La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 18 aprile 2017

Rotta di collisione: euro contro welfare?

di Lorenzo Cattani
La crisi che l’Europa sta attraversando è molto probabilmente l’elemento che distinguerà il secondo decennio del terzo millennio. Ogni emergenza affrontata negli ultimi anni si è inserita in un dibattito pubblico la cui bussola è quella di una “eurocrisi” da cui sembra ancora difficile uscire. Il nodo cruciale da cui passa il superamento di questa difficile congiuntura storica (che porti, di conseguenza, a riprendere il processo di integrazione) è la riconciliazione tra l’Europa economica e l’Europa sociale. Maurizio Ferrera si concentra proprio su questo tema nel suo libro “Rotta di collisione: euro contro welfare?”. Infatti è proprio sul rapporto fra welfare nazionale e integrazione europea che, secondo l’autore, si gioca un’importante partita per il futuro dell’UE.
Il libro ha il grande merito di sposare una grande profondità analitica con un’efficace sintesi, che permette di cogliere le principali problematiche “dell’elefante Europa” con molta chiarezza.
Quattro linee di conflitto
Il Welfare State svolge funzioni importantissime, ma negli ultimi anni ha posto sfide sul piano della sua sostenibilità finanziaria (soprattutto in risposta all’invecchiamento della popolazione) e della natura dei suoi programmi, che proteggono contro rischi sociali non più pressanti come in passato, senza però fornire protezione contro nuovi rischi: precarietà lavorativa, erosione delle competenze, conciliazione lavoro-famiglia, non autosufficienza, nuove forme di povertà ed esclusione sociale. In questo quadro, l’integrazione economica ha minato “le fondamenta istituzionali del welfare nazionale: ossia il diritto sovrano dello Stato di determinare i confini, le forme e l’estensione della solidarietà, compresi i livelli di tassazione e di spesa”. Le tensioni fra welfare nazionale e integrazione europea si sono accumulate a partire dagli anni ’90 e sono esplose con l’attuale crisi, con il contrasto fra le esigenze di protezione sociale e l’austerità imposta dalla UE. Ciò è presto sconfinato sul campo elettorale, portando all’ascesa delle forze euroscettiche e attivando “il latente conflitto distributivo tra gli Stati membri più ricchi e più forti e gli Stati membri più poveri e deboli”. È possibile riconciliare queste due dimensioni, salvando i tratti distintivi del modello sociale europeo, nel contesto di un’unione sempre più stretta? Per poter rispondere alla domanda è necessario capire come si articola questa tensione, prima di poter formulare una diagnosi completa e suggerire ipotetiche linee di intervento per “riconciliare e sistemare”.
Ferrera riconosce quattro linee di tensione che contribuiscono a destabilizzare l’equilibrio del welfare e dell’Unione Europea.
Europa economica contro Europa sociale: questa tensione si origina a partire dagli anni ’80 e a che fare con l’assenza di norme europee che “tutelino e promuovano adeguati livelli di protezione, magari anche attraverso risorse finanziarie del bilancio UE”. L’integrazione europea risponde prevalentemente ad una logica economica, che mira a tutelare la concorrenza e la libertà di circolazione. A questo si aggiunge il fatto che il governo dell’Unione Economica Monetaria (Uem), è stato affidato ad una serie di regole e procedure pre-stabilite, affidandosi a quello che Padoa-Schioppa definì il “pilota automatico”. È questo il caso del patto di stabilità firmato dai paesi Uem nel 1997 e del Fiscal Compact del 2012.
Il problema di questo assetto è che al momento della loro adesione, molti paesi non rispettavano tali vincoli (due su tutti Italia e Grecia). Non potendo più ricorrere alla leva monetaria, questi paesi avrebbero dovuto stimolare crescita e occupazione, rientrando contemporaneamente nei parametri di Maastricht unicamente tramite quella fiscale. È la cosiddetta “svalutazione interna”: taglio del costo del lavoro e delle spese sociali oltre a misure per guadagnare efficienza e competitività in un quadro di finanze in equilibrio. Ferrera ricorda infatti che è da qui che è nata la filosofia dei “compiti a casa” e delle riforme strutturali e in generale la linea del rigore fiscale che, con la crisi, ha condotto l’Uem in un circolo vizioso: vincoli di bilancio, svalutazioni interne, meno crescita, più debito.
