di Roberto Mancini
Costruire un’altra economia richiede coscienza politica. E questa chiede di assumere criteri orientativi. Essi emergono in queste alternative cruciali: tra violenza e nonviolenza, tra etica della dignità e logica della strumentalizzazione delle persone, tra etica del bene comune e logica dell’autoaffermazione, tra etica dell’armonia con la natura e ideologia del suo sfruttamento, tra solidarismo e liberismo, tra cooperazione e competizione, tra cultura dell’armonia e ideologia della crescita, tra interculturalità ed etnocentrismo, tra alleanza dei generi e sessismo. A chi vuole la liberazione dall’economia oppressiva è richiesto uno sguardo attento che tenga conto del complesso di queste alternative e della loro interconnessione. Perciò è fuorviante semplificare la complessità delle questioni, come accade quando si immagina che una visione nuova, che porti oltre questa economia, si ponga oltre la differenza tra destra e sinistra.
La banalizzazione di tale distinzione viene fatta giudicando entrambe portatrici dell’ideologia della crescita, come se ogni altra divergenza fosse inesistente. Dopo di che si presenta la propria concezione (che può richiamarsi alla decrescita, o ai beni comuni, o all’economia solidale) come l’unica risolutiva. Una prospettiva del genere è superficiale, perché non sa cogliere come rispetto all’intero quadro delle alternative essenziali sia rilevante la differenza tra cultura di destra e cultura di sinistra. Il fatto che i partiti di sinistra siano ridotti a piccole formazioni miopi e settarie (il PD fin dalla nascita si è collocato in un’altra area) non autorizza a ritenere superato l’orientamento etico e culturale della sinistra.
Mentre la destra esalