di Alessandro Visalli
Il recentissimo libro di Marco Revelli, compie una ricognizione su alcuni fenomeni politici contemporanei o meno, accomunati dall’essere stati etichettati con l’ambiguo termine “populismo”. La sua tesi, in questo ad esempio simile a quella della Urbinati, è che il ‘populismo’ sia un fenomeno che prende piede quando la democrazia rappresentativa è in difficoltà. Una sorta di malattia della democrazia. Laclau, al contrario, lo vedeva come una forma propria della democrazia, una forma costitutiva della politica democratica. Il sociologo e politologo italiano inquadra quindi il populismo come sintomo di un male: quello di non sentirsi rappresentato.
Ed il “populismo 2.0” (per distinguerlo dal primo populismo novecentesco) specificamente come malattia senile di un popolo che vede “l’estenuazione dei processi democratici e il ritorno in forze di dinamiche oligarchiche nel cuore delle democrazie mature [che] rimettono ai margini o tradiscono il mandato di un popolo rimasto ‘senza scettro’ (il populismo post-novecentesco è in qualche modo una ‘rivolta degli inclusi’ messi a margine)”. Dunque “la ‘sindrome populista’ è il prodotto di un deficit di rappresentanza” (p.3).
Ed il “populismo 2.0” (per distinguerlo dal primo populismo novecentesco) specificamente come malattia senile di un popolo che vede “l’estenuazione dei processi democratici e il ritorno in forze di dinamiche oligarchiche nel cuore delle democrazie mature [che] rimettono ai margini o tradiscono il mandato di un popolo rimasto ‘senza scettro’ (il populismo post-novecentesco è in qualche modo una ‘rivolta degli inclusi’ messi a margine)”. Dunque “la ‘sindrome populista’ è il prodotto di un deficit di rappresentanza” (p.3).
È chiaro che in questa accezione larga il termine prende un poco tutto ed è in sostanza inutilizzabile per eccesso di estensione.
Alla fine si definisce solo in relazione ad un altro termine insopportabilmente vago: ‘establishment’. Il ‘populismo’ è dunque quel movimento che è fuori e talvolta (ma non sempre) contro l’ ‘establishment’. Ma la vaghezza del termine di riferimento lo fa utilizzabile anche per semplici avvicendamenti delle élite, nel contesto di quella che una volta si sarebbe chiamata una lotta infra-capitalista. Ovvero nel contesto di un avvicendamento tra diverse frazioni della stessa logica dell’accumulazione del capitale (specificamente, ma avremo bisogno di più strumenti per dirlo, e di uno sguardo geopolitico che cercheremo di coltivare con qualche specifica lettura, nel contesto di una diversa ‘piattaforma egemonica’).
Il contesto nel quale l’attuale populismo trova forma è, per Revelli, semplicemente il diffuso declassamento percepito dal ceto medio e lo sfarinamento del “mondo del lavoro”, che portano con sé anche la lacerazione di quell’involucro di “buone maniere” (ovvero di “civilizzazione”) che il fenomeno opposto aveva portato con sé. Ovvero è un effetto fenomenico della “post-democrazia”.
È come se uno “spesso strato di polvere sociale” si sta accumulando sul fondo della piramide come effetto dello sgretolamento di vecchi ‘blocchi’ intorno ai quali era stata costruita la civiltà industriale. Ne segue che una specie di disaggregato sociale cerca vendetta, portando una carica di rancore, frustrazione, intolleranza, radicalità che sono l’effetto reattivo della percezione di declassamento e disgregazione. Ovvero di perdita di senso, quando la civilizzazione condotta attraverso i consumi, promessa di una vita definita dall’inserimento in una società di produttori e di edonismo individuale, si frantuma come un muro di cristallo. E nei frammenti non si rintraccia più alcun senso; perso quello precedente alla grande trasformazione moderna (detradizionalizzazione e secolarizzazione) e perso quello sostitutivo della promessa liberale.
