di Alessandro Visalli
Su Micromega n.2/2017, l’intervista a Jurgen Habermas, ha questo titolo: “La risposta democratica al populismo di destra”, ma non nomina mai il termine “populismo”, che probabilmente è stato scelto dalla rivista. Il titolo più appropriato, che abbiamo dunque usato, sarebbe “La risposta della sinistra al nazionalismo delle destra”. Come vedremo la cosa fa qualche differenza. L’avvio è connesso al ricordo della profezia di Ralf Dahrendorf che nel 1995, in “Quadrare il cerchio”, come in altri interventi che pure abbiamo letto (ad esempio nel precedente “1989. Riflessioni sulla rivoluzione in Europa”, ma soprattutto nel successivo “Dopo la democrazia”) definiva la globalizzazione come un fenomeno capace di mettere a rischio la società civile e la libertà. Il segno dell’autoritarismo, a suo parere si allungava quindi dal “pericoloso concatenamento” che obbliga a sacrificare la coesione sociale in favore del rispetto di quelli che Habermas chiama “imperativi funzionali” dell’economia.
Nella sua visione di allora c’era una sorta di triangolo impossibile (da “quadrare” anche se è un cerchio) tra la creazione di ricchezza, la coesione sociale e la libertà politica. Se si compete, creando la ricchezza (per pochi, come lo stesso politologo vede), la coesione sociale si può mantenere solo se si sacrifica la libertà (cioè si garantisce in modo autoritario, pensa alla Cina).
Se si conserva la libertà invece si perde la coesione. Il motore di tutto è la globalizzazione. La visione di allora è piuttosto semplice: “certe persone (per terribile che sia anche solo metterlo per iscritto) semplicemente non servono; l’economia può crescere anche senza il loro contributo; da qualunque lato le si consideri, per il resto della società esse non sono un beneficio ma un costo”. Si tratta di quel 40% che è ai margini della Information Technology e del suo modello di produzione (come diciamo, della sua “Piattaforma Tecnologica”). La somiglianza tra la fine dell’ottocento e questa fase appare in questa descrizione, ma senza la forza organizzata dei movimenti sociali che allora, organizzati per lo più ma non solo dal marxismo, opposero resistenza e individuarono un’altra via. Oggi l’individualismo ha vinto.
La cosa assomiglia al più famoso “trilemma della globalizzazione” proposto dall’economista turco Dani Rodrik nel suo best seller “La globalizzazione intelligente”, del 2011.
Dentro questo quadro, evocato dalla domanda, Habermas propone di mettere al centro dell’attenzione il conflitto tendenziale tra gli imperativi funzionali dell’economia e la logica della democrazia. Appunto il trilemma di Dahrendorf e di Rodrik.
La “quadratura” che ha fatto sembrare che democrazia e capitalismo (preferisco questo termine più specifico al più generico “economia”), potessero andare insieme, cioè che la frizione tra crescita e partecipazione della popolazione a questa, secondo schemi distributivi che si fanno preferire perché giudicati equi, fosse risolta, è stata propria della “fase socialdemocratica”. Ovvero del trentennio tra il 1945 ed il 1975 nel quale una diversa "Piattaforma tecnologica", e diverse forze in campo, determinano differenziati punti di equilibrio e favorito una "forma di vita" socialmente più stabile ed economicamente più equa.
Ma questa è stata da tempo revocata scavando quindi per ragioni strutturali, inerenti la stessa interconnessione dominata dagli spiriti animali della finanza e del capitalismo industriale nel paradigma della IT (automazione, organizzazione a rete, decentramento), sotto le stesse basi del suo consenso, ovvero della democrazia; ne segue per Habermas che il “sogno americano” non si poteva estendere al’intero pianeta. Quello che era il programma trionfalista delle élite occidentali era solo “un’illusione”.
Questa analisi, condotta nei primi dieci righi, potrebbe dare completamente ragione al pessimismo dell’ultimo Dahrendorf, che credeva la democrazia, semplicemente alla fine, perché “non applicabile fuori dello Stato Nazione” (DD, p.9). Fuori, cioè, di un ente che nel 2001 gli appare “in crisi terminale”. Di conseguenza, per l’ex Commissario Europeo e grande intellettuale bimondo (con ottima conoscenza sia della Germania sia della Gran Bretagna), chi chiede (come Habermas) sempre nuovi “mandati elettorali” al livello sopranazionale “abbaia alla luna”. È dal 1957 che si sentono questi versi, sempre più angoscianti.
