per evidenti ragioni di coerenza, non smentisce, conferma il de-finanziamento della sanità ma, questa volta, (ecco la vera novità sulla quale i nostri arcigni commentatori hanno stranamente taciuto), prevedendo in modo esplicito, di contro, misure per lo sviluppo del welfare aziendale.
La mia tesi sul “trappolone” (QS 3 aprile 2017) sembrerebbe quindi tutt’altro che campata per aria, (mi dispiace per coloro che sognando migliaia di assunzioni ci hanno spiegato, su questo giornale, che la mozione Renzi “va nella direzione giusta”). Il welfare aziendale, mettetevelo in testa, implica, per forza, cioè per ragioni di pura compatibilità finanziaria, il progressivo de-finanziamento della sanità pubblica.
Se è vero che… “quando il saggio indica la luna lo stolto guarda il dito” vorrei suggerire ai critici del de-finanziamento (se vogliono essere credibili) di spostare la loro attenzione sulle politiche economiche, perché guardare il dito e non la luna, in sanità, se non è da stolti è quanto meno da ipocriti. Decidete voi.
Applaudo invece alla Cgil che per bocca della sua responsabile per le politiche sanitarie Rossana Dettori (intervista a radio articolo1 del 12 aprile) ha posto con onestà il problema dell’inconciliabilità tra il welfare aziendale e quello pubblico.
Esclusione competitiva
“Esclusione competitiva” è una espressione che ho preso in prestito dall’ecologia. Usata per la sanità essa afferma che due specie di welfare (mutue contrattuali e sanità pubblica) non possono convivere utilizzando una stessa risorsa limitata e limitante vale a dire un comune finanziamento pubblico proprio perché in generale le risorse pubbliche sono per definizione limitate.
Se lo Stato regolerà, con le leggi di stabilità, le risorse in modo da mettere in competizione due generi di welfare, quello che sarà favorito nei finanziamenti (nel nostro caso le mutue) dominerà sull’altro (la sanità pubblica) che de-finanziato si dovrà rassegnare ad essere ridimensionato.
Per me “l’esclusione competitiva” è il fatto nuovo e che il def 2017 conferma. Chi governa, quindi il più grande partito della sinistra, in ragione di certe politiche economiche, ha deciso di cambiare il ruolo dello Stato quale mediatore tra l’impresa, quindi la produzione di ricchezza, e la società, quale soggetto detentore di diritti. Quindi di ridiscutere il ruolo del welfare. Non è proprio una cosa da nulla. Credetemi.
Jobs act
Alla base di questa decisione, direi epocale, vi è il Jobs act cioè la legge che ha delegato il governo Renzi ed ora il governo Gentiloni, ad apportare delle riforme nel mondo del lavoro attraverso dei decreti attuativi.
Ma vi è anche un grave limite culturale che riguarda soprattutto il riformismo di sinistra che di fronte a nuove contraddizioni, nuove sfide, non riesce ad andare avanti. Oggi Bersani va in televisione e ci dice che ci vuole “un nuovo 68” (Intervista “di martedì” La 7 18 aprile 2017). Io che il 68 l’ho fatto propongo la “quarta riforma” e sostengo che una sinistra priva di un pensiero davvero progressista è destinata a tornare indietro decidendo di passare, come ci propone sia il Jobs act che la “mozione Renzi”, dal barone Beveridge a Donald Trump.
Gli obiettivi teorici del Jobs act sono noti (adeguare la legislazione del lavoro a quella europea, consentire maggiori opportunità a tutti di ottenere contratti di lavoro a tempo indeterminato, modificare le norme sul licenziamento, ecc).
Ma se questi sono i più noti e anche più discussi e più criticati, soprattutto dal mondo sindacale, ve ne è uno in particolare, colpevolmente ignorato, che riguarda l’impresa, considerata soggetto produttore di ricchezza. A quanto pare il Jobs act emulando, devo dire senza alcuna originalità, l’economia americana, in ragione della crescita della ricchezza parrebbe disposto a liquidare il nostro prezioso welfare sanitario considerandolo evidentemente un ostacolo al suo sviluppo.
Nel proseguo dell’articolo per non ripetere continuamente le numerose norme promanate dal Jobs act per sineddoche diremo semplicemente “Jobs act”
Welfare fiscale
Il welfare aziendale, come forse non tutti sanno, non è tanto la riproposizione delle vecchie mutue del secondo dopoguerra ma è una forma di welfare tipico dell’economia americana. Renzi e i suoi consiglieri economici non si sono inventati nulla di nuovo. Il welfare on demand si chiama così perché così il welfare aziendale si chiama in America.
Storicamente il welfare aziendale, nelle forme assunte negli Stati Uniti, è stato associato alla crescita delle grandi imprese manifatturiere, in grado di garantire ai loro dipendenti rilevanti benefici sotto forma di piani sanitari In questi piani, a beneficio definito, il rischio in caso di evoluzione negativa per mancata costituzione delle riserve oppure per cattivo andamento dei mercati finanziari era interamente a carico delle imprese, così come a loro carico era il rischio connesso all’allungamento della vita media dei lavoratori in pensione o all’aumento delle spese mediche.