Per chi è espulso nella polvere sociale, o meglio per chi è stato grattuggiato via dal blocco degli inclusi, e quindi è sul margine e si sente scivolare, l’offerta è di riconoscersi in un ‘nuovo popolo’ in formazione: un popolo di ‘imbarbariti sociali’ che è “emerso a fianco, anzi, al di sotto, del vecchio buon popolo delle retoriche democratiche di ieri, soppiantandolo e sommergendolo”.
Guardandola dal punto di vista di chi è ancora dentro il blocco, e non si sente minacciato, o magari sta guadagnando (se l’ineguaglianza continua a crescere è soprattutto perché la piramide si allunga nella punta), è una sorta di “invasione degli iksos”. Il disorientamento è massimo.
Questa sorta di “moltitudine liquida” che spaventa gli ancora integrati non compare dal nulla; era in effetti ordinata fino a ieri (o “acquattata”, dice Revelli) dentro “contenitori” che si è voluto coscientemente distruggere. Fino a che stavano lì, sui margini organizzati dei “contenitori dell’ira” (politici, religiosi, sociali) erano però un fattore di stabilità che garantiva la legittimazione. Ma la domanda sociale che incessantemente avanzava da quel margine è stata respinta, a poco a poco (di questo si parla quando si dice che ‘bisogna ridurre la spesa’) e con essa sono stati scientemente dissolti, poco a poco (o abbastanza velocemente per via giudiziaria, evidenziando del pacchetto servizio-beneficio uno solo dei lati, moralizzandolo) sia il contenitore ‘partito di massa’ (sostituito da comitati di affari o da network elettorali agili), sia i canali della partecipazione politica tradizionale (attraverso la logica del maggioritario), sia le altre forme di aggregazione tardo-industriali (consumate dall’individualismo edonista promosso dai media e veicolato dalle stesse merci, dalla natura di queste). Il risultato complessivo è una vera e propria “trasformazione antropologica”, che ha portato l’uomo-tipo dalla forma del produttore-consumatore, alconsumatore-consumato. Dall’uomo, cioè, che lavora, pazientemente e in modo sicuro entro contenitori stabili e riconosciuti e accumula gradualmente le condizioni per un progressivo, lento ma certo, aumento dei consumi come veicolo di riconoscimento sociale, all’uomo che compulsivamente consuma ciò che non può mantenere, spingendosi oltre i limiti e venendone consumato nella trappola del credito. Per una ottima descrizione del processo è da riguardare il libro del 2001 di Richard Sennett, “La cultura del nuovo capitalismo”, o “L’uomo flessibile”.
Ma c’è un altro lato: simmetricamente le élite politiche, fuoriuscite dall’abbraccio soffocante dei “contenitori” nei quali erano in contatto con la “moltitudine acquartierata” e le sue domande, hanno venduto la propria autonomia decisionale ad agenzie esterne, e con questo hanno sposato un necessario “spirito gregario”, finendo per cantare tutte in coro la medesima canzone. In questa ode alle agenzie sovrane si è aperto un vuoto. Il medesimo di cui parlava l’ultimo Mair.
Allora il nuovo populismo è un mood entro questo campo, uno stato d’animo reso necessario dallo sconcerto insopportabile di essere nel vuoto senza aria per respirare. Senza l’aria fornita dai mezzi materiali, ma anche e forse soprattutto dalla possibilità di un’alternativa. Cioè anche dall’assenza della sinistra.
Il populismo è visto da Revelli in questo quadro come richiamo ad un fondamento prepolitico, una entità organica e pura, opposto contemporaneamente a qualcosa che è sopra (le élite, l’establishment) e qualcosa che è sotto (gli estranei, gli immigrati). Un mood che è tenuto insieme dall’idea di tradimento morale, e che cerca vendetta cacciando tutto ciò che è estraneo.
In questo schema le assialità destra/sinistra sono sostituite da quelle alto/basso, da immagini come il 99%.