Ma di cosa bisogna avere oggi paura? Mentre Dahrendorf, la cui saggia voce oggi eminentemente ci manca, temeva in sostanza la “classe globale”, dinamica ed irresponsabile, che controlla il mondo, per l’anziano filosofo tedesco, invece, bisogna temere del “nuovo disordine mondiale” e della “impotenza degli Stati Uniti e dell’Europa di fronte ai crescenti conflitti internazionali”. Quindi le catastrofi umanitarie e gli atti terroristici.
Habermas in questo intervento dunque decide che l’autoritarismo non è un destino, ma un effetto di cause strutturali e causalità che hanno come elemento unificante “il nazionalismo”. In questo modo, rispetto al discorso di Dahrendorf, si ha in effetti un totale rovesciamento: l’autoritarismo nella visione del sociologo anglo tedesco scaturiva dall’affermazione di imperativi sistemici di natura economica, ma fatti propri e portati avanti nel mondo da una “superclasse” trasversale di cosmopoliti (cui apparteneva) completamente indifferente alla responsabilità verso gli “stanziali”, cioè verso quella relativa maggioranza che tende a restare a margine della “Piattaforma tecnologica” del nuovo capitalismo (cioè di esserne solo cliente, eventualmente indebitato). Nella visione del filosofo tedesco, invece, scaturisce proprio dalla reazione difensiva di questi ultimi.
Si potrebbe dire che sono quindi su due parti opposte di una barricata.
Ma nel dirlo si sarebbe ingiusti verso un pensiero altamente articolato e complesso. Dunque leggiamo di più: nominando specifici casi (Erdogan, Putin, Trump) Habermas vede una sorta di mobilitazione del risentimento che attraversa, in particolare negli USA, lo sconcerto di una “superpotenza politicamente ed economicamente in declino”. Queste reazioni sono, cioè, connesse con l’oggettiva riduzione della forza (in termini di hard power economico, direbbe Nye, cfr “Fine del secolo americano?”) dell’occidente nei confronti del resto del mondo (in particolare dei BRIC).
La conclusione è nella stessa linea del pensiero del Dahrendorf del 1991: questo fenomeno è irreversibile (ma Ralf è morto nel 2009, non ha assistito a questo ultimo, sconvolgente periodo). Dunque dovremmo solo “elaborare la percezione di questo declino globale”, nel farlo dovremmo anche adattarci, d’altra parte, alla “complessità sempre più esplosiva della nostra vita quotidiana, connessa con gli sviluppi tecnologici” (H. p.6).
Dunque le reazioni nazionalistiche hanno per Habermas origine geopolitica; sono effetto della volontà di dominio che tenta di reagire ad un declino inevitabile. La sofferenza sociale degli “strati che non traggono alcun beneficio dall’aumento del benessere medio delle nostre economie” interviene solo a “rafforzare” questa dinamica, che ha origine autonoma.
La pretesa inevitabilità dell’integrazione prodotta dai mezzi dell’economia (cioè dal commercio, la libertà di movimento dei capitali, lo smembramento dei processi produttivi in lunghe catene logistiche in cerca, di volta in volta, della migliore combinazione di fattori produttivi e normativi), di cui nel suo ragionamento Habermas non interroga abbastanza il nesso strutturale con l’assenza di distribuzioni “decenti”, lo porta a definire ogni movimento in direzione dello “Stato forte”, che intervenendo lotti contro la marginalizzazione di chi è “rimasto indietro” (termini e parole tradizionali della sinistra, ma ora usati dalla destra, ad esempio da Theresa May, ma certo anche da Trump) solo come reazione nella “falsa direzione dell’isolamento nazionale”. Lo porta cioè, bisogna fare attenzione alle parole, ad inquadrare questo schema che mobilita gli insoddisfatti e gli svantaggiati come “falsa” direzione, e come “isolamento”. Dunque come qualcosa che non è “vero”.
