di Pasquale Cicalese
Forse era meglio il fiscalista di Sondrio, almeno non ci si trastullava con la concezione nuova di “sinistra”. Ma di certo questo governo, a livello economico, somiglia molto all’ultima versione di Berlusconi. Vediamo perché. Il mentore della politica economica dell’imprenditore di Arcore è stato Giulio Tremonti. Socialista, liberista prima e poi nostalgico dell’intervento pubblico dell’economia. Costui, dopo la crisi mondiale del 2007, attua una svolta. Cerca di tessere una rete di capitalismo di stato con l’apporto di fondi sovrani, in primis cinesi. La sua strategia si basava sulla mobilitazione del risparmio per farlo passare dalla finanza speculativa all’economia reale. Strumenti di questa strategia, volta agli investimenti e ad una nuova industrializzazione, erano le grandi imprese semi privatizzate di Stato, fondi sovrani esteri, la Cassa Depositi e Prestiti e il risparmio degli italiani. Qualcosa del genere sembra attuare Renzi, con una differenza.
Quest’ultimo dà più spazio alle poche multinazionali private italiane e al quarto capitalismo delle medie imprese internazionalizzate e opera a tutto campo. Inoltre, Tremonti aveva come target specifico, anche a livello valoriale, le micro e piccole imprese del nord, Renzi predilige le medie grandi aziende.
Quest’ultimo dà più spazio alle poche multinazionali private italiane e al quarto capitalismo delle medie imprese internazionalizzate e opera a tutto campo. Inoltre, Tremonti aveva come target specifico, anche a livello valoriale, le micro e piccole imprese del nord, Renzi predilige le medie grandi aziende.
Come si esplicita questa strategia? Si è iniziato con l’Enel, a cui è stata affidata la realizzazione della digitalizzazione del Paese, un investimento di circa 2,5 miliardi che verrà conseguito con altri operatori privati. Poi c’è la privatizzazione di Ferrovie dello Stato, ancora non attuata per divergenze se la rete ferroviaria debba rimanere pubblica o privatizzata anch’essa.
In ogni caso il 3 aprile scorso Repubblica informava che FS ha intenzione di assorbire la rete stradale Anas per fare una fusione di servizio ferro-strada. C’è poi la Cassa Depositi e Prestiti, pubblica e che raccoglie il risparmio postale. Non si contano i progetti di salvataggi di imprese e/o di progetti infrastrutturali in cui non sia presente la Cassa, fino a piani di rilancio di medie aziende industriali che vengono acquisite per poi successivamente farle quotare in borsa.
Da un punto di vista dei fondi sovrani, Renzi opera con spregiudicatezza, a tutto campo. Dal fondo del Qatar, per immobili e servizi turistici, al fondo sovrano norvegese interessato alla partita Telecom. Da un punto di vista industriale il Presidente del Consiglio opta per le multinazionali americane, soprattutto del ramo high-tech. La bomba di questi giorni però è un’altra. In un’intervista rilasciata il 5 aprile su Il Messaggero, Francesco Caio, manager voluto da Renzi alla guida di Poste Italiane, lancia un messaggio al governo: poiché i rendimenti sono bassi e Poste Vita, come tutte le assicurazioni, sta soffrendo questo scenario, Poste Italiane ha deciso di utilizzare le riserve tecniche della propria assicurazione in progetti infrastrutturali, una torta di circa 100 miliardi di euro che può essere in parte indirizzata ad investimenti. Poste è leader anche nel settore della logistica tramite il proprio operatore SDA. Guarda caso la logistica era presente in entrambi i programmi dei candidati alla Confindustria Boccia e Vacchi: entrambi vogliono creare hub logistici in varie aree del Paese e invitavano il Governo a lanciare progetti infrastrutturali.
La fusione ferro-strada, il Piano di Caio e il ruolo della Cassa depositi e prestiti combaciano in pieno con le richieste confindustriali di infrastrutturazione del Paese perché mobilitano risorse che il pubblico non può o non vuole dare. Con un ulteriore novità. A giugno il Presidente Mattarella si recherà in visita a Pechino, mentre a settembre Renzi incontrerà Xi Jinping. Al riguardo, il 29 marzo scorso il ministro delle Infrastrutture Delrio ha incontrato l’ambasciatore cinese in Italia Li Ruyu per progetti infrastrutturali, portuali, stradali e ferroviari sia lungo l’asse tirrenico, sia nella dorsale adriatica, in particolare nel nord adriatico. Pochi mesi fa Paolo Costa, presidente dell’autorità portuale di Venezia, ha concluso un accordo con autorità cinesi per lo sviluppo sia del porto off shore di Venezia sia per la rete NAPA (North Adriatic Ports Authorities) che coinvolge Ravenna, Venezia, Trieste e Capodistria. L’investimento del porto off shore di Venezia ha un valore di 2,1 miliardi, in dirittura d’arrivo, mentre la rete NAPA ha come obiettivo servire il centro nord e l’est europeo in alternativa a Rotterdam. Il progetto NAPA è il corollario di One Belt One road cinese visto che Venezia e l’alto adriatico vengono visti come terminale della Via della Seta.
