di Giovanni Battista Zorzoli
È un atto di accusa, fondato sul compendio della storia della disoccupazione attraverso i secoli (e i millenni). Domenico De Masi scrive come parla. Affabulatore abile e informato, il virtuosismo della sua narrazione rende la lettura fluida, malgrado l’accavallarsi di dati, citazioni, stringate analisi del pensiero di autori monumentali, come Keynes, o dei socialisti utopistici (Fourier, Owen, Saint-Simon). La descrizione dettagliata dei meccanismi che attualmente provocano la distruzione progressiva di posti di lavoro è inframezzata da sintesi a volte illuminanti - «il profitto va perseguito e corteggiato, mai nominato; così pure non vanno mai nominate le classi (che non esistono più), la lotta di classe (estinta per sempre), la rivoluzione (sconfitta dalle riforme), lo sfruttamento (assorbito dalla crisi generale), i padroni (che sono la buona «parte viva» del Paese”)» -, altre volte inclini a forzature.
È indiscutibile che «l’economia prende il sopravvento sulla politica, la finanza prende il sopravvento sull’economia», ma subito dopo affermare che «le agenzie di rating prendono il sopravvento sulla finanza» assomiglia a una triplo salto carpiato concluso da una rovinosa caduta.
È indiscutibile che «l’economia prende il sopravvento sulla politica, la finanza prende il sopravvento sull’economia», ma subito dopo affermare che «le agenzie di rating prendono il sopravvento sulla finanza» assomiglia a una triplo salto carpiato concluso da una rovinosa caduta.
Sono 190 pagine per introdurre la parte propositiva, intitolata appunto «Che fare», con un pizzico di civetteria senza punto interrogativo. In un excursus così dettagliato, la fine della golden age, avviata dal New Deal rooseveltiano e consolidatasi nei primi decenni del dopoguerra in tutto l’Occidente con il compromesso keynesiano tra capitalismo e lavoratori, è però spiegata in modo spiccio, ma soprattutto incredibilmente riduttivo. « Il mondo accademico europeo, che quel dogma [il liberismo] aveva formulato e imposto a mezzo mondo, reagì con una virulenza inaudita in difesa del capitalismo, gravemente compromesso nel suo prestigio [dal successo del welfare state]. Ben due scuole di economisti si mobilitarono: quella austriaca, capeggiata da Friedrich von Wieser e Ludwig von Mises, e quella di Friburgo, capeggiata da Wilhelm Röpke e Walter Eucken. Più tardi si svegliò anche la Scuola di Chicago con Frank Knight, Gary S. Becker e Milton Friedman … l’ordine liberale, facendo leva sull’alleanza tra mondo accademico e mondo finanziario, è riuscito a imporsi all’intero pianeta condizionandone, attraverso l’economia, la vita intera». Tutto qui.
Viceversa, non è fortuita coincidenza che la reazione neoliberista sia iniziata negli anni ’80, in coincidenza con l’avvio della crisi del blocco comunista (dall’affermarsi di Solidarność ai tentativi di riforma di Gorbaciov), e il suo consolidamento avvenga nel decennio successivo, con il dissolvimento dell’URSS e del suo sistema di potere. L’alternativa “socialdemocratica”, variamente coniugata (tale era anche l’economia sociale di mercato della CDU tedesca), da contrapporre alla propaganda del blocco comunista come soluzione ottimale per i lavoratori (welfare e libertà), non era più necessaria. Il crollo del blocco comunista era dimostrazione sufficiente della superiorità del capitalismo, oltre tutto facilitato nello smantellamento del compromesso keynesiano dall’apertura di nuove aree geografiche, dove decentrare le produzioni, e dalle opportunità offerte dalle tecnologie digitali.
Questa omissione esime De Masi dall’interrogarsi sui possibili fattori esogeni che possono consentire ai disoccupati di prendere in mano il futuro. Dimentico dell’affermazione di Lazarsfeld, da lui condivisa - da tre secoli atomizzati e dispersi i disoccupati restano «numericamente ma non socialmente una massa» - ipotizza che riescano a dotarsi di una piattaforma informatica, capace di far comunicare i 6 milioni di disoccupati italiani tra loro e con tutto gli altri sparsi per il mondo.
Dopo di che, secondo Masi, per realizzare l’obiettivo immediato – lavorare meno per lavorare tutti – ai disoccupati, che non hanno nulla da perdere tranne la disoccupazione, non resta altra scelta che scompaginare lo status quo, offrendo gratuitamente, attraverso la piattaforma informatica, le loro prestazioni a chiunque ne abbia bisogno, Così, in poco tempo la legge della domanda e dell’offerta andrebbe a gambe all’aria e, rimedio obbligato per uscire da questa situazione critica, il sistema sarebbe costretto a ripartire le ore di lavoro in modo equo tra tutti gli offerenti.
In una prospettiva di lungo periodo, grazie alla continua crescita della delega alle macchine di quasi tutto il lavoro fisico e di gran parte del lavoro intellettuale di tipo esecutivo, alla fine l’essere umano conserverà il monopolio della sola attività creativa, che per sua natura ammette assai meno di quella industriale sia la divisione dei compiti, sia la scissione tra tempo di lavoro e tempo libero. Inizierà allora l’era dell’ozio creativo, su cui De Masi ragiona da decenni, nella quale la capacità di acquisto sarà garantita dal reddito di cittadinanza. Come ci si arriverà, attraverso quali tappe intermedie, con gli inevitabili conflitti economici e sociali, il volume però tace.
Un silenzio che contrasta con l’attenzione dedicata a una prospettiva che assillava Keynes, qualora fosse stata applicata la sua proposta di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. Perché l’ozio nella società postindustriale sia creativo e non crei una maggioranza di cittadini incapaci di gestire positivamente tanto tempo libero, De Masi avanza alcune proposte pratiche, tra cui la più innovativa è l’innalzamento dell’obbligo scolastico fino alla laurea. Soprattutto suggerisce di attingere valori e costumi dalla società ateniese all’epoca di Pericle, di cui fornisce una descrizione più vicina al mito che alla realtà storica, in tal modo bypassando di nuovo l’onere di una riflessione approfondita sulle configurazioni che tale società potrebbe assumere.
In ultima analisi, un’opera ricca di stimoli e con qualche proposta innovativa, ma alla fine incompleta, certamente non per mancanza di spazio. D’altronde, che per una teoria compiuta non siano necessarie le 256 pagine di questo testo, lo dimostra un autore che, nel profluvio di citazioni, De Masi non menziona mai. A Piero Sraffa sono bastate le 112 pagine di Production of Commodities by Means of Commodities, per offrirci una pietra miliare nella storia del pensiero economico, al cui interno introduce il principio di indeterminazione: non è possibile individuare una legge che determini simultaneamente il salario e il saggio del profitto.
Fonte: alfabeta2.it
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