L’autore non critica l’idea delle riforme strutturali in sé, ma ammette che da sole non hanno funzionato, anzi hanno scaricato i costi dell’aggiustamento sulle fasce più vulnerabili della popolazione, aumentando le diseguaglianze e la povertà, soprattutto nei paesi del Sud Europa. Nonostante le strategie per la convergenza economica, “Lisbona” ed “Europa 2020”, nonché lo stesso trattato di Lisbona del 2009 avessero preso in esame i risvolti distributivi dell’austerità, non si può dire che a tali risvolti sia stato dato un peso di primaria importanza. Gli obiettivi di welfare sono sempre stati posti in secondo piano rispetto a quelli fiscali e macroeconomici, puntando su strategie di market-making (integrazione negativa) piuttosto che altre di market-correcting (integrazione positiva). Questo, secondo Ferrera, ha avuto l’effetto di “incurvare” la dimensione destra/sinistra alle due estremità: la sinistra radicale ha sviluppato una crescente avversione per il processo di integrazione, ritenuto “inospitale rispetto ad alcuni dei loro obiettivi”, mentre la destra radicale si è concentrata sulle minacce alle comunità e alla cultura nazionale sollevate dall’integrazione. Il sostegno della UE si è quindi concentrato al centro, con poche differenze fra centro-sinistra e centro-destra, una dinamica che la crisi ha esacerbato. Tuttavia, se la dimensione destra/sinistra si costruisce sul dibattito circa il tipo di Europa che si desidera, ne è sorto un altro incentrato non sul “tipo” di Europa che si vuole ma “se” si vuole l’Europa.
In generale, la tensione fra la dimensione economica e quella sociale è diventato un tema divisivo anche al di fuori delle arene sovranazionali: a livello nazionale anche gli elettori e le formazioni politiche favorevoli all’integrazione si sono divise sul tipo di Europa da sostenere e perseguire. La “UE ha smesso di essere percepita come un’istituzione lontana […] ai margini delle competizioni politiche e ideologiche nazionali”, europeizzando la classica dimensione destra/sinistra.
Creditori del Nord contro debitori del Sud: Ferrera afferma che la rivelazione dell’inganno greco (circa la reale entità del deficit) abbia fatto prevalere l’effetto paese sull’effetto crisi e, soprattutto, sull’effetto UE, rendendo “meno visibili […] le responsabilità di altri fattori operanti all’interno dell’Eurozona: i difetti di costruzione dell’euro, l’eccessiva fiducia nel “pilota automatico”, le distorsioni dentro e fra i paesi […] nonché la lentezza e l’inadeguatezza delle risposte che le istituzioni sovranazionali diedero ai primi sintomi della crisi”.
Questa dinamica è stata sentita soprattutto in Germania dove tuttora esperti e opinione pubblica vedono nell’irresponsabilità greca e dei paesi del Sud la principale causa della crisi. Il più importante partito euroscettico tedesco, l’AfD, nasce proprio in questi anni (per la precisione del 2012), quando diversi professori di economia misero in guardia il governo dall’implementare il bail out greco, primo pericoloso passo verso la “socializzazione” dei debiti pubblici dei “peccatori” meridionali. Ciò ha riportato in auge il conflitto fra l’etica protestante, che punisce chi ha vissuto al di sopra dei propri mezzi, e quella cattolica. In generale si può affermare che nei paesi del Nord, due su tutti Olanda e Finlandia ha prevalso questa visione, che tende a enfatizzare l’effetto paese; non a caso in tutti questi paesi si sono affermati partiti euroscettici fortemente critici di un’UE allargata ai paesi mediterranei.
La crisi ha però generato dinamiche opposte nei paesi del Sud, che hanno trascurato l’effetto paese, dimenticandosi del fatto che “l’inganno greco” era effettivamente avvenuto e che le economie e finanze mediterranee erano oggettivamente fragili, amplificando l’effetto UE. Il problema è che mentre la “vittima” tedesca non ha subito perdite direttamente tangibili o riconducibili a decisioni del proprio governo, nei paesi mediterranei l’intervento della Troika ha prodotto “perdite visibili e quantificabili a pensionati, disoccupati, utenti dei servizi pubblici e così via”. I leader mediterranei, di fronte a una situazione dove i sacrifici hanno colpito gruppi sociali definiti, hanno dovuto cercare un colpevole verso cui indirizzare il biasimo, al fine di “schivare” il malcontento e la sconfitta elettorale. Da qui la logica per cui siano Bruxelles e Angela Merkel i colpevoli di questa crisi. Alla logica del biasimo esterno si è però aggiunta anche quella del biasimo interno nei confronti di una classe politica che aveva imposto tali sacrifici alla propria popolazione: è in quest’ottica che si può spiegare il successo del Movimento 5 Stelle e il nuovo corso della Lega Nord in Italia, così come la nascita degli Indignados e Podemos in Spagna. Questi processi hanno ovviamente trovato massima espressione in Grecia, portando alla vittoria elettorale di Syriza.