Habermas è un filosofo, inoltre ha, sin dal tempo di “Teoria dell’agire comunicativo” elaborato una specifica e molto densa teoria dell’azione e della razionalità. Dunque qualificare questa politica come “falsa” significa qui che la pretesa di validità rispetto alla quale la dovremmo giudicare è “verità ed efficienza”, si tratta di relazionarla quindi alla logica pragmatica; si tratta di rispondere ad una domanda sul “che fare?”, e rapportarsi allo scopo ed alle conseguenze. Il capitalismo e la logica degli imperativi sistemici dell’economia, in particolare, sembra dire Habermas, non si possono giudicare altrimenti.
Se, invece, avesse voluto dirci di considerare appropriato un giudizio etico (vedremo che Rahel Jaeggi difende la possibilità di criticare il capitalismo su questo piano), riferito a “chi vogliamo essere?” e quindi a sfere comunitarie, anche nazionali, avrebbe detto che era inautentico, oppure non veridico, non appropriato ad una corretta descrizione dell’uomo per come si sta formando e determinando.
Se avesse voluto dirci di considerare appropriato un giudizio morale, rispondendo alla domanda “quali norme vogliamo darci?” avremmo avuto bisogno invece di un giudizio pratico di fondazione di queste norme (queste distinzioni sono nelle stesse opere di Habermas degli anni novanta, in particolare "Teoria della Morale", 1991).
Questa decisione, come sempre in tutti i suoi interventi, struttura in realtà tutta la direzione che poi prende il discorso. Dahrendorf, che conosceva molto bene le situazioni avendo fatto anche il politico e non solo il filosofo, giudicava impossibile ripristinare una distribuzione più equa, sottraendola alla presa della “classe globale” cosmopolita, se lo schema produttivo della mondializzazione restava in essere. Habermas, invece, che vede “falsa” ogni direzione che si allontani da questo schema (semplicemente qualificandola come “isolamento”) si chiede “perché i partiti di sinistra non vogliono porsi alla guida di una lotta decisa contro la disuguaglianza sociale, che faccia leva su forme di coordinamento internazionale capaci di addomesticare i mercati non regolati”.
È difficile farlo se le mani e la mente sono legate.
Se, cioè, si contribuisce a legarle dichiarando “falsa” quella che è semplicemente una scelta da giudicare sia sul versante dell’efficienza (che è altamente questionabile, come si comincia a dire), sia su quello dell’appropriatezza all’integrità del modo di vivere che vogliamo darci insieme, sia su quello della fondabilità di norme universali. Una scelta, detto in altri termini, che per l’ampiezza delle dimensioni coinvolte e la vasta serie di implicazioni (sfuggendo alla logica TINA in cui sembra di vedere prigioniero il pensiero), dovrebbe mobilitare giudizi tecnici (ad esempio circa la sostenibilità delle lunghe catene logistiche e la loro adeguatezza al mutare, che sembra in corso, delle “Piattaforme Tecnologiche” del capitalismo), ma anche giudizi pratici, rivolti all’azione ed adatti alla tessitura morale della situazione e anche rivolti all’integrità di una identità, giudicata secondo la sua “legge individuale”. Cioè, come mostra spesso Taylor, quella “legge” che può essere individuata solo dalla descrizione della situazione (in termini narrativi) formulata in modo tale da poter essere giudicata pertinente anche per altri in condizione di comunicabilità. Un giudizio (per il quale Kant formula il modello “riflettente”) che presuppone riconoscimento.
Dato che però per Habermas la “nazione” è semplicemente una direzione “falsa”, è chiaro che c’è solo un’alternativa (cioè non ce ne sono): tra il capitalismo selvaggio finanziario e il recupero di sovranità nello Stato Nazionale, a cui non crede, c’è solo la “cooperazione sovranazionale capace di dare una forma politica socialmente accettabile alla globalizzazione economica”. Resta solo questa via “accidentata”, alla quale “una volta l’Unione Europea mirava”. Abbiamo appena riletto la discussione sul Trattato di Roma, ben sessanta anni fa, e sinceramente questa descrizione è troppo debole. L’Unione Europea sin dall’inizio mirava a qualcosa di diverso da una cooperazione sovranazionale legittimata democraticamente. Più a qualcosa come una ‘direzione sovranazionale di Stati legittimati democraticamente’, precisamente allo scopo di ottenere risultati scelti da élite schermate.
