di Ira Chernus
Nella voce del predicatore si poteva avvertire la profonda tristezza mente nominava “il più grande diffusore di violenza oggi nel mondo: il mio sesso governo”. Con quelle parole il reverendo Martin Luther King Jr lanciò un’aspra denuncia della guerra statunitense in Vietnam. Era il 4 aprile del 1967. Quel suo primo sermone contro la guerra sembrò segnalare una nuova marea di opposizione contro un insieme brutale di politiche statunitensi nell’Asia sud-orientale. Solo 11 giorni più tardi, folle inaspettatamente vaste sarebbero scese in strada a New York e San Francisco per le prime manifestazioni davvero di massa contro la guerra. A quel tempo una protesta di almeno un quarto di milione di persone parve enorme.
King segnalò un altro punto di svolta quando concluse il suo discorso citando “qualcosa di ancor più inquietante”, qualcosa che avrebbe anch’esso profondamente turbato il movimento in via di sviluppo contro la guerra. “La guerra in Vietnam”, disse, “non è che un sintomo di una malattia molto più profonda dello spirito statunitense”.
Molti di coloro che si riunirono in manifestazioni contro la guerra giorni dopo stavano già cominciando a sospettare la stessa cosa. Anche se essi fossero realmente riusciti a costringere il loro governo a terminare la guerra in Vietnam, avrebbero curato solo un sintomo di una malattia molto più profonda. Con tale presa d’atto arrivò una svolta nella consapevolezza, il segnale più chiaro della quale si poteva trovare nel considerevole contingente di hippie della controcultura che cominciò a unirsi a tale proteste. Mentre i radicali contro la guerra contestavano le ingiuste scelte politiche e militari del loro governo, i membri della controcultura erano concentrati su qualcosa di più grande: la ricerca di rivoluzionare l’intero tessuto della società statunitense.
Perché ricordare questa storia esattamente cinquant’anni dopo, nell’era di Donald Trump? Abbastanza curiosamente, King offrì una risposta almeno parziale a tale domanda nel suo avvertimento del 1967 a proposito della malattia più profonda. “Se ignoriamo questa domanda che fa riflettere”, disse, “ci troveremo … a marciare … e a partecipare a manifestazioni senza fine”. L’alternativa? “Noi, come nazione, dobbiamo sottoporci a una radicale rivoluzione di valori”.
Come molti della mia generazione mi sento come se, in luogo di tale rivoluzione radicale, io abbia in effetti marciato e partecipato a manifestazioni per l’ultimo mezzo secolo, pur se ci sono stati anche dei periodi di inattività. (In quei tempi tranquilli, ovviamente, erano sempre in corso organizzazione e attivismo dietro le quinte, in preparazione della successiva ondata di marce e dimostrazioni in reazione al successivo insieme di evidenti indecenze).
Se l’arco della storia tende verso la giustizia, come affermò King, è stato un viaggio strano, un bizzarro girare e contorcersi come se fossimo in un giro su montagne russe impazzite.
L’era Trump già pare la svolta più bizzarra di tutte, lasciandoci ben poca scelta, se non marciare e manifestare a un passo accelerato negli anni a venire. Una rivoluzione radicale di valori? Non granchè, a meno che non si guardi ai plutocrati e distruttori dell’ambiente di Trump. Semmai, la nazione si trova di nuovo ad affrontare un sintomo esagerato di una malattia molto più profonda. Forse un giorno, come un tempo i manifestanti contro la guerra del 1967, i dimostranti contro Trump diranno: Se il sistema statunitense in cui viviamo può creare questa atrocità deve esserci qualcosa di sbagliato nell’intera faccenda.
Ma quello è il futuro. Nel presente il movimento di resistenza, anche se inaspettatamente vasto quanto il movimento del 1967, è tuttora concentrato principalmente sui sintomi, la crescente lista di politiche disumane dell’un per cento che i Repubblicani (essi stessi nel caos) si stanno preparando a imporre alla nazione. Le domande cruciali devono ancora arrivare: che cosa è sbagliato nel nostro sistema? Come ha potuto produrre un presidente Trump, un’egemonia Repubblicana e le politiche socialmente distruttive che si accompagnano a entrambi? In che cosa consisterebbe una direzione radicalmente nuova e come avviarsi verso di essa?