Vecchia Europa contro nuova Europa: questa dimensione ha prevalentemente a che fare con l’allargamento ad Est e ha soprattutto a che vedere col dibattito relativo all’immigrazione interne ed esterna all’UE e al “turismo sociale”. Da una parte vi è il problema del flusso migratorio da est a ovest (ma anche da Sud a Nord con le recenti ondate migratorie dal Nord Africa), che stimola la percezione di due danni, contro cui le comunità nazionali devono essere protette: il danno fiscale (migranti che beneficiano di prestazioni e servizi senza contribuirne al finanziamento) e il danno lavorativo (concorrenza sleale per i posti di lavoro). Nonostante gli studi empirici non mostrino effetti economici negativi dell’immigrazione né mostrino l’esistenza di un forte “turismo sociale”, le percezioni degli elettori non possono essere ignorate da parte di partiti e governi. Ukip e AfD hanno spesso attaccato la libertà di movimento, suscitando reazioni da parte dei partiti di governo che hanno dovuto “difendere il proprio fianco destro” nella competizione elettorale. Altro problema è quello del social dumping, cioè sfruttare, ad esempio, il differenziale salariale di due paesi per vincere un appalto. È in quest’ottica che può essere letto tutto il movimento di opposizione alla direttiva Bolkestein, che ha visto emergere una nuova dimensione di conflitto territoriale, che vede contrapposti stati dell’Est a stati dell’Ovest. Secondo Ferrera il rischio è che le crescenti domande verso una limitazione della libertà di movimento portino ad un’Europa “fortezza di fortezze”, chiusa sia verso l’esterno che verso l’interno.
Sovranità contro integrazione: la crisi dell’euro non ha fatto bene agli equilibri fra Unione e Paesi membri. Il trattato di Lisbona avrebbe dovuto aprire una nuova fase dell’integrazione, ma la crisi ha sovrapposto all’architettura di Lisbona un sistema intergovernativo di regole e procedure per il governo fiscale ed economico dell’UE, istituendo, fra l’altro, anche i nuovi fondi salva-stati. Questi cambiamenti hanno incentivato la percezione di Bruxelles, e della Germania, come guardiana dell’austerità e nemica del welfare. L’elemento di novità, e preoccupazione, è però l’aumento della sfiducia fra la classe media, duramente colpita dalla crisi. Come ricorda Ferrera, il proseguimento dell’integrazione non può essere un processo di élite; se il “sostegno della classe media dovesse rivelarsi qualcosa di più profondo di un’oscillazione congiunturale, la tenuta dell’Unione e sicuramente il suo futuro sarebbero in serio pericolo”. Quando poi si manifestano conflitti Nord-Sud o Est-Ovest, la scelta di criticare l’UE diventa più facile, tendendo anche a “verticalizzare” la dimensione destra/sinistra. Ferrera cita il caso dei paesi nordici, che non vogliono intromissione europee nel loro welfare e quello del Regno Unito, che non voleva che il “sociale europeo” interagisse col mercato del lavoro.