La cosa è rafforzata di seguito, quando al termine di un capoverso nel quale è correttamente sviluppata una critica all’acquiescenza della “terza via” clintoniana (e blairiana o schoderiana) che si accontentava di sviluppare una “politica conforme al sistema economico”, e quindi a tollerare i crescenti squilibri e marginalizzazione di parti sempre maggiori della popolazione, Habermas qualifica l’orientamento verso destra di questi umiliati ed offesi concittadini come “irrazionalità” e “mera rappresentazione del disagio”: irrazionalità e reattività provocata anche dalla rinuncia della sinistra a creare una prospettiva “rappresentata in modo credibile e deciso”.
Francamente quel genere di prospettiva (il rafforzamento costante del cosmopolitismo e dell’apertura consona alle élite) è invece costantemente presentata in modo molto “deciso” da tutte le sinistre continentali. Quel che manca è l’altro elemento: la “credibilità”. Ma bisognerebbe chiedersi con maggiore profondità perché.
Il problema è che non è affatto “irrazionale”, dirigersi verso la protezione. Si tratta qui di vedere con che genere di razionalità si giudica appropriato avere a che fare.
- Non è efficiente l’integrazione guidata dalla finanza ed a servizio della capacità del capitale di aumentare costantemente il saggio di sfruttamento, mettendo in competizione in modo subalterno le soggettività locali (non è dunque “vero” che questa direzione sia l’unica possibile perché progressiva dello sviluppo delle capacità dell’umanità).
- Ma non è neppure appropriato rispetto alla veridicità dei possibili racconti condivisi rispetto a chi vogliamo essere; almeno se il “noi” è abbastanza largo e condiviso, e soprattutto se è abbastanza libera dal dominio.
- Infine non è adeguato ad una descrizione “decente”, messa a confronto con le norme degne di essere tenute come universali. In altre parole, un mondo nel quale l’integrazione è guidata dalle forze che si vedono all’opera non è fondabile come norma adatta a tutti.
Chiedere protezione non è dunque una “mera espressione del disagio”, ma un comportamento razionale e riflessivo circa la migliore sequenza causale che abbiamo davanti a noi, la più appropriata descrizione di noi stessi (e proprio di quel “noi” inclusivo che dovremmo avere in gran rispetto), la più adeguata scelta di norme universalizzabili.
Se è vero che si risponde al populismo di destra, che tende a definire il suo “noi” in opposizione all’altro (individuando delle risposte semplici a problemi che, invece, sono di grande complessità), solo se si “riottiene potere di azione politica nei confronti delle forze distruttive di una globalizzazione capitalistica scatenata”, però l’onere di individuare una “agenda” credibile lasciando fermo che “i processi economici e tecnologici” sono intrinsecamente mondiali è il punto cieco delle élite globaliste che Habermas, con queste posizioni, incarna.
Dico questo con una certa sofferenza, dato il mio impegno per i grandi meriti del discorso condotto negli ultimi quaranta anni dal teorico della democrazia radicale, di fronte a posizioni che complessivamente erano ancora più schiacciate sul dominio dell’economia capitalista neoliberale.
Ma “un’agenda politica orientata alla guida politica dei processi economici e tecnologici della società mondiale” è un oggetto che galleggia a mezz’aria. Manca infatti del tutto qualcosa come una “società mondiale”, a meno di considerare tale esattamente quelle “classi globali” che l’ultimo Dahrendorf (ma anche l’ultimo Rorty) individuavano con obiettiva precisione. Manca qui del tutto la solidarietà che fonda la società, e manca la capacità di cooperare sulla base di una dinamica integrata di negoziati e discorsi razionali per i quali non sono sedimentati a sufficienza i presupposti. A fronte di questa assenza (certo non necessariamente eterna, ma certo molto radicale) c’è la presenza sovrabbondante della forza di disgregazione e della violenza indecente del capitale mondializzato.