La novità che introduce il Jobs act (versione italiana) è di mettere questo rischio completamente a carico dello Stato utilizzando la leva fiscale. Questa novità in realtà si chiama welfare fiscale. In Italia, a differenza dall’America, il Jobs act si basa interamente su un sistema fiscale totalmente a favore dell’impresa e interamente a carico dello Stato nella speranza che l’impresa, accrescendo il suo profitto, accresca la produzione di ricchezza. Lo scopo del welfare fiscale è incentivare le plusvalenze dell’impresa cioè in generale l’incremento di valore, e in particolare la differenza positiva fra due valori dello stesso bene. Più o meno è quello che Marx chiamava, più di un secolo fa, “plus valore”.
Quindi in sintesi il welfare fiscale non è altro che la concessione di un sistema di agevolazioni sotto forma di deduzioni o di detrazioni d’imposta subordinate alla demonetizzazione di parte del salario e alla contestuale stipulazione di mutue aziendali.
Cost saving
Con il welfare fiscale il prelievo obbligatorio a carico dell’impresa quindi l’imposta sul reddito, è ridotto significativamente. L’imposta sul reddito, come è noto, si caratterizza, in primo luogo, per i criteri di determinazione della base imponibile. Il Jobs act modifica attraverso la creazione delle mutue la base imponibile per il reddito di impresa Quando si adotta il concetto di reddito prodotto, o di reddito di impresa, in genere sono oggetto di tassazione le remunerazioni dei fattori produttivi (salari, rendite, profitti o interessi). Il Jobs act modifica la tassazione sul reddito di impresa intervenendo sul principale fattore produttivo cioè il costo del lavoro.
Ma come funziona questo marchingegno tributario che punta ad accrescere il plus valore dell’impresa? Come è noto, servizi e beni, erogati dal datore di lavoro nell’ambito di un piano di welfare (la normativa contrattuale sulle mutue aziendali prevede i piani assistenziali) non costituiscono reddito in capo al lavoratore e non costituiscono neppure base imponibile per i contributi permettendo quindi l’operazione che più sta a cuore di Renzi, il cost saving cioè la riduzione dei costi di produzione.
Questo doppio vantaggio configura una sorta di condivisione di interessi tra impresa e lavoratori al punto da prefigurare una idea di azienda come ‘bene comune’ il che non sarebbe una negatività in se, peccato che questa alleanza tra lavoro e capitale sia interamente giocata contro la comunità, i diritti e la sanità pubblica. Cioè contro un ben altro “bene comune” il welfare pubblico.
Soldi e benefit
Le prestazioni erogate dalle mutue per il welfare aziendale quindi sono completamente deducibili dal reddito d’impresa e non sono più limitate come lo erano precedentemente rispetto ad una deducibilità limitata al 5×1000 del costo del personale. Con la finanziaria 2017 come ho già spiegato (QS 20 marzo 2017) si rafforzano gli incentivi:
- Il tetto per i premi viene elevato a 3mila euro anno che diventano 4mila quando i lavoratori vengono coinvolti in modo strutturale nell’organizzazione aziendale
- si estende l’applicazione a una platea molto più ampia di lavoratori elevando il ‘tetto’ di retribuzione sotto la quale la misura è applicabile: dai 50mila euro previsti per il 2016 si passa a 80mila euro
In questo modo oltre alla stragrande maggioranza di operai e impiegati potranno rientrarvi anche il 75% dei quadri e il 12% dei dirigenti. Inoltre proseguendo in una precisa strategia di “delega”, è previsto che qualora il datore di lavoro abbia riconosciuti per i propri dipendenti anche la messa a disposizione di strumenti di previdenza integrativa o di assicurazione sanitaria integrativa, questi non concorrano ai limiti “premiali” previsti e sopra citati (3mila ovvero 4mila euro-anno pro-capite).
In tale modo un lavoratore potrà ricevere:
- dal proprio datore di lavoro fino a 4mila euro di premi anche - sotto forma di beni e servizi di welfare che saranno completamente deducibili in termini di costo da parte del datore di lavoro,
- in aggiunta premi a titolo previdenziale e/o assicurativo a loro volta deducibili e non imponibili fino alle rispettive soglie di 5.164 euro e 3.615 euro
Come dire di no a questa “grazia di dio”. È in virtù di questo espediente fiscale che il welfare aziendale diventa in realtà un nuovo modo di retribuire il lavoro. Cioè welfare on demand.
Plus valore contro diritti
Come ho già detto il welfare on demand è un genere di retribuzione mista fatta da soldi e benefit il cui sillogismo di base è il seguente:
- se il plus valore è la differenza tra il reddito di impresa e il costo del salario
- allora abbassando il salario con la sua demonetizzazione, si abbassa il suo costo
- quindi si aumenta il plus valore.
Lo ripeto a coloro che guardano il dito e non la luna, prima del de-finanziamento della sanità vengono le politiche economiche le quali per il jobs act nascono dagli interessi i quali a loro volta sono riconosciuti tali da altri interessi, quelli della politica, alla ricerca permanente di consenso nel tentativo di allargare la propria base di legittimazione sociale e di mantenere e accrescere il proprio potere.