Certo ci sono diverse versioni possibili di questo mood. Ci sono i “new populist” americani, che sono le insorgenze residuate al potente movimento ‘Occupy wall Steet’ seguito alla crisi del 2008, un insieme complesso di think thank, advocacy, organizzazioni come Campaign for America’s Future, che hanno appoggiato Obama, poi la Warren e Bernie Sanders. Ma c’è anche il Tea Party, che articola un discorso esattamente opposto, teso a dividere.
Quindi c’è il caso italiano, un populismo di lotta e di governo, esattamente in connessione con l’imperante neoliberismo. Revelli qui cita la voce “Neopopulismo” del dizionario di Bobbio e Pasquino, in cui il populismo è letto in connessione a questo in quanto “trae da esso seduzioni ed assonanze retoriche e programmatiche. Ne incorpora alcuni precetti, trasferendoli dal piano macroeconomico e sociale a quello della progettualità politica” (p.24). Per farsene un’idea basta guardare all’azione del nuovo presidente dell’INPS, un economista assolutamente mainstream, protagonista in Italia di tutta la predicazione neoliberale negli ultimi anni, e impegnato in una curiosa crociata “popolare” che fa uso di termini, mood, e che sollecita istinti qualificabili come “neopopulisti”, giocando una strana partita in parte probabilmente personale. L’obiettivo comune è di oltrepassare ogni organizzazione intermedia tra i mercati e gli individui, lasciati quindi soli ed esposti alla competizione, scardinare le posizioni di privilegio, in particolare quelle relative alle vecchie classi medie, reinterpretate come rendite (mentre le rendite autentiche delle classi alte e delle élite sono indiscutibili, in quanto ben meritate), irrobustire l’esecutivo attraverso la figura del leader.
Su queste linee si articola una sorta di populismo dall’alto, di governo. Un populismo che curiosamente, ma forse non tanto, lavora esattamente per completare quella rivoluzione neoliberale che è causa della disgregazione. In qualche modo utilizza le energie messe in libertà dalla rottura dei corpi intermedi per completarne la distruzione.
Il testo di Revelli a questo punto introduce i termini di una interessante ricerca, che occupa la parte centrale, confrontando la geografia elettorale del vecchio populismo di fine ottocento (laOmaha Platform del 1892, dalla quale emerse il National People’s Party) in America con quella che improvvisamente è riemersa nel 2016 con l’elezione di Trump. Il cuore populista americano è l’interno del paese, in un’epoca in cui, nel mezzo di una grande trasformazione l’1% della popolazione possedeva il 51% della ricchezza nazionale e il 44% più povero solo l’1% di questa. I “Robber baron” dominavano una massa di lavoratori impegnati fino alle 60 ore settimanali e in lavori pericolosissimi (nelle ferrovie, che impegnavano con i loro sterminati cantieri oltre 700.000 persone ci furono 20.000 feriti e 2.000 morti sul lavoro), e soprattutto dominavano una corrottissima politica. Le macchine politiche che stavano nascendo, insieme alla prima democrazia di massa del mondo, erano letteralmente immerse nel denaro dei “robber”.
Queste sono le condizioni (che oggi suonano nuovamente familiari) in cui nasce una reazione populista che sfiora il successo con James Weaver nel 1892. Nelle elezioni ottiene successo e numeri importanti in un’ampia striscia nelle Grandi Pianure, vince in cinque stati (Colorado, Kansas, Nord Dakota, Idaho, Nevada) arriva secondo in Sud Dakota, Nebraska e Wyoming, ma anche in Texas, e buoni risultati in Alabama, Mississipi, Georgia, Florida, Minnesota, Tennessee. Fu un fuoco di paglia, presto riassorbito, ma è la stessa geografia elettorale che centoventi anni dopo è ancora qui. L’8 novembre mentre quasi nessuno se lo aspettava, un paese che è sempre stato a più velocità prende una vendetta sulle sue élite.