In questi termini la distanza tra questa “agenda” e quella neoliberale è di difficile individuazione. Rischia, malgrado la critica, di essere di fatto solo una riproposizione della mossa clintoniana (che, ricordo, si definiva anche essa in opposizione all'agenda neoliberale, ma, accettando che l’economico è per sua natura globale e non giudicabile con le armi dell’etica e della morale, ha finito ad essere indistinguibile e quindi non credibile).
La scelta per Habermas è quindi secca: tra un “cosmopolitismo di sinistra – liberale in senso culturale e politico” e il “tanfo etnonazionalistico della critica della destra alla globalizzazione”.
Detto così è molto chiaro. Come sottolinea Michéa (che in questo mi pare aver sostanzialmente ragione), la “sinistra” e la prospettiva “socialista” sono storicamente distinte: la “sinistra” è cosmopolita, universalista e liberale; il socialismo è comunitario, universalista e cooperativo.
A allora ci sarebbero quattro alternative:
- Il cosmopolitismo di destra, universalista e libertario;
- Il cosmopolitismo di sinistra, universalista e liberale;
- L’internazionalismo socialista, comunitario, universalista e cooperativo;
- Il nazionalismo di destra, etnocentrico e identitario.
Dobbiamo quindi provare a caratterizzare meglio questo schema. Il testo continua da questo punto parlando della politica interna tedesca. In particolare con riferimento alla delicata questione dell’immigrazione, che rischia di far esplodere dall’interno il partito di Angela Merkel. Ed infine spende poche parole per censurare una politica esclusivamente riferita all’interesse nazionale (mal inteso) nei confronti del resto d’Europa alla quale è imposto una lesionista politica di austerità.
Proviamo dunque a introdurre qualche distinzione utile a concludere dove vedo la differenza:
- Il ‘cosmopolitismo’, come dice la parola stessa, indica un movimento ideale e filosofico antico, antistatalista, presente già in alcuni filosofi cinici (Diogene di Sinope), ma sistemato in epoca illuminista da Voltaire e soprattutto da Kant. In “Per la pace perpetua” (PPP), propone infatti una Lega dei popoli che dia origine a un ordinamento giuridico globale (Weltbürgerrecht). L’ambiguità del termine affonda nell’esistenza di due versioni: la versione individualista (per cui si può essere cosmopoliti e libertari, rifiutando qualsiasi appartenenza e rivendicando un’autonomia radicale) e nella versione solidaristica (per cui si può essere cosmopoliti e orientati ad una sorta di naturalismo universalista, valorizzando ciò che di comune e riferito all’eguale natura abbiamo tutti). La versione di Kant, ripresa sia da Habermas come da Derrida, è particolarmente interessante in quanto connesso con quel principale asse portante del discorso politico occidentale (Tucidide-Adams-Hobbes-Freud) e quella antropologia pessimista che vede l’uomo nello stato di natura come essenzialmente “lupo con gli altri uomini”. Lo abbiamo visto con Sahlins, ma anche con Hirschman. Come dice all’avvio della parte seconda Kant “lo stato di pace tra gli uomini, che vivono gli uni a fianco degli altri, non è uno stato naturale, il quale è piuttosto uno stato di guerra”, la pace deve quindi essere “istituita”. Ne segue che per non restare nello “stato di natura” (ovvero nella “sfrenata libertà” dei selvaggi “che consiste nell’essere continuamente in lotta tra loro invece che sottoporsi ad una costrizione legale stabilita da loro stessi”, preferendo dunque “una libertà folle ad una libertà ragionevole”) occorrerà che gli Stati lascino la loro “maestà”, riposta “proprio nel fatto di non essere soggetto a nessuna costrizione legale”, uscendo quindi dallo stato di natura, per una federazione di pace (foedus pacificum) “che si differenzierebbe dal Trattato di pace (pactum pacis) per il fatto che questo cerca di porre fine semplicemente a una guerra, quella invece a tutte le guerre per sempre” (K, PPP, Feltrinelli p.62). una simile federazione, bisogna notare, “non si propone la costruzione di una potenza politica, ma semplicemente la conservazione e garanzia della libertà di uno stato preso a sé e contemporaneamente di tutti gli stati federati senza che questi si sottomettano a leggi pubbliche e alla costrizione da esse esercitata”. Questa federazione, per non essere costruzione di potenza, deve diventare ovviamente mondiale. In un passaggio finale cruciale, strettamente connesso con il sorgere del liberalesimo (abbiamo visto ad esempio in “Il mercato e il dono”), Kant individua in un’intelligenza della natura la molla che spinge l’uomo, anche se fosse un diavolo, alla cooperazione e quindi alla pace perpetua del cosmopolitismo federale: lo spirito del commercio “che non può convivere con la guerra, e che prima o poi si impadronisce di ogni popolo” (PPP, p.78). Quindi “la potenza del denaro” fa sì che gli Stati lavorino per la “nobile pace”. “E’ questo il modo particolare in cui la natura garantisce la pace perpetua, con il meccanismo delle stesse umane inclinazioni; certo con una sicurezza che è insufficiente per predire (teoricamente) il futuro, eppure sul piano della pratica basta e impone il dovere di lavorare per questo scopo (non semplicemente chimerico)”. La posizione di Habermas sembra una mera glossa.