La crisi del welfare
In questa sezione Ferrera effettua un analisi storica di come si è evoluto il consenso socialdemocratico in Europa e di come è poi entrato in crisi con la rivoluzione neo-liberista anglo-sassone. Le riforme degli anni ’90 possono essere viste come una continuazione del pensiero neo-liberista, con importanti differenze tuttavia: equità, inclusione e coesione sociali venivano infatti integrate in un’agenda che aveva nell’efficienza e nel contenimento dei costi i suoi obiettivi principali. Ferrera lo definisce “neo-welfarismo liberale”. Allo stesso tempo, l’Unione Europea è stata protagonista di uno scivolamento economicistico, trasformando i beni strumentali (più apertura, concorrenza, mercato) in beni finali, ovvero in obiettivi da perseguire. L’apertura, il perseguimento dell’efficienza non erano più visti come strumenti per raggiungere un obiettivo, cioè quello di creare una società più libera e prospera, ma sono diventati l’obiettivo stesso che le politiche dell’Unione degli Stati membri dovevano assicurare. Questo porta l’autore ad affermare che negli anni 2000 l’UE sia diventata una vera “econocrazia”, “le cui prescrizioni sono diventate una sorta di pensiero unico”. L’econocrazia è una tecnocrazia che interiorizza la necessità degli economisti di “aggiustare” operativamente le cose, diffidando delle dinamiche dei consensi e delle discussioni sui principi. A questo si deve aggiungere l’impatto che l’ordoliberalismo ha avuto sulla struttura istituzione dell’UE (temi che Pandora ha già trattato in diverse occasioni: l’ordoliberalismo e la scuola di Friburgo e l’economia sociale di mercato), portando ad un governo delle regole, come ad esempio testimoniano le procedure sui deficit eccessivi, sugli squilibri macroeconomici o in merito all’assistenza finanziaria. Tutto questo in un quadro dove le lenti per formulare politiche di risposta sono state fornite dal paradigma dell’austerità.
Tuttavia, con l’integrazione è avvenuto un “passaggio di stato” dal quale non è possibile tornare indietro, di conseguenza il “nazionalismo metodologico”, che impone ai singoli paesi i “compiti a casa”, non può che essere una risposta inadeguata poiché è impensabile che un singolo paese possa effettuare riforme strutturali e disegnare risposte “dal basso” su materie che la riguardano ma che sono state generate dal sistema UE. Ferrera affronta, al riguardo, un tema importantissimo per il dibattito pubblico: il successo del modello tedesco. Da cosa è scaturito? Qual è stato il ruolo delle riforme Hartz (anch’esse già discusse da Pandora in un recente articolo) e dai “compiti a casa” svolti da Berlino? Qual è stato invece il ruolo della stabilità dell’Eurozona, che ha fornito all’export tedesco un vantaggio competitivo? Oppure, avanzando una provocazione, qual è stato il ruolo dei meccanismi di assistenza finanziaria offerti ai paesi mediterranei, che hanno anche salvato dalla bancarotta le principali banche e tedesche e i loro risparmiatori?
La logica dei compiti a casa è stata inadeguata perché ha ipotizzato che gli stati fossero “capaci di piena autodeterminazione nella riduzione del debito pubblico e della crescita interna”. Infine, le asimmetrie economiche sono state corrette solo da un lato: non è stato fatto nulla per riequilibrare i surplus dei paesi core, a partire dalla Germania. Vi è una forte necessità di una governance sistemica della Uem, ma si è ancora molto lontani da questa realtà, soprattutto finché in Germania si continuerà a vedere l’assistenza finanziaria ai paesi periferici come un atto di solidarietà unilaterale.
Da dove ripartire secondo Maurizio Ferrera?
Ferrera arriva ad affermare quindi che in Europa si è creata una “Ragion di Mercato”, senza che però si creasse una Ragion di Stato. La vittima principale della supremazia della Ragion di Mercato è stato certamente il Welfare State, certamente non esente da critiche, portando alla sindrome descritta da Philippe Van Parijs “invece di un mercato addomesticato da una democrazia che lo costringe a fare i conti con la giustizia distributiva, ci ritroviamo con democrazie immerse in un mercato che le sottomette all’ossessione per la competitività”. Come uscire da questa situazione? In questo capitolo l’autore avanza molte proposte, per semplicità ci si concentra solo sul concetto principale. Ferrera riprende l’idea proposta da Frank Vanderbroucke, che parla di “Unione sociale europea” (Use). L’idea è quella di perseguire solo la solidarietà necessaria a livello pan-europeo, mentre a livello nazionale lo scopo è perseguire “tutta la solidarietà possibile”.
Nel concreto, Ferrera indica quali siano, secondo lui, le grandi priorità strategiche su cui intervenire all’interno dell’Use.