Quando andò alla scuola di partito cinese nel 2010, Tremonti invitava le autorità a considerare il mondo in tre gambe, non solo Usa e Cina ma anche Europa, con l’Italia come ponte. Il fiscalista di Sondrio vedeva i fondi sovrani cinesi come strumenti per l’infrastrutturazione del nord Italia e pensava già al ruolo di Venezia. Renzi si muove sullo stesso filo ma considera l’apporto americano determinante. In ogni caso, da un editoriale di Milano Finanza (Orsi&Tori) del 2 aprile scorso, siamo venuti a sapere che il Presidente del Consiglio partecipa intensamente alla varie riunioni del Forum Business Italia-Cina presieduto da Tronchetti Provere di Pirelli, società acquisita da una multinazionale cinese. Se questo è lo scenario, nel caso si trovassero accordi, la potenza di fuoco di Ferrovie, Poste, CDP, assieme ai fondi sovrani cinesi, sarebbe enorme e potrebbe risultare determinante per spostare i traffici marittimi da Rotterdam al nord mediterraneo. Si farebbero quegli investimenti non più permessi alla fiscalità generale causa il famigerato Fiscal Compact, ma per saperne di più occorrerà vedere cosa mette sul piatto la Cina. Entro settembre ne sapremo qualcosa.
Che conclusioni trarne? A distanza di circa 20 anni, la borghesia italiana pare voglia focalizzare l’attenzione sui servizi a rete logistici; ha scoperto che con opportuni investimenti il Paese può diventare leader mondiale scalzando l’Olanda e la rete anseatica del nord Europa. E’ molto probabile che i colossali investimenti cinesi lungo la Via della Seta (circa mille miliardi di dollari), nonché il raddoppio del canale di Suez, abbiano fatto presa sull’imprenditoria italiana, che cerca ora di recuperare il notevole ritardo. La costruzione di servizi a rete, dalla digitalizzazione allo sviluppo di hub portuali, dalla ferrovia al potenziamento autostradale sembra dunque essere il must del governo Renzi che, non avendo possibilità di fondi pubblici, cerca una sorte di mobilitazione del risparmio nazionale seguendo una sorta di riedizione in chiave privatistica dello Schema Fanfani (la Boschi ha ammesso che il leader democristiano è il suo modello) con l’aggiunta di fondi sovrani esteri. L’assetto privatistico di questo nuovo schema è dato dal riordino legislativo non solo delle municipalizzate, ma anche dalla privatizzazione degli scali aeroportuali e degli scali portuali. In questi ultimi due sono ora previste apporti di privati per la gestione e il potenziamento e Confindustria è notevolmente interessata. Quel poco che è rimasto di capitalismo di stato darebbe l’apporto finanziario all’infrastrutturazione del paese, assieme ai fondi sovrani, lasciando la gestione dei servizi agli industriali italiani.
Se nella privatizzazione delle municipalizzate si ingrossa la rendita ai privati, nel caso degli scali portuali, a ridosso del quale ci sono hub logistici, si dà spazio al profitto industriale, senza considerare che, qualora in un decennio si riuscisse a togliere quote di mercato logistiche alla rete anseatica, le aree degli hub, che possono essere la rete Napa, Genova, Taranto, Livorno, Augusta e Gioia Tauro, diverrebbero aree a forte insediamento industriale. Non a caso il confindustriale Alberto Vacchi nel suo programma diceva espressamente: “rimettere a nuovo l’Italia, per le infrastrutture e le grandi opere utili e sostenibili; si potranno generare opportunità di attrazione di capitali privati per avviare nuove sfide imprenditoriali, ricche di opportunità e socialmente utili. Devono completarsi i corridoio ferroviari europei, raccordandoli con i principali porti e aeroporti per consentire la mobilità adeguata ai tempi” (Un impegno condiviso per Confindustria, in www.unindustria.bo.it).
In ultima analisi rimane il fatto che nell’Italia di Renzi, ma così succede dal 1992, il pubblico mette i quattrini e il privato gestisce e incassa. La formula loro di meno Stato più mercato si traduce anche in questo caso in più Stato per il mercato.
Fonte: Marx21.it
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