- L’ “Internazionalismo”, proposto dai socialisti nel XIX secolo, in alcuni casi è proprio in polemica con l’ideale borghese del cosmopolitismo (spesso riletto come falsa coscienza del colonialismo), del capitale, ovvero della logica stessa del denaro, che come giustamente vede Kant, è naturaliter cosmopolita. Già nel “Manifesto del Partito Comunista”, opera del 1848 scritta per conto della Lega dei Comunisti per disporre di un’arma in vista dell’imminente rivoluzione europea (e per distinguersi dalla folla di posizioni, tra le quali spiccava la “Giovine Italia” e la “Giovine Europa” di Mazzini, i vari “socialismi” ed i residui giacobini ancora forti), Marx ed Engels riconoscono che la borghesia ha avuto una funzione rivoluzionaria, nel rompere le condizioni di vita “feudali, patriarcali, idilliache”, lacerando “senza pietà” i “variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali”, insomma, come dicono splendidamente “ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, della sentimentalità piccolo-borghese”. Essa vive rivoluzionando costantemente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, “quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali”. È questo gelido calcolo che spinge la borghesia per tutto il globo, “dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi dappertutto stringere relazioni”. Ne segue che “sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi”. Dunque è il proletariato, che non avendo nulla pure nulla ha da perdere, che provocherà quindi la rivoluzione unendosi e con essa la dissoluzione di tutti gli Stati nell’utopia di una libera cooperazione priva di coercizione. Più o meno il contrario di ciò che è avvenuto. Certo, anche nel pensiero di Marx, notoriamente poco focalizzato sulla questione dello Stato e della nazione (lui che nacque al confine tra Germania e Francia, e fece sempre vita da esule) nella pratica la cosa non si risolve scolasticamente nell’immaginare un’indifferenziata rivoluzione mondiale sincronizzata e per questo disprezzare le lotte nazionali. In una lettera a Engels del 20 giugno 1866, ad esempio, si fa beffa del “cinismo da cretino” di Proudhon che condannava gli sforzi polacchi di liberarsi del giogo coloniale russo perché, a suo dire, “ogni nazionalità e le nazioni in quanto tali sono pregiudizi superati”. Come si vede è un’idea vecchia che spesso ne nasconde un’altra, quella di fare fuori una soggettività scomoda delegittimandone in radice l’esistenza. Talvolta per abolizione della nazionalità si intende ad esempio solo assorbimento nella propria (ad es. francese). Il punto è che bisogna sempre vedere cosa sta succedendo. In una tarda lettera a Kautsky (7 febbraio 1882) lo stesso Engels dichiara che “un movimento internazionale del proletariato è possibile solo tra nazioni indipendenti”. Proprio perché, lungi dall’essere uniti dalla forza del denaro, o dei commerci e dalle influenze del capitale, “una cooperazione internazionale è possibile solo tra eguali”. Insomma, una cosa è l’internazionalismo, altra il colonialismo ed imperialismo mascherato da cosmopolitismo. E due anni prima di morire, nel 1893, ancora più nettamente, “senza l’autonomia e l’unità restituite a ciascuna nazione europea” non è possibile “l’unione internazionale del proletariato”. Lo strano concetto che esprime in tale occasione è che Irlanda e Polonia “sono internazionali nel senso migliore del termine allorché sono autenticamente nazionali”. Qui viene fatta giocare l’attenzione ad un rovesciamento piuttosto comune: un cosmopolitismo espansivo che non riconosce dignità ed autonomia agli oggetti cui si applica, in vista di una missione universale auto attribuita. Allora anche il subalterno (come i bianchi poveri del sud in America verso i neri schiavizzati, secondo l’esempio di Marx) nel paese “guida” troverà soddisfazione in questa capacità di controllare, da parte della nazione “universale”, quella subalterna o dominata. Il cosmopolitismo come falsa coscienza del colonialismo può estendersi dunque anche alle classi subalterne (il cui “internazionalismo” in questo caso diventa anche esso falsa coscienza) per il trasferimento del senso di superiorità e, insieme, la difesa delle briciole che cadono dal tavolo del banchetto coloniale.