Spazi sociali nazionali: l’Use dovrebbe incentivare l’investimento nella lotta all’esclusione, negli asili nido e nella early childhood education and care, nella scuola e nella formazione, nella conciliazione vita-lavoro, nei servizi sociali, politiche per l’invecchiamento attivo e non autosufficienza. Poiché gli investimenti sociali danno i loro frutti sul lungo periodo, la UE dovrebbe fornire ai governi nazionali le informazioni circa i meccanismi causali che giustificano tali investimenti, poiché altrimenti i governanti difficilmente sarebbero disposti a impegnarsi in tal senso.
Spazio della cittadinanza sociale UE: qui il tema principale è la libertà di circolazione delle persone. Ferrera suggerisce che sia al livello della Corte di Giustizia che vadano ricercate soluzioni che possano ricalibrare l’equilibrio fra apertura e chiusura, tenendo conto delle sensibilità delle opinioni pubbliche di diversi paesi. Il tutto giustificato da un mix fra benevolenza e reciprocità, caratterizzata da una ospitalità “condizionata e non dominante”: chi ospita ha il diritto di stabilire delle clausole di accoglienza, per esempio tramite restrizioni nell’accesso a determinate prestazioni in termini di contropartite da parte di chi è ospitato, senza però usare il proprio potere posizionale per interferire arbitrariamente nelle scelte di chi è ospitato.
Spazi sociali subnazionali: negli ultimi vent’anni si è registrata una tendenza verso un neoregionalismo sociale in importanti aree: sanità, servizi sociali, politiche attive del lavoro e inclusione. In parte ciò è dovuto ad uno “scarico” da parte dei governi centrali, in difficoltà nel gestire le politiche sociali, sulla dimensione locale, in parte è anche dovuto all’integrazione europea, che ha fornito incentivi e risorse che hanno attivato processi di region bulding, imperniati sulla differenziazione territoriale e sulle politiche di welfare. L’Use dovrebbe dedicare molta attenzione a questi processi, che hanno grande potenziale virtuoso, anche per sperimentare innovative forme di finanziamento, del mix pubblico-privato e dell’organizzazione. Inoltre, collegando le élite sovranazionali con quelle subnazionali si aprono canali e modalità di costruzione del consenso e, più in generale, legittimazione della UE nel suo complesso.
Politica sociale UE: in questo campo bisognerebbe agire per introdurre standard in materia di mercato del lavoro e inclusione sociale con lo scopo di contrastare il dumping sociale e favorire la mobilità, come ad esempio il salario minimo europeo e regole vincolanti per il reddito minimo garantito. Ma soprattutto, la priorità dovrebbe essere data alla creazione di un meccanismo dotato di risorse per sostenere la solidarietà fra paesi in caso di shock asimmetrici, ovvero un sistema di assicurazione che ammortizzi le spese sociali legate a recessioni economiche di particolare gravità. Naturalmente bisogna, da un lato, assicurarsi di scongiurare il rischio di azzardo morale da parte dei paesi e, più in generale, una loro azione irresponsabile, ma dall’altro bisogna evitare che gli shock asimmetrici mettano a repentaglio i mezzi di sussistenza di base dei cittadini.
Costituzione sociale europea: il trattato di Lisbona ha posto le fondamenta dell’Use, ma la crisi ha interrotto il processo di costruzione dell’Unione sociale. Bisogna quindi ripartire da Lisbona, attivando “il potenziale trasformativo delle sue norme”. Bisogna ridefinire i valori della UE, che secondo l’articolo 2 del Trattato includono anche libertà, democrazia, uguaglianza e dignità umana. Il trattato dà alla dimensione sociale una supremazia valoriale, nonché un’autonoma cogenza normativa e operativa al pari della dimensione economica, afferma Ferrera. È poi importante riprendere il richiamo alla promozione dell’occupazione e della protezione sociale, fungendo da argine alla Ragion di Mercato. Infine, il Trattato di Lisbona colloca la politica sociale fra le competenze concorrenti e, come afferma Ferrera, la sovranità condivisa riconosciuta alla politica sociale è quella che meglio consente di cercare un equilibrio dinamico fra le varie componenti dell’Use.
È questo un percorso difficile da intraprendere ma non impossibile e, soprattutto, richiede importanti investimenti da parte dei leader europei. La Germania ha indubbiamente un ruolo fondamentale, ma è cruciale che anche gli altri paesi si attivino al fine di creare “un’Unione più sociale e più politica e adeguatamente <>”.

Fonte: pandorarivista.it

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