di Pierfranco Pellizzetti
Nell’anno di grazia 1995 l’asfittico panorama librario italiano venne mandato in fibrillazione dall’uscita contemporanea dei ponderosi saggi di due grandissimi storici – François Furet ed Eric Hobsbawm – dedicati al medesimo tema; in una sorta di illogica concorrenza distruttiva tra editori: il lascito del secolo morente, considerandolo compresso in un arco temporale ridotto rispetto alle dieci decadi canoniche. Una storia definita “breve” - che va dal 1917 al 1991 - in quanto misurata e segnata dal rapporto antagonistico tra il mondo occidentale e il suo sfidante, l’ordine scaturito tra la Rivoluzione d’Ottobre e la nascita dell’URSS.
Tema decisivo, affrontato in modalità che risentono delle differenze biografiche degli autori: il comunista irriducibile Hobsbawm (1917 – 2012) e l’apostata Furet (1927 – 1997), il cosmopolitico austro-britannico e il francese dalle salde radici nella propria tradizione; il marxista che non dimentica mai il peso della struttura economica e delle composizioni sociali in movimento, a fronte del critico disincantato che esplora le sovrastrutture delle concettualizzazioni e dei modelli di rappresentazione nei loro effetti illusionistici. In ogni caso, entrambi attenti alle strategie del potere e dei suoi adepti nelle loro svariate vesti; si tratti del «vasto gesuitismo burocratico» del Comintern moscovita (Furet[3]) non meno dei «teologi mondani di un libero mercato senza restrizioni» (Hobsbawm[4]).
Sicché – alla fine – il rigore dell’intellettuale prevale in entrambi sullo spirito di parte; in chi pure ha attraversato con spirito militante le temperie, materiali e spirituali, del proprio tempo terribile. Tanto da metterne in luce gli altrettanto terribili fallimenti.
Scrive il vecchio comunista non pentito: «in breve il secolo è finito in un disordine mondiale di natura poco chiara e senza che ci sia un meccanismo ovvio per porvi fine o per tenerlo sotto controllo […]. Il Secolo breve è stato un’epoca di guerre religiose, anche se le religioni più militanti e assetate di sangue sono state le ideologie laiche affermatesi nell’Ottocento, cioè il socialismo e il nazionalismo, i cui idoli erano astrazioni oppure uomini politici venerati come divinità»[5]. Ossia la smentita a consuntivo di tutti i programmi escogitati per guidare l’umanità verso un qualche futuro radioso. Tanto da far scrivere all’inveterato anti-comunista parole non troppo dissimili da quelle del collega: «l’idea di un’altra società è diventata quasi impossibile da pensare e d’altronde nel mondo d’oggi nessuno avanza la minima traccia d’un nuovo concetto sul tema. Ormai siamo condannati a vivere nel mondo in cui viviamo. È una condizione troppo austera e contraria allo spirito delle società moderne per poter durare. La democrazia con la sua sola esistenza fabbrica il bisogno d’un mondo che venga dopo la borghesia e il capitale, in cui per la sua sola esistenza possa sbocciare una vera comunità umana»[6].
Altri diranno successivamente che la realtà a cui siamo condannati è il tempo zero di un post-industriale finanziarizzato, in cui i conflitti vengono cancellati e la mediatizzazione anestetizza lo spirito critico diffondendo la convinzione che stiamo vivendo nel migliore dei mondi possibili. L’ucronia cristallizzata/simulata di un “presente esteso” che la sociologa Helga Nowotny - un quinquennio prima - aveva descritto come orizzonte piatto e immobile in cui «il progresso invecchia» e il futuro non è più lo spazio in cui si potevano proiettare i desideri[7]. Sicché, se il Comunismo finisce in nulla – annota Furet – pure «la storia ridiventa un tunnel in cui l’uomo entra nel buio, senza sapere dove lo porteranno le sue azioni, incerto sul proprio destino, privo dell’illusoria sicurezza d’una scienza di quello che fa»[8].
L’americanizzazione del mondo
Il poeta Thomas S. Eliot, lo aveva prefigurato.
«Il mondo finisce in questo modo: non con il rumore di un’esplosione, ma con un fastidioso piagnisteo».