Nel 1967 gli attivisti contro la guerra brancolavano in cerca di risposte a domande simili. Noi almeno abbiamo un vantaggio. Possiamo guardare indietro alle loro risposte e utilizzare come aiuto per dare un senso alla nostra situazione. Accade che le loro siano tuttora deprimentemente rilevanti perché la malattia sistemica che produsse la guerra del Vietnam è una parente stretta di quella che ci ha ora dato il presidente Trump.
Diagnosi della nostra profonda malattia
Gli anni ’60 generarono molte analisi dei mali del sistema statunitense. Quelli che segnarono quell’era come rivoluzionaria conclusero che il cuore del problema era una modalità distintiva della coscienza, un modo di vedere, vivere, interpretare e stare nel mondo. Radicali politici e culturali conversero, come ha concluso lo storico Todd Gitlin, nelle loro domande di una trasformazione della “coscienza nazionale, se non globale (o cosmica)”.
Né un sistema simile era unicamente statunitense, scoprirono. Era nientemeno che il marchio della modernità occidentale.
Nell’indagare la natura di quella “malattia molto più profonda”, Martin Luther King, ad esempio, si rivolse al filosofo europeo Martin Buber, che rintracciava le radici di tale coscienza nell’atteggiamento “io-esso” della modernità. Dalla prima infanzia, egli suggeriva, apprendiamo a considerare le altre persone come meri oggetti (“essi”) senza alcun rapporto intrinseco con noi. Nel processo perdiamo facilmente di vista la loro intera umanità. Ciò, a sua volta, ci lascia campo libero per manipolare gli altri (o, come in Vietnam, semplicemente per distruggerli) ai fini del nostro immaginato vantaggio.
King deprecava particolarmente tale disumanizzazione così come si manifestava nel razzismo statunitense: “La segregazione sostituisce una relazione ‘Io-esso’ a una relazione ‘Io-tu’ e finisce col relegare persone alla condizione di cose”. Ma egli condannava ciò con forza non minore nella sfera economica, dove colpiva le persone di tutte le razze. “Il fine del profitto, quando è la sola base di un sistema economico”, diceva, “incoraggia una competizione spietata e un’ambizione egoistica che ispirano gli uomini a essere più concentrati sull’io che sul ‘tu’. Il capitalismo non si rende conto che la vita è sociale”.
Un altro pensatore influente di quell’era fu un filosofo tedesco-statunitense, Herbert Marcuse. (Alcuni radicali persino marciavano in manifestazioni recando cartelli che dicevano “Marx, Mao, Marcuse”). Per lui la disumanizzazione delle modernità era radicata nel modo in cui scienza e tecnologia ci inducevano a considerare la natura come un mero insieme di “cose” senza alcuna intrinseca relazione con noi, cose da analizzare, controllare e, se necessario, distruggere a nostro vantaggio.
I capitalisti usano la tecnologia, spiegava, per costruire macchine che assumono il controllo sia dei lavoratori che le fanno funzionare sia di aspetti del mondo naturale. I capitalisti poi trattano quei lavoratori come tante cose, non come persone. E la stessa gerarchia – cui il capo, lì i comandati – si presenta a ogni livello della società, dalla famiglia nucleare alla famiglia internazionale delle nazioni (con i loro arsenali nucleari). In una società pervasa da strutture di dominio non era un caso che gli Stati Uniti stessero dedicando così tanto sforzo letale a devastare il Vietnam.
Dal punto di vista di Marcuse, tuttavia, lo scherzo peggiore che quei capi ci giocano consiste nel manipolare la nostra coscienza, nel sedurci a pensare che l’intero sistema ha senso ed esiste per il nostro bene. Quando quelle macchine sfornano prodotti che rendono le vite dei lavoratori più confortevoli, la maggior parte di loro è disposta ad abbracciare e perpetuare un sistema che li tratta da oggetti dominati.