Con il Jobs act e con la “mozione Renzi” è l’economia del plus valore che comanda sull’etica dei diritti e, la sua base di legittimazione, sono i potentati dell’economia e delle assicurazioni, ai quali ci si rivolge offrendo ogni agevolazione fiscale possibile per chiedere loro di produrre ricchezza cioè Pil perché altri generi di ricchezza, come ad esempio la salute, non valgono niente. Se la sanità è de- finanziata è perché non comandano più i diritti ma il plus valore.
Quindi amici miei che fate finta di prendervela con il Def perché ci da pochi soldi, sappiate che senza un nuovo pensiero sulla compossibilità tra economia etica e scienza, quindi senza un nuovo welfare sanitario che redistribuisca la ricchezza prodotta dall’economia nella nostra società, siamo nei guai.
Il Jobs act e la “mozione Renzi” restando prigionieri di una vecchia idea di compatibilità e di sostenibilità, sceglie il plus valore quindi per quello che ci riguarda, Trump in luogo di Beveridge. Come lo fa? Finanziando il primo e de-finanziando il secondo. E voi che fate? Anziché guardare la luna ogni volta ci fate la lagna sul dito.
La “quarta riforma” che, nel suo piccolo, è totalmente pensata sull’idea di compossibilità tra economia etica e scienza dice educatamente no a Trump ma con decisione va oltre Beveridge perché sa che è il momento di cambiare i modelli, di trovare nuove alleanze tra diritti e interessi e di allargare l’idea di ricchezza alla salute, alla giustizia, all’ambiente, alla istruzione, perché per far crescere un paese, quella prodotta dal pil, non basta.
Lo Stato contro lo Stato
Il welfare fiscale con le sue norme tributari e influenza di fatto la domanda aggregata di salute e di sanità nel nostro paese influenzando negativamente la funzione distributiva dello Stato che a partire dal 900 ha sempre tentato di equilibrare con il welfare pubblico la distribuzione del reddito. Cioè lo Stato rinunciando alla sanità pubblica o quantomeno nel tentativo di renderla residuale, decide di redistribuire quello che nella “mozione Renzi” viene chiamato “diritto di protezione” a favore di chi lavora e a sfavore di tutti gli altri.
Il def appena approvato e che in autunno si trasformerà in legge di bilancio ha quindi lo scopo di produrre effetti sull’allocazione delle risorse a favore del welfare aziendale e a scapito della sanità pubblica di cui si conferma il de-finanziamento. In sostanza il Jobs act contro-riformando la concezione storica del welfare sanitario, modifica profondamente le funzioni economiche storicamente svolte dallo Stato:
- ridiscute la fornitura di alcuni beni e servizi
- ridiscute l’equa ripartizione del reddito nazionale fra i componenti di una collettività
- protegge l’interesse privato a scapito del diritto collettivo
contrappone l’impresa, il lavoro alla società
Il welfare aziendale alla fine rimette in discussione due fondamentali caratteristiche della sanità quale bene pubblico:
- la non escludibilità, per un sistema sanitario pubblico non è possibile escludere qualsiasi persona dai benefici che esso produce(come un faro è utilizzato da tutti i naviganti così la sanità è usata da tutti i cittadini)
- la non rivalità
- la sanità pubblica è un bene che deve essere usato da tutti i cittadini contemporaneamente (come con la difesa nazionale sono protetti tutti i cittadini indistintamente, così con la sanità godono tutti gli aventi diritto cioè tutti quelli impliciti nell’art 32 della Costituzione quindi ogni persona)
Al contrario il welfare aziendale essendo liberamente sostitutivo rispetto a quello pubblico nei fatti:
- include solo coloro che hanno un lavoro e quindi un contratto ma ciò facendo esclude tutti coloro che hanno semplicemente dei diritti confinandoli nella residualità dell’assistenza pubblica
- rende rivali cioè pone in competizione gli interessi tutelati dai contratti con i diritti finanziati in modo residuale dallo Stato.
Conclusioni
Come hanno fatto notare alcuni commentatori (Benato QS 22 marzo 2017; Pizza QS 28 marzo 2017) tutto questo, diritti a parte, avrà profonde ripercussione sull’esercizio della medicina sulle prassi professionali e sulle loro deontologie.
Fino ad oggi tutte le professioni in sanità sono state vincolate da deontologie ispirate ovviamente al principio di non escludibilità e a quello della non rivalità.
Da questo punto di vista inquieta e non poco il silenzio degli ordini dei collegi (principalmente Fnomceo e Ipasvi) delle associazioni professionali, dei difensori dei cittadini (chi ha notizie di “cittadinanza attiva” batta un colpo) e dei sindacati di settore in particolare dell’intersindacale medica.
Mi chiedo che fine hanno fatto quei 20000 medici che a Roma il 27 ottobre del 2015 hanno sfilato sotto al Colosseo in difesa della sanità pubblica denunciando i pericoli che correva la “coesione sociale”.
Questo articolo è stato pubblicato da Quotidiano sanità il 20 aprile 2017
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.