Non c’è grandezza e neppure nobiltà secondo i Nostri ufficiali certificatori del secolo agli sgoccioli. Una stagione comunemente definita “americana”. Quanto il critico dell’occidentalizzazione stelle-e-strisce Hobsbawm aveva rimarcato - cinque anni dopo l’uscita del saggio di cui si parla - in un libro-intervista con il giornalista Antonio Polito: non solo per il dinamismo economico, ma anche per «l’egemonia culturale degli Stati Uniti, specialmente nella cultura popolare […] rafforzata dal ruolo crescente della lingua inglese e dalla diffusione dell’informatica, che è tarata sulla lingua inglese»[9]. Rincara la dose l’intellettuale filo-occidentale, docente dell’École des Hautes Études parigina: l’America è un’ideologia. Come ne è conferma il fatto che «la Rivoluzione americana, anziché instaurare una società universale di individui liberi ed eguali contro un’eredità feudale e monarchica, cerca di restaurare i diritti imprescrittibili dei coloni inglesi»[10]. La trasformazione in nazione di una “plutocrazia coloniale”. E con questo si giunge al cuore di tenebra del lascito tardo novecentesco. Il cinismo totale e sistemico.
Quanto matura nella contrapposizione portata all’estremo tra due sistemi politici e sociali, unici agonisti campali di un conflitto combattuto prima di tutto con le armi ideologiche, che fu denominato “Guerra Fredda”: l’URSS staliniana e l’America avviata a diventare “maccartista”; dal nome del senatore americano Joseph McCarthy che ne diventerà il grande inquisitore.
Vicenda che negli States raggiungerà l’acme tra il 1950 e il 1954, sotto forma di crociata del Bene, producendo un imbarbarimento paranoico che marcherà in maniera indelebile il discorso pubblico della superpotenza occidentale. A fronte di un ulteriore, speculare, aggravamento della sindrome complottista a Oriente. «Il maccartismo dunque rinnova la violenza antiliberale che ha caratterizzato molti movimenti populistici nella storia americana. Il ‘popolo’, portatore dei valori della nazione, ossessionato dal tradimento delle élite, si precipita verso i demagoghi. Ritrova la tradizione xenofoba del ‘nativismo’, che in America ha l’ossessione di braccare tutto ciò che non è ‘americano’, tutto ciò che somiglia al cosmopolitismo e di cui gli intellettuali sono portatori quasi naturali: la realtà sociale del comunismo e del ‘progressismo’ negli Stati Uniti offre un bersaglio privilegiato alla passione antintellettualistica che fa parte del carattere politico nazionale. L’aspetto paradossale della ‘paura dei rossi’ sta nel fatto che, trasformando un avversario esterno in nemico interno, mobilita la tradizione isolazionistica dell’opinione pubblica americana a servizio di una politica estera interventista»[11].
Alla luce della recente elezione a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump, chi può definire “datata” questa analisi di oltre vent’anni fa? Come pure la chiosa di Hobsbawm: «l’isteria collettiva anticomunista rendeva più facile reperire le grandi somme richieste dalla politica americana, ricavandole da una cittadinanza notoriamente restia a pagare le tasse»[12]. Da qui la scoperta burocratica dei vantaggi di un conflitto senza eserciti in campo, intuita per primo dal grande corruttore J. Edgar Hoover, irremovibile capo dell’FBI; comunque indispensabili per alimentare ed espandere ciò che venne chiamato il “complesso militare-industriale”. Ma anche il più mastodontico e intrusivo apparato di controllo che mente umana avesse mai concepito; dal Panopticom di Geremia Bentham.
Infezioni della vita civile che si sono trascinate anche nel secolo seguente, con cui continuiamo a fare i conti.