Marcuse non sarebbe rimasto sorpreso nel vedere tanti lavoratori votare per Donald Trump, un candidato che ha costruito la sua campagna su promesse di un dominio sempre più intensificato – di emarginati in patria, di “hombres malvagi” che vanno distrutti all’estero e naturalmente della natura stessa, specialmente sotto forma di combustibili fossili, in un pianeta in gli stessi processi di cui si è fatto campione assicurano un futuro di devastazione assoluta.
Una spiegazione del successo elettorale di Trump è stata il modo in cui egli si è appellato agli elettori bianchi della classe lavorativa dei centri che vedevano costantemente eroso il loro stile di vita e il loro senso di status sociale. Vivendo in un mondo in cui la gerarchia e il dominio sono dati per scontati non sorprende certo che molti di loro abbiano dato per scontato anche che la sola scelta accessibile fosse o essere un dominatore o essere dominato. Vota per me, prometteva loro implicitamente l’uomo d’affari miliardario (famoso per l’espressione “Sei fuori!”) e anche tu sarai uno dei dominatori. Vota contro di me e sarai condannato a restare tra i dominati. Come molti altri trucchi del sistema, questo andava contro la realtà, ma ha funzionato comunque.
Molti elettori di Trump che hanno investito nel sistema si troveranno a subire un dominio persino più aspro da parte dell’un per cento. E mentre questa fantasia trumpiana dell’uomo che domina la natura innesca un inevitabile contraccolpo del ventunesimo secolo su scala planetaria, contate su crescenti disastri ambientali e sociali per causare pene sproporzionate a quelli che già soffrono di più sotto il sistema attuale. In ogni arena, come spiegò Marcuse negli anni ’60, il sistema della gerarchia e del dominio resta autoreplicante e auto-intensificante.
“La lunga, dura ma splendida lotta per un mondo nuovo”
Qual è la cura per questa malattia, oggi tanto letalmente evidente in patria quanto lo fu un tempo in Vietnam?
“La fine del dominio [è] la sola esigenza davvero rivoluzionaria”, scrisse Marcuse. La vera libertà, pensava, significa liberare l’umanità dal sistema gerarchico che ci imprigiona nella lotta quotidiana per guadagnarci da vivere vendendo il nostro lavoro. Libertà significa liberare la nostra coscienza per cercare i nostri obiettivi ed essere in grado di perseguirli liberamente. Nelle parole di Martin Luther King libertà è “l’opportunità di realizzare la mia capacità totale senza essere condizionato da alcuna barriera artificiale”.
Come porre fine non solo alla guerra statunitense in Vietnam ma anche a un’intera cultura costruita sul dominio? La risposta di King in quel 4 aprile fu ingannevolmente semplice: “L’amore è in qualche modo la chiave che apre la porta … La prima speranza nel nostro inventario deve essere la speranza che l’amore avrà l’ultima parola”.
La semplicità di quell’affermazione era ingannevole perché amore è esso stesso un termine così complicato. King spiegò spesso che i greci avevano tre termini per amore: eros (amore estetico o romantico), philia (amicizia) e agape (devozione di chi si sacrifica per gli altri). Non lasciò dubbi che egli considerava agape molto superiore agli altri due.
La controcultura emergente in quegli anni certamente concordava con lui sulla centralità dell’amore per la liberazione umana. Dopotutto era la “generazione dell’amore”. Ma il suo mantra – “se ti fa sentire bene, fallo” – rese irrealizzabile per loro il rifiuto di eros da parte di King nel nome dell’agape negatrice di sé.
King, tuttavia, offrì un’altra visione dell’amore, che era molto più congeniale alla controcultura. L’amore unisce tutto ciò che è separato, predicava. Questo è il tipo di amore che Dio usa nella sua opera. Noi, a nostra volta, siamo sempre chiamati a imitare Dio e a trasformare così la nostra società in quella che King chiamava una “comunità amata”.
Anche se pochi all’epoca fecero il collegamento, la visione cristiana dell’amore di King era considerevolmente simile alla visione laica dell’amore erotico di Marcuse. Marcuse considerava l’eros come la realizzazione del desiderio. Lo considerava anche come tutt’altro che egoista, poiché proviene da quello che Freud chiamava l’id, che vuole sempre abolire i confini dell’ego e recuperare quel senso di unità con tutto ciò che avevamo da bambini.