Il libro compie un’analisi molto attenta della mappa dei risultati elettorali, l’85% del territorio si esprime per Trump, ma lì abita solo il 46% della popolazione. Nel 15% che si esprime per Clinton abita il 54%, 174 milioni di abitanti. Si tratta di due mondi completamente estranei, antropologicamente, economicamente, socialmente e culturalmente estranei, dice Revelli. L’America di Trump è quella delle tante periferie, che si sono allontanate e sperdute. Al contrario Clinton ha vinto nel District of Columbia con il 93%, nel Bronx con l’89%, a San Francisco con l’85%, Los Angeles con il 71%, negli urban cores (solo 68 contee, ma densissimi) in media ha preso il 71% dei voti, al contrario nei rural (1299 contee) Trump ha avuto l’86% dei consensi, nelle piccole città (ca. 1000 contee) ha ancora vinto con il 70%, pareggiando delle città medie e nei sobborghi.
Certo una certa polarizzazione di questo genere era presente anche prima, solo Bill Clinton pareggiò il numero delle contee, mentre Obama ne vinse solo 600, la tendenza alla separazione si avvia nell’ultima decade del novecento e accelera gradualmente. Ma in queste elezioni tutti questi fenomeni di medio periodo si sono accentuati, la working class white ha scelto Trump con un margine di venti punti, accodandosi al basket of deplorables (branco di miserabili) accusati da Clinton in uno dei suoi discorsi.
Da qui in alcune interessanti pagine Revelli insegue i deplorables nelle diverse parti del paese, mostrando i luoghi dell’ira, quelli dell’abbandono, gli “hillibilly” che lo hanno seguito per un “riflesso etologico”, riconoscendosi in lui. Gli underdogs, ma anche i tradizionali elettori forti repubblicani, messi insieme, hanno portato la vittoria.
La conclusione è che “nonostante la vulgata il voto per Trump non è la rivolta dei poveri. È piuttosto, questo sì, la vendetta dei deprivati” (p.64). Cioè di tutti quelli che hanno perso qualcosa, che si sono manifestati come maggioranza. Che hanno perso e sono stati privati, nell’elenco di Revelli di “il proprio primato di maschio, un pezzo del proprio reddito, non importa quanto alto fosse, il proprio status sociale, il riconoscimento del proprio lavoro, il rispetto per la propria fede, il proprio Paese e il suo ruolo nel mondo, la sua potenza, la sua egemonia...”.
Una mossa simile, passando l’Atlantico, avviene nel Regno Unito. La separazione basso/alto taglia orizzontalmente i due principali partiti nel referendum per l’uscita dall’Unione Europea. La mappa parla anche qui di un voto separato territorialmente. La Scozia rimane (non vuole restare sola con l’Inghilterra), l’Irlanda del Nord pure, mentre l’Inghilterra vuole andare, solo la Grande Londra vuole restare. Il leave prevale su 263 collegi su 392, ed il remain su 119. Ancora una volta le aree rurali, i piccoli centri di provincia, le Midlands, si schierano per il No. In quasi tutte le aree metropolitane prevale il remain, nella inner London con il 78%. Qui la frattura, anche più che in America passa per quelli che abitano ai piani bassi di una società in travolgente trasformazione. A Boston, dove il 31% degli abitanti è clinicamente obeso, hanno votato per andare, mentre nelle parti di popolazione beneficiate dalla new economy e dalla mondializzazione hanno votato per restare in quella UE votata da sempre (e principale promotrice) a questa trasformazione. Anche nella grande Londra, se si guarda più finemente, si vede un cleveage di classe. In uno studioapprofondito si vede come il risultato del voto ha delle forti sovrapposizioni con il consenso per l’Ukip alle europee. I temi che hanno influito sono una parte dell’immigrazione (la ricerca conferma solo quella dall’Est, in particolare l’ondata recente, dal 2004, mentre non incide quella dai paesi europei) anche se curiosamente l’effetto è maggiore nelle aree meno colpite dal fenomeno. Probabilmente la rappresentazione pesa di più dove non c’è rapporto diretto con le persone interessate, dove una rete di rapporti comunque istituiti attenua il senso di estraneità. Ma il leave si afferma in modo netto nelle aree a concentrazione manifatturiera, anche se export-led, pesa il grado di istruzione della popolazione (indicatore sincrono con il grado di deprivazione e di classe), e soprattutto la condizione lavorativa, man mano che peggiorano i salari cresce la propensione al leave. Ma l’indicatore più significativo è la fornitura di servizi pubblici: votano leave quelli che vivono in case popolari in affitto, o in distretti in cui i tagli alla spesa pubblica locale sono stati più forti, quelli che hanno avuto tempi di attesa per trattamenti sanitari indispensabili superiori a 62 giorni. Votano remain le zone con alte percentuali di occupati nel pubblico impiego e con più pendolari verso Londra. Il rapporto sottolinea che sarebbe bastata un poco meno di austerità per cambiare il risultato del voto complessivo.
