di Tommaso Di Francesco
Non erano passate nemmeno 12 ore dall’attacco di un terrorista per fortuna isolato sugli Champs Elysées nel cuore di Parigi, subito rivendicato dall’Isis, che Marine Le Pen è volata con ferocia inusitata, come un avvoltoio, sulla bara del povero poliziotto rimasto ucciso. Anche il candidato della destra storica, il conservatore Franois Fillon, ha fatto altrettanto quasi a volere contendere la preda in palio: la paura di una popolazione che sta per eleggere il capo di una repubblica presidenziale. Ma Marine Le Pen è stata particolarmente «programmatica», parlando come fosse già il presidente in pectore della Francia.
Modulando volta a volta richieste repressive e ideologiche, tali da delineare una trasformazione dell’assetto istituzionale francese. Stato di guerra, espulsione degli inquisiti con la sigla “S”, chiusura delle frontiere e, rinunciando «all’ingenuità, all’innocenza, al lassismo», chiusura delle «moschee islamiste» il cui finanziamento «non potrà essere in alcun caso pubblico o di provenienza straniera», niente diritto di cittadinanza all’ideologia islamista.
Sapientemente quanto irresponsabilmente mischiando terrorismo e migranti. Come se fossero la stessa cosa. Per una «guerra che non possiamo perdere», ha concluso Marine Le Pen, sguazzando naturalmente dentro i macroscopici buchi dei Servizi segreti francesi, dopo Charlie Hebdo, Bataclan e Nizza.
Che hanno dovuto, per dichiarazione del ministero degli interni, subito ammettere che l’attentatore era conosciuto, anzi su di lui era stata addirittura aperta una inchiesta.
Il giorno prima degli attacchi Marine Le Pen aveva promesso che con lei presidente sarebbe stato estirpato l’integralismo islamico dalle periferie. È così diventato immediatamente palpabile quello che da tempo si avvertiva e che solo fino a pochi giorni prima era difficile descrivere: che l’Isis vota decisamente a destra, preferibilmente Front nazional che alligna le sue dinamiche xenofobe, razziste e iper-nazionaliste proprio sulla paura e sul clima di guerra, anche interna.
Del resto il presidente statunitense Donald Trump non è stato da meno avvisando, subito dopo l’attentato, che «il popolo francese non sopporterà più a lungo cose del genere. Avrà grosse conseguenze sulle elezioni presidenziali!». Lui sì che se ne intende.
A dire il vero i primi sondaggi a poche ora dal voto del primo turno delle presidenziali, dicono una cosa diversa. Che emergerebbe il modernista di centro Emmanuel Macron, distaccando tutti gli altri candidati più accreditati. Dalla stessa Marine Le Pen, al liberal-conservatore di destra François Fillon, fino al sorprendente Jean-Luc Mélenchon che ha fin qui raccolto il difficile consenso a sinistra meglio è più del candidato socialista Benoît Hamon che pure ha portato importanti novità.
Ma se la prospettiva del risultato francese è Emmanuel Macron, quanto alimento darà questa vittoria – lungimirante per tutti gli schieramenti di centro d’Europa – ad un nuovo populismo, stavolta ancora più radicale?
Un fatto è certo. La precisione «occasionale» del terrorismo jihadista è diventata endemica. Sconquassa la società civile, contrapponendola al proprio interno. E poi ormai accade e colpisce nei momenti cruciali della verifica politica. Come dimenticare che da qui all’estate gli appuntamenti elettorali rilevanti sono almeno altri due, in Germania e ancora una volta nella Gran Bretagna appena dopo la nazional-populista Brexit?
Sullo sfondo dell’endemicità degli attacchi jihadisti qui nell’Occidente europeo e non solo, resta la scena della guerra vera e solo apparentemente lontana. Dove il jihadismo terrorista (qaedisti e Isis, volta a voltab utili per le nostre stesse operazioni belliche geostrategiche) semina stragi tra gli stessi musulmani, dentro realtà ex statuali come Iraq, Siria e Libia che le nostre guerre hanno contribuito a distruggere. In una terra desolata, disseminata dalla disperazione di milioni di esseri umani che dalla guerra fuggono e al contrario da una scia di sangue di tanti foreign fighters già usciti in libertà dall’Europa e ora di ritorno. Il Medio Oriente che non c’è più, dove il sedicente «Califfo» potrà perdere Raqqa e Mosul, ma ha ormai lanciato il seme nefasto dello «Stato islamico» per riempire il deserto storico degli Stati che abbiamo devastato.
Fonte: Il manifesto
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