Quando sperimentiamo chiunque o qualsiasi cosa eroticamente sentiamo che siamo intrinsecamente interconnessi, “legati insieme in un unico destino”, come disse eloquentemente King. Quando i confini e la separazione si dissolvono, non possono esserci questioni di gerarchia o dominio.
Ogni momento che accenna a tale unificazione ci arreca piacere. In una società rivoluzionaria che rigetta le strutture di dominio a favore dell’ideale di unificazione, tutte le politiche sono indirizzate alla creazione di altri momenti di unità e piacere.
Consideratela la rivoluzione profondamente meditata degli anni ’60: menti radicalmente trasformate avrebbero creato una società trasformata radicalmente. I rivoluzionari dell’epoca, infatti, stavano tentando di condurre la lotta molto utopica cui King chiamò tutti gli statunitensi nel suo discorso del 4 aprile: “la lunga, dura ma splendida lotta per un mondo nuovo”.
Cinquant’anni dopo: il filo che unisce
Esattamente cinquant’anni fa un movimento che si opponeva a una guerra brutale di dominio in una terra lontana stava dando vita a un movimento che sollecitava la creazione di una nuova coscienza per guarire la nostra società malata. Il movimento di resistenza del 2017 seguirà la stessa direzione?
A prima vista pare improbabile. Dopotutto, sin dalla fine della guerra del Vietnam i progressisti hanno avuto una tendenza a concentrarsi su singoli casi di ingiustizia o su liste della spesa di problemi. Raramente hanno immaginato il sistema statunitense come qualcosa di più di un insieme di politiche mal concepite e di politici senza cuore. Inoltre, dopo anni di opposizione alla destra mentre conseguiva una vittoria dopo l’altra, e di assistere ai Democratici trasformarsi in un gruppo neoliberista e poi in un partito alla bancarotta con banali proprie liste della spesa di problemi e personalità, la capacità di sperare in un cambiamento fondamentale può essere morta, come Herbert Marcuse e Martin Luther King.
Tuttavia, per chi guarda bene, esiste un legame di speranza. Le marce, manifestazioni, assemblee cittadini di oggi sono piene di veterani degli anni ’60 in grado di ricordare, se ci proviamo, cosa si provava a credere che stavamo lottando non solo per fermare una guerra, bensì per avviare una rivoluzione delle coscienze. Nessun dubbio al riguardo: abbiamo commesso una quantità di errori allora. Oggi, con tanto esperienza in più (per quanto triste) nella nostra memoria, potremmo forse sviluppare strategie più flessibili e una certa fede nell’assumere un approccio più paziente e di lungo termine all’organizzazione per il cambiamento.
Non dimentichiamo anche che, quali che siano stati i nostri fallimenti e quelli di altri movimenti del passato, abbiamo anche fondamenta profonde di vittorie (assieme a sconfitte) su cui costruire. No, non c’è stata una rivoluzione a tutto campo della nostra società, nessuna sorpresa al riguardo. Ma in tante sfaccettature del nostro mondo ciò nonostante ci sono stati dei progressi. Si pensi a come, in quei cinquant’anni appena trascorsi, le idee sulla diversità, l’uguaglianza sociale, l’ambiente, l’assistenza sanitaria e tanti altri temi, un tempo esistenti solo ai margini del nostro mondo, sono divenute del tutto correnti. Considerate nel loro complesso, rappresentano un insieme di cambiamenti parziale e tuttavia profondo della coscienza statunitense.
Naturalmente gli anni ’60 non solo non possono essere resuscitati, ma non dovrebbero esserlo. (Dopotutto non si dovrebbe mai dimenticare che ciò cui portarono non fu il sogno di una nuova società bensì la “rivoluzione reaganiana”, con l’arco della giustizia che prese la prima delle sue molte svolte e contorsioni). Al meglio la critica del sistema degli anni ’60 dovrebbe essere aggiornata per includere molti sviluppi nuovi.