Sorvegliare e punire
All’avvio dell’ultimo quarto del Novecento, un maestro nell’arte di auscultare le viscere del dominio - Michel Foucault – aveva teorizzato il “potere disciplinare”; la grande macchina al servizio dell’economia del potere, messa a punto agli albori del Moderno, in cui «la disciplina fabbrica individui; essa è la tecnologia specifica di un potere che si conferisce gli individui sia come oggetti sia come strumenti del proprio esercizio»[13]. Di certo l’incollocabile filosofo di Poitiers non avrebbe prefigurato un’espansione virale di tale livello, quale quella raggiunta dall’odierno apparato di controllo informatizzato. In cui vecchie paranoie innescano quell’attacco globale alla privacy con cui, per tutelare i loro inconfessabili interessi, governi e corporation minacciano la libertà in nome della sicurezza. Con le parole di Manuel Castells, «non è il Grande Fratello, ma una moltitudine di piccole sorelle, agenzie di sorveglianza ed elaborazione delle informazioni che registrano per sempre il nostro comportamento e formano un database che accompagna la nostra vita, a partire dal nostro DNA e dalle caratteristiche personali (la nostra retina, le nostre impronte digitali come contrassegni digitali)»[14].
Quanto descritto nel film tedesco, premio Oscar 2006, “Le vite degli altri” sulla pervasiva attività di sorveglianza della Stasi, la polizia segreta della DDR, ha ormai trovato un formidabile alleato in Internet. Come spiega il cyber-esperto bielorusso Evgeny Morozov: «il passaggio al digitale ha risolto molti problemi legati alla sorveglianza in età analogica. La sorveglianza digitale è più pratica ed economica: lo spazio di memoria è infinito, l’attrezzatura costa pochissimo e la tecnologia permette di fare molto di più con molto meno»[15]. Visto che ora non c’è più bisogno di leggere ogni parola di un’e-mail ma basta indirizzare la ricerca su alcuni termini-chiave e concentrarsi solo su alcuni segmenti di conversazione.
Portando all’ennesima potenza ciò di cui già Albert Speer, ministro del Terzo Reich, era consapevole testimoniando al processo di Norimberga: «i primi dittatori, per la loro leadership, avevano bisogno di assistenti altamente qualificati; gente che fosse in grado di pensare e agire in modo indipendente. Nell’era dello sviluppo tecnico moderno, il sistema totalitario può farne a meno: solo i mezzi di comunicazione rendono possibile la meccanizzazione della leadership subalterna».
Un’entità mostruosa e capace di inquinare ciò che appena lambisce. Ma - va detto - primario lascito del Secolo breve al Terzo Millennio; sia per quanto riguarda l’orientamento allo scopo delle tecnologie dell’informazione, sia per il radicamento nella mente dei dominanti di concettualizzazioni funzionali al loro uso distorto.
Da qui l’amara (e scoraggiante) conclusione stilata all’inizio del nuovo secolo da Luciano Canfora: «ha vinto la libertà – nel mondo ricco – con tutte le terribili conseguenze che ciò comporta e comporterà per gli altri. La democrazia è rinviata ad altre epoche e sarà pensata, daccapo, da altri uomini. Forse non più europei»[16].
Sicché, nella speranza di non dover subire tale triste prospettiva, ancora dopo vent’anni le opere di due storici ormai defunti possono risultare utili per meglio comprendere quali siano le scelte per chi crede ancora possibile l’avvento di tempi più umani e illuminati.
NOTE
[1] L. Valiani in Il secolo breve, cit. pag. 14
[2] C. A. Kupchan, Nessuno controlla il mondo, il Saggiatore, Milano 2013 pag. 16
[3] F. Furet, Il passato, cit. pag. 247
[4] E. Hobsbawm, Il secolo, cit. pag. 22
[5] E. Hobsbawm, Il secolo, cit. pag, 650
[6] F. Furet, Il passato, cit. pag. 560
[7] H. Nowotny, Tempo presente, il Mulino, Bologna 1993 pag. 51
[8] F. Furet, il passato, cit. pag. 559
[9] E. Hobsbawm, Intervista sul nuovo secolo, Laterza, Roma/Bari 1999 pag. 45
[10] F. Furet, Gli occhi della storia, Mondadori, Milano 2001 pag. 79
[11] F. Furet, Il passato, cit. 479
[12] E. Hobsbawm, Il secolo, cit. pag. 278
[13] M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976 pag. 186
[14] M. Castells, Galassia Internet, Feltrinelli, Milano 2002 pag. 172
[15] E. Morozov, L’ingenuità della rete, Codice, Torino 2011 pag. 140
Fonte: MicroMega online
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