di Francesco Floris
Servono almeno quattro immagini per descrivere la crisi che vive la Repubblica Centrafricana (CAR). La prima: immaginate un Paese, fra i più ricchi al mondo di risorse naturali e vasto quanto la Francia, popolato da 4,6 milioni di abitanti. Dove quasi la metà della popolazione vive uno stato di insicurezza alimentare e un milione di persone è costretto a lasciare la propria casa e il proprio villaggio per fuggire nei Paesi confinanti – Camerun e Ciad in particolare – o in altre aree del Paese. Immaginate una nazione in cui Mahamat Tahir Ahmed, il vice Governatore della Banca degli Stati dell'Africa centrale, si fa intervistare alla radio nazionale e si dice ottimista e fiducioso rispetto alle aspettative economiche.
Perché la crescita si è assestata al +1 per cento nel 2014 – la miglior rilevazione dal 2000. Lo dichiara nello stesso Paese che l'anno precedente ha registrato una contrazione del 37 per cento del Pil.
Perché la crescita si è assestata al +1 per cento nel 2014 – la miglior rilevazione dal 2000. Lo dichiara nello stesso Paese che l'anno precedente ha registrato una contrazione del 37 per cento del Pil.
Immaginate l'arcivescovo di Bangui, Dieudonné Nzapalainga, che ospita e nasconde in casa propria l'imam della moschea centrale Kobine Layama e la sua famiglia. Per permettergli di sfuggire alla carneficina messa in atto dalle milizie cristiano-animiste anti-Balaka, che hanno massacrato un migliaio di civili per le strade della capitale. È una rappresaglia quella degli anti-Balaka (anti-machete), contro l'assedio di cui si sono macchiati pochi mesi prima i ribelli Seleka portando alla caduta, per mano militare, del Presidente Françoise Bozizé che governava la nazione dal golpe del 2003.
Nella narrazione comune i Seleka sono una coalizione di forze a maggioranza musulmana ma nella realtà si tratta di un consorzio eterogeneo di sigle, mercenari, jihadisti saheliani e gruppi armati di varia matrice, provenienti dalle aree più sottosviluppate nel nord-est del Paese, senza alcuna agenda politico-religiosa. Avrebbero dovuto cessare il fuoco dopo il rovesciamento del governo nel 2013. Così non è stato, nemmeno dopo che l'ordine venne impartito dal loro ex leader Michel Djotodia – ora esiliato in Benin dal gennaio 2014.
E infine immaginate uranio, diamanti e legname pregiato. Il primo è nelle mani della multinazionale dell'energia francese Areva, che fra scandali ripetuti e attacchi ai propri siti di esplorazione, estrae la pregiata materia prima. I diamanti escono dalle miniere non autorizzate e controllate da bande armate, attraversano le porose frontiere con il Ciad o il Congo-K, si dirigono in Sudan e da lì prendono il volo verso Dubai e gli Emirati Arabi. E in questo tortuoso percorso sfuggono ai controlli, già di per sé carenti, del “Kimberley Process” – il “passaporto” che dovrebbe garantire che i profitti generati dal commercio di diamanti non vadano ad alimentare una guerra civile. Nulla o quasi di questa ricchezza passa per la capitale Bangui o le altre città della Repubblica Centrafricana.
E infine il pregiato legname della foresta pluviale, destinato ai mercati di Germania, Francia, Inghilterra e Cina, i cui proventi alimentano le milizie armate. È quanto emerge dall'inchiesta “Blood Timber” del 2015 condotta dall'organizzazione britannica Global Witness che con documenti e interviste ha dimostrato come tre fra le principali multinazionali di settore – i francesi di Ifb, i libanesi di Sefca e la VicVood cinese, che insieme controllano una foresta vasta 200 volte Parigi – abbiano effettuato pagamenti frequenti sia ai Seleka che agli anti-Balaka. Sotto forma di tangenti per le scorte armate, per superare i blocchi stradali o garantirsi la quiete nelle aree di sfruttamento. Nel dossier della Global Witness si trova un video che ha fatto molto scalpore. Una funzionaria della francese Tropica-Bois – società che ha continuato a importare legname da quando la guerra è scoppiata nell'autunno del 2012 ed è controllata al 50 per cento proprio da Sefca – dichiara, senza sapere di essere, registrata che «Questa è l'Africa. La guerra è così frequente che non vi prestiamo attenzione... Non è una guerra in cui attaccano i bianchi. Non è una guerra che possiamo evitare».
Viene definita una guerra a bassa intensità quella nella Repubblica Centrafricana. Dove anche gli interventi esterni dell'operazione MINUSCA con i caschi blu dell'Onu, l'operazione Sangaris della Forze armate francesi e il contingente MISCA dell'Unione Africana, sono andati incontro a fallimenti conclamati nel disarmare le milizie oltre che a gravi accuse di violenze e molestie sessuali sulla popolazione. Le poche testimonianze che giungono sono raccapriccianti. René Colgo, vice capo della missione di Medici Senza Frontiere nelle aree di Bakouma Nzako, ha parlato di «esecuzioni sommarie e corpi mutilati lasciati esposti per terrorizzare la popolazione. I civili sono terrorizzati, in molti fuggono nella boscaglia dove cercano di sopravvivere con ciò che riescono a trovare». La ong ha diramato un comunicato in cui parla di aumento degli attacchi mirati a comunità specifiche, mentre il conflitto si sta allargando anche alle zone ritenute stabili negli ultimi due anni.
La stessa natura religiosa della guerra che vedrebbe contrapposta fra una maggioranza di cristiano-animisti e una minoranza musulmana è stata messa in dubbio dagli osservatori più attenti. L'arcivescovo di Bangui Nazapalinga ha rilasciato una dura intervista, assieme all'imam Layama, al periodico spagnolo Abc, in cui i due spiegano come dietro l'odio religioso si mascheri una guerra per il controllo delle risorse del Paese.
Fonte: Linkiesta
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