Persino i metodi di quei radicali degli anni ’60 dovrebbero subire revisioni profonde, considerato che il nostro mondo, specialmente nelle comunicazioni, oggi dipende tanto pesantemente da cambiamenti di una velocità accecante nella tecnologia. Ma ogni volta che ci colleghiamo a Internet e navighiamo in rete, ciò dovrebbe ricordarci – ombre del passato – che in questo nostro pianeta sotto attacco siamo tutti legati insieme in un’unica rete mondiale di relazioni e di destini. Si tratta di essere uno per tutti e tutti per uno oppure non ci sarà nessuno per 7,4 miliardi su un pianeta diretto all’inferno.
Persino i metodi di quei radicali degli anni ’60 dovrebbero subire revisioni profonde, considerato che il nostro mondo, specialmente nelle comunicazioni, oggi dipende tanto pesantemente da cambiamenti di una velocità accecante nella tecnologia. Ma ogni volta che ci colleghiamo a Internet e navighiamo in rete, ciò dovrebbe ricordarci – ombre del passato – che in questo nostro pianeta sotto attacco siamo tutti legati insieme in un’unica rete mondiale di relazioni e di destini. Si tratta di essere uno per tutti e tutti per uno oppure non ci sarà nessuno per 7,4 miliardi su un pianeta diretto all’inferno.
Oggi è diverso, anche, perché il nostro movimento non è nato da proteste contro una politica odiosa, ma contro una mentalità odiosa, incarnata in una persona deplorevole che, ciò nonostante, è riuscita ad arrivare allo Studio Ovale. Egli è così palesemente un sintomo di qualcosa di più vasto e profondo che forse i dimostranti di questa generazione capiranno più rapidamente dei radicali dell’era del Vietnam che la malattia sottostante degli Stati Uniti è una forma distruttiva di coscienza (e non solo un brutto riporto).
Il passaggio dall’opposizione a singole politiche alla trasformazione della coscienza statunitense può essere già iniziato in modi minori. Dopotutto “l’amore schiaccia l’odio” è divenuto lo slogan più comune del movimento progressista. E la parola amore ricorre nel discorso politico critico, non solo a sinistra, ma tra voci politiche convenzionali come Van Jones e Cory Booker. Ancora una volta si parla persino di “amore rivoluzionario”.
Naturalmente le politiche specifiche dei Repubblicani e di questo presidente (comprese le sue emergenti politiche belliche) devono essere contrastate e l’emorragia del momento immediato va tamponata. Tuttavia rimane la domanda urgente dei tardi anni ’60: che cosa si può fare quando ci sono tanti fronti su cui lottare e l’intero sistema richiede una costante attenzione vigile? Nell’era di un presidente che regolarmente si prende tutto lo spazio, come facciamo addirittura a parlare di tutto questo senza essere schiacciati?
In molti modi l’attuale onda di cambiamento regressivo e di crescente caos a Washington dovrebbe essere trattata come una caricatura del sistema in cui tutti noi abbiamo vissuto tanto a lungo. Ci si rivolga a quella dimensione più vasta e la ricerca di una nuova coscienza può dimostrarsi il filo che, anche se poco notato, già collega i molti volti dell’emergente movimento di resistenza.
La più vasta mobilitazione di politica progressista dall’era del Vietnam offre un’occasione unica di andare oltre il semplice trattamento di sintomi e cominciare a offrire cure per la malattia sottostante. Se questa occasione sarà mancata è probabile che si ripresenteranno gli stessi sintomi, mentre ne emergeranno di imprevedibilmente nuovi nei prossimi cinquant’anni e, come predisse Martin Luther King, continueremo a marciare senza fine. Sicuramente meritiamo un futuro migliore e un destino migliore.
Questo articolo è apparso inizialmente su TomDispatch.com, un blog del Nation Institute, che offre un flusso costante di fonti, notizie e opinioni alternative da Tom Engelhardt, a lungo direttore di edizione, cofondatore dell’American Empire Project, autore di ‘The End of Victory Culture’ e di un romanzo, ‘The Last Days of Publishing’. Il suo libro più recente è ‘Shadow Government: Surveillance, Secret Wars and a Global Security State in a Single-Superpower World’ (Haymarket Books).
Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: TomDispatch.com
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2017 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
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