Per concludere questa difficile lettura bisogna distinguere e comprendere nel movimento ad allargare e superare barriere e steccati quale è la natura di queste (da cosa proteggono) e quale è la natura dell’agente che unifica.
Nell'impostazione universalista e insieme libertaria dell’individualismo liberale l’agente è un vincolo auto assunto razionalmente per rispondere alla pressione civilizzatrice ed insieme distruttiva del capitale. Cioè della logica connettiva, che prescinde da ogni individuale differenza, dello scambio commerciale. L’uomo, naturalmente ferino, è sottomesso grazie al suo egoismo che “dietro le spalle” lo determina, obbligandolo al cosmopolitismo per via della dinamica propria dell’economia che cerca sempre nuovi sbocchi. Nessuna patria, nessuna socialità e cultura, può e deve ostacolare lo spirito del capitalismo che è di suo “senza patria”. Qui gioca anche una idea meccanica, additiva, cumulativa di progresso, sostanzialmente schiacciata sul modello dell’avanzare dei dispositivi tecnologici e la loro prometeica capacità di fare del mondo una mera collezione di beni a disposizione (abbiamo toccato questi temi anche nella lettura di “Il vicolo cieco dell’economia”).
Nell’impostazione socialista l’agente liberante non è invece la logica del denaro, come si ritrova in fondo anche in Habermas (varrà la pena un giorno di inseguire questa idea dentro le sue opere degli anni novanta), ma la liberazione dell’uomo dai limiti imposti ad esso dalle costrizioni ascrittive (famiglia, gerarchie, religione, stato). Uomo che impara, nell’applicazione alla trasformazione del mondo, condotta in comune, e quindi nel lavoro (reso sociale proprio dalla “Piattaforma Tecnologica” ottocentesca, per usare una terminologia contemporanea), ad essere autonomo e libero insieme. Il comunitarismo socialista non vede individui atomistici, come il liberalesimo, ma esseri completi, mente, corpo e passioni, che vivono insieme in quanto naturalmente “umani”. L’uomo per il socialismo non è una cosa, e non è neppure una macchina valorizzante, non è solo oggetto di calcoli di altri. Bisognerà cercare ancora gli strumenti per pensare questa differenza.
Nello stesso modo, mi sembra, l’internazionalismo è un movimento in cui l’agente liberante è nelle comunità, in ciò che effettivamente siamo, in ciò che condividiamo fattualmente, con tutto il portato di storia, memoria di lotte e sconfitte, come di vittorie, con il sedimento della lingua (della quale ci avvisava l’ultimo Pasolini), ma anche delle tradizioni giuridiche, dei presidi, delle forme economiche proprie, del modo di produrre. Un movimento, che al contrario del cosmopolitismo non salta i passaggi, non usa la logica uniformante dello scientismo, ma si muove tra comunità mettendole in contatto partendo da unità e autonomia (come diceva il vecchio Engels).
Ora possiamo provare, provvisoriamente ed insufficientemente, a concludere. Bisogna scegliere tra:
- Il cosmopolitismo di destra, universalista e libertario;
- Il cosmopolitismo di sinistra, universalista e liberale;
- L’internazionalismo socialista, comunitario, universalista e cooperativo;
- Il nazionalismo di destra, etnocentrico e identitario.
Articolo pubblicato su Tempo Fertile
Fonte: sinistrainrete.info
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.