di Pierluigi Adami
I dati sulla produzione italiana di idrocarburi
Dai dati pubblicati dal Ministero per lo Sviluppo economico, risulta che, in effetti, l’Italia è un discreto produttore di idrocarburi: il quarto tra i paese europei con 36-40 milioni di barili di greggio all’anno, pari a circa 5,45 milioni di tonnellate nel 2014 (ma il picco è nel 2015 con 6,9 Mton) e l’undicesimo per consumo totale di petrolio nel mondo. Il consumo nazionale ha avuto un picco nel 2005 e poi un rapido crollo di quasi il 20% sino ai 55,7 Mtep del 2014 (tonnellate equivalenti, dati Eurostat). Ovvero, l’intera produzione italiana rappresenta circa il 10% del fabbisogno (il 12% del gas). Di questa produzione, l’85% è su terraferma, solo il 15% da piattaforme marine. Sono attive 115 concessioni di ricerca, di cui solo 21 in mare, e 200 estrattive (“coltivazioni”) di cui 69 in mare. A ogni concessione possono corrispondere più piattaforme di ricerca o estrattive.
In totale, vi sono 135 piattaforme di gas e petrolio in mare, di cui 92 entro le 12 miglia, oggetto del referendum. Il totale produttivo delle piattaforme entro le 12 miglia è di circa l’1% del fabbisogno annuo di petrolio e il 3% del gas.
In totale, vi sono 135 piattaforme di gas e petrolio in mare, di cui 92 entro le 12 miglia, oggetto del referendum. Il totale produttivo delle piattaforme entro le 12 miglia è di circa l’1% del fabbisogno annuo di petrolio e il 3% del gas.
Chi si avvantaggia dagli idrocarburi estratti?
Di certo le compagnie petrolifere e del gas. Le aziende con la concessione – molte sono straniere – diventano, di fatto, proprietarie del petrolio e del gas che estraggono e lo vendono anche all’estero. Pagano royalties irrisorie del 7% del valore del petrolio e del 10% del gas e inoltre hanno forti incentivi fiscali e franchigie varie, inclusa una grossa quota annua esente da royalties pari, in totale, alle prime 70.000 tonnellate di petrolio e ben 100 milioni di metri cubi di gas estratte a terra o in mare. All’estero le royalties pagate dai petrolieri sono enormemente più alte, sino all’80% e con oneri fiscali molto pesanti. Il totale delle royalties di concessione che sono entrate allo Stato nel 2015 è solo di 350 milioni di euro.
L’estrazione di petrolio inquina
Le piattaforme di petrolio inquinano, danneggiano l’ecosistema marino e le creature del bentos. Non a caso, dai dati di Ispra risulta che i fondali italiani del Mediterraneo sono i più inquinati di catrame nei sedimenti, con valori tripli rispetto al secondo mare “cattivo” (Mar dei Sargassi). È attivo un continuo e costoso (a carico dello Stato) monitoraggio ambientale degli sversamenti in mare di idrocarburi, proprio perché nel corso degli anni si sono ripetuti eventi di perdite. È vero però che le petroliere inquinano ancora di più delle piattaforme, con i frequenti sversamenti di petrolio in mare per pulire illecitamente le loro “stive”. Le bombe d’aria che martellano i fondali alla ricerca di nuovi giacimenti compromettono l’habitat e l’equilibrio degli ecosistemi marini; le trivelle risucchiano sabbia che poi viene compensata – è un fenomeno accertato – da un naturale prelievo di sabbia dalle coste, aumentando così l’erosione delle spiagge.
L’errata contrapposizione tra tutela dell’ambiente e lavoro
Francamente, speravo che la presunta contrapposizione tra tutela dell’ambiente e posti di lavoro fosse un concetto vecchio e ormai superato. Non è affatto vero che per tutelare l’ambiente si perdono posti di lavoro, semmai è vero il contrario: un ambiente poco tutelato significa lavoro di basso livello e con poche prospettive; invece, ove l’ambiente è tutelato si sviluppano innovazione e posti di lavoro qualificati. Anni fa, alcuni paesi si opponevano all’istituzione di parchi nazionali, perché temevano i vincoli ambientali. Ebbene oggi in quei paesi dove c’è un parco ci sono molte più opportunità e ricchezza. I prodotti agricoli coltivati in vicinanza dei parchi sono più richiesti, hanno un’immagine migliore e penetrano meglio il mercato, differenziandosi per la loro qualità. E il turismo si avvantaggia di un ambiente sano e tutelato, creando altre opportunità. D’altronde potendo scegliere, voi comprereste frutti dl mare di un mare pulito o quelli raccolti di fronte a un petrolchimico? La verità è che per ogni posto di lavoro che il petrolio crea, se ne perdono molti altri per il danno ambientale: in val d’Agri migliaia di aziende agricole sono state costrette a chiudere. In mare, la presenza di piattaforme petrolifere vicine alla costa danneggia la pesca e il turismo. La minaccia di perdere 11.000 posti di lavoro a seguito del Sì al referendum è un dato privo di fondamento. Sono solo poche decine le piattaforme marine attive entro le 12 miglia interessate dal referendum, dunque con un numero di lavoratori impiegati limitato. Peraltro, anche con la vittoria del Sì queste piattaforme continuerebbero ad operare sino al termine della concessione (diversi anni), permettendo alle compagnie energetiche una progressiva modulazione e riconversione delle attività e della forza lavoro.
Petrolio, inquinamento ed emissioni. È ora di dire basta
La proroga illimitata alle concessioni estrattive nei nostri mari va contro la direzione in cui tutto il mondo deve andare: la fine dell’era del petrolio e delle fonti fossili. Prolungare in modo illimitato le concessioni incentiva le compagnie petrolifere a tenere comportamenti meno vincolati al rispetto della sostenibilità ambientale, e, in prospettiva, può favorire il mancato smantellamento degli impianti e la bonifica dei siti, attività molto onerose per le compagnie petrolifere e del gas. Il destino del petrolio è comunque segnato: ha portato il pianeta sull’orlo di una crisi climatica potenzialmente irreversibile, le sue combustioni tossiche hanno avvelenato l’aria delle nostre città e compromesso la nostra salute. L’Accordo di Parigi impone a tutti gli stati del mondo di ridurre le emissioni di gas serra, in gran parte dovute ai combustibili fossili, a iniziare dal petrolio. Il prezzo del petrolio è crollato dal 2014 proprio perché, per la prima volta, sono diminuiti i consumi. È in aumento l’efficienza energetica e l’uso delle fonti rinnovabili. L’innovazione tecnologica sta facendo passi da gigante nel campo delle rinnovabili, dei nuovi materiali a basso consumo, delle bioplastiche derivate da materiale vegetale, della mobilità elettrica e a celle di combustibile (idrogeno). Il consumo di petrolio è destinato a diminuire drasticamente e più in fretta di quanto si pensi. Nel comparto elettrico le rinnovabili coprono in Italia il 40% della produzione, mentre la produzione termoelettrica da fonti fossili è crollata dai 218 terawattora del 2011 ai 165 terawattora del 2015 (-25% in soli 4 anni). Possiamo anche prorogare le concessioni estrattive all’infinito, ma, comunque, tra pochi anni, con l’obbligatoria riduzione dei consumi di petrolio e delle emissioni di gas, e il perdurante crollo del prezzo del barile, quel petrolio, fortunatamente, resterà sotto il mare. Per questo, proprio perché sono ottimista sul futuro e credo sia tempo di cambiare il verso a una politica che guarda sempre indietro, il 17 aprile andrò a votare e voterò Sì.
Fonte: Green Report
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