Ma l’ondata populista non si limita al mondo anglosassone, dove è stata travolgente in questo 2016 appena trascorso, si estende in Francia, chiamata al voto tra dieci giorni. Qui il Fronte Nazionaleha saputo, con la nuova guida di Marine Le Pen, ha saputo oltrepassare le sue tradizionali roccaforti nere e agitando lo spettro della globalizzazione fare del sovranismo un tema dominante nella campagna politica. Qui ci troviamo di fronte ad un’offerta ideologica altamente differenziata, che “ruba” molti temi alla sinistra e una parte del tradizionale elettorato (anche se la campagna di Mèlenchon sembra eroderlo).
E poi abbiamo la Germania, in cui la crescita dell’AfD articola una sorta di “populismo per ricchi” (come paese), ma anche qui capace di lavorare sulle fratture che attraversano il paese in lungo e che si polarizzano in alcune regioni (in particolare dell’est).
Ed infine l’Italia, qui Revelli si concentra su tre forme di populismo (trascurando quello della Lega Nord): il telepopulismo di Silvio Berlusconi che ha dominato l’ultimo ventennio (p.122), il cyberpopulismo del Movimento 5 Stelle (p. 128), che si manifesta insieme al declino della televisione come mezzo di orientamento del voto e della formazione del consenso, un neopopulismo in senso stretto.
Terzo il “populismo dall’alto” di Matteo Renzi (la tesi del suo vecchio libro “Dentro e Contro. Quando il populismo è al governo”), un post-tutto entrato in crisi per eccesso di distanza tra le promesse di marketing e la semplice realtà quotidiana di troppi.
Alla fine questi fenomeni, che hanno tutti una loro forte somiglianza, sono caratteristici dell’età del vuoto che si è aperta. Revelli cita un rapporto di McKinsey che abbiamo già letto “Più poveri de genitori?” nel quale si vede che in Italia, in particolare, hanno perso tutti. Una moltitudine di insoddisfatti si è allargata durante la crisi.
Ma in molti dei casi indicati (se non in tutti) per Revelli queste agitazioni, ben radicate nell’insoddisfazione per una perdita percepita e/o temuta, sono usate dall’alto; il popolo di vittimedi Zizek si affida ad uno dei vincenti che sembra dargli retta e offrirgli una sorta di compensazione. L’agitazione neopopulista è dal basso, ma viene canalizzata, descritta e utilizzata da chi sta in alto.
L’unica cosa che andrebbe fatta davvero (“politiche tendenzialmente redistributive, servizi sociali accessibili, una dinamica sociale meno punitiva, politiche meno chiuse al dogma dell’austerità”) non viene quindi perseguita e viene peraltro repressa ferocemente quando qualcuno ci prova davvero; il blando riformismo greco appare eccesso rivoluzionario da combattere con gli obici della finanza e i cavalli di frisia della BCE.
Il sospetto, che lascia Marco Revelli è che in fondo il neopopulismo non sia così nemico delle élite: nella sua incomprensione delle meccaniche del dominio, nel rifiuto di cogliere i fattori di divaricazione all’opera nel tessuto vivo della società e del mondo del lavoro, opera deviando la rabbia verso falsi bersagli (gli “altri”) e creando unità artificiose, prestandosi, insomma, a governare cambiando tutto perché nulla cambi.
Fonte: Tempo fertile
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