di Franco Berardi Bifo
Per tanto tempo abbiamo ripetuto che non c’era un film che rendesse conto della storia del decennio italiano ’68/’77. Non è più così, a mio parere. Badate, io non sono fidato quando dò dei consigli in fatto di cinema, perché appena mi siedo al buio le mie capacità critiche si riducono a quasi zero, e tendo a godere di qualsiasi cosa (d’altronde la mia soglia del piacere è molto bassa e non sono sicuro che sia una brutta cosa). Ma stavolta ho l’impressione di non sbagliare, mi corregga eventualmente chi ne capisce più di me. Ho rivisto il film di Francesco Munzi Assalto al cielo (l’avevo visto a Venezia nel settembre scorso e non ne avevo parlato in giro perché volevo prima rivederlo). Dopo averlo rivisto posso dirlo: si tratta di un’opera di altissimo livello che racconta in maniera per il momento insuperata la storia del lungo sessantotto italiano. Si può chiamarlo documentario, ma è una cosa molto più complessa: è un’opera di poesia.
Il ritmo è quello della vita di milioni di donne e di uomini (e soprattutto di fanciulli) che attraversarono il periodo che sta tra l’occupazione di Palazzo di Campana (novembre 1967) e il convegno di settembre ’77. Il film è costruito partendo da materiali d’archivio (della Rai, dell’Archivio del movimento operaio, della Cineteca di Bologna…), ma non per questo lo chiamerei documentario perché Munzi fa un’operazione che non mira a documentare, ma a cogliere il ritmo, la respirazione che emerge da frammenti di vita registrati.
Credo che il cinema sia destinato a spostarsi in questa direzione, facendosi sempre più ricombinazione di frammenti veicolati da supporti elettronici di ogni genere che proliferano nella mediasfera contemporanea.
Una considerazione a parte merita il colore, quel bianco e nero grigiastro che predomina nella nostra memoria così come predomina in questo film. Come mai ricordiamo gli anni ’60 a colori e gli anni ’70 per lo più in bianco e nero? Come si forma la memoria collettiva? La Kodak negli anni ’60 e il video tape nei ’70?
Assalto al cielo è centrato su quattro fasi: quella romana che culmina nella battaglia di Valle Giulia, quella torinese che va da Corso Traiano all’occupazione di Mirafiori nel ’73, quella milanese alla metà del decennio (la morte di Varalli e di Zibecchi, l’esplosione dei giovani proletari e infine l’enorme bolgia di Parco Lambro), e quella bolognese tra il ’76 e il ’77.
Non ci sono commenti di alcun genere, voce off, sottotitoli, niente di niente. Non ce n’è bisogno: le facce che compaiono parlano a sufficienza. Il film racconta la presa di coscienza da parte dei giovani operai meridionali giunti a Torino, lo sgomento di fronte alla bestialità dei fascisti e dello stato, e le parole che ascoltiamo sono solo quelle dei protagonisti di quelle storie.
Ascoltiamo e vediamo la madre e il padre del giovane compagno Walther Alasia, ucciso perché stava sfuggendo all’arresto. La madre soprattutto è bellissima. Non giudica l’azione di Walther, non esprime né accordo né disaccordo con la scelta di prender parte con la lotta armata. Dice soltanto: “mio figlio era un compagno.” La solidarietà di classe e l’amore materno qui non si distinguono.
Assalto al cielo si conclude con un lungo, delirante discorso di un ragazzo (credo di conoscerlo ma non ha importanza, adesso non è più un ragazzo ma ancora si assomiglia). Un discorso che parla del cosmo, della ribellione come superamento dei limiti che ci costringono entro la paranoica storia dell’umanità. Quel finale è un comizio d’amore che Munzi propone come chiave migliore per interpretare quel decennio di gioia e di scoperta, seppure anche di paura e di errore.
A questo link si può vedere il trailer del film
Fonte: effimera.org
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