di Andrea Fabozzi
Il partito e il governo, un intreccio ormai inestricabile nella direzione del Pd. La minoranza attacca sulle grandi scelte di politica nazionale – politica energetica ora che è esplosa l’inchiesta di Potenza sul petrolio – ma con le logiche e nell’interesse dei piccoli scontri interni. Tant’è che Matteo Renzi può agevolmente inchiodare i bersaniani, ricordando loro che in parlamento hanno votato sì all’emendamento che sblocca le infrastrutture contestate (quello che stava tanto a cuore all’ex ministra Guidi e dal suo compagno), e sì anche alle norme che adesso il referendum vorrebbe abrogare. Il presidente del Consiglio rivendica tutto: «Se è un reato l’ho commesso io, ho sbloccato non solo Tempa Rossa ma altre 25 opere». Nella direzione Pd si fa buio e compaiono le slide: foto di cantieri con la scritta «On/off». Da palazzo Chigi arriva anche il sottosegretario De Vincenti: «Non faccio parte della direzione, ma quel provvedimento è roba mia». Così offre una mano a Renzi nel colpire la minoranza. Il partito-stato approva la relazione del segretario.
La approva con 98 voti favorevoli e 13 contrari, perché stavolta la minoranza (non tutta, ma Bersani, Epifani e Speranza sì) si ferma a votare e non lascia prima del tempo la riunione. Gianni Cuperlo, colpito a freddo sabato da Renzi – «è finito il tempo delle correnti, questi sono spifferucci che stanno insieme per convenienza» – proprio mentre da Firenze ribadiva la sua fiducia al governo, si rivolge al premier calcando i toni dell’indignazione: «Hai piegato questa comunità politica alla disciplina di potere», «non ti stai mostrando all’altezza», «non hai la statura del leader ma l’arroganza dei capi». Poi si ferma a un passo, il solito, dall’addio: «Sento il peso di stare in un partito che sembra aver perso le proprie ragioni. E lo so, tu potrai rispondermi con un “ciao”». Renzi non risponde ciao, ma quasi: «Io penso a costruire una sinistra moderna e riformista, la gente è stanca di queste discussioni interne». Lo spalleggia un ministro, Gentiloni, che si unisce alla direzione per meglio infilzare gli ex Ds: «Avete la sindrome del segretario-intruso».
La «costruzione della sinistra moderna» passa attraverso i cantieri, come Tempa Rossa che «aspettava dal 1989» e che bisognava «sbloccare», e per le trivelle, anche quelle più vicine alle coste, che bisogna mantenere operative anche una volta scaduta la concessione. Renzi conferma che il Pd si schiera per l’astensione al referendum (del resto sta già facendo propaganda in tv): «Una scelta pienamente costituzionale» Ma tanti dirigenti ed elettori sono per il sì, e lui non infierirà: chi vuol votare sì lo faccia.
Sul referendum lo scontro è con Emiliano, il presidente della Puglia. Che spiega di non essere stato consultato. Il sottosegretario De Vincenti interviene per smentirlo. E per affiancare il suo petto a quello del presidente del Consiglio: «Non c’è stata nessuna notte degli imbrogli in commissione, ma un faticoso processo legislativo. Io non faccio passi indietro». Renzi se ne compiace, cita anche Padoan, un altro di provenienza dalemiana: «Vedete, il giglio magico non esiste». Poi torna alla carica dei magistrati di Potenza: «Sul petrolio hanno aperto un’inchiesta ogni quattro anni, come le Olimpiadi. E mai nessuna è arrivata a sentenza». Mentre parla, la ministra a lui più vicina, Maria Elena Boschi, è ascoltata nel suo ufficio di largo Chigi a Roma da tre pm potentini. Arriva negli stessi minuti una sentenza dal tribunale del capoluogo lucano, condanna alcuni ex dirigenti della Total proprio per i lavori di costruzione del centro oli di Tempa Rossa. Una vicenda, però, di otto anni fa. Renzi nella replica tenta il contropiede: «Tra quattro mesi quei reati andranno in prescrizione. E non basta una condanna in primo grado».
È il Renzi in versione garantista, quello che chiede ai magistrati di «parlare con le sentenze e non con le anticipazioni delle inchieste» ma non spiega – né la minoranza glielo chiede – se conosceva il conflitto di interessi della sua ministra o se deve ringraziare la diffusione delle telefonate intercettate tra Guidi e il compagno. Se la prende con i primi lanci di agenzia che riportano il suo attacco a i magistrati: «La politica italiana è ormai deberlusconizzata, ma la stampa no», dice. Perché nel suo sfidare i magistrati a fare le sentenze (per arrivare alle quali, però, servono le inchieste) non vuole essere tacciato di berlusconismo. «Noi siamo disponibili a dare tutte le carte, noi chiediamo che si facciano i processi presto. Erano gli altri che contavano sulla prescrizione, non noi. Siamo disponibili a dare tutta la collaborazione ai magistrati, a essere interrogati, erano gli altri quello che alzavano il muro del legittimo impedimento, non noi». Erano, in effetti, Alfano e Verdini.
Fonte: il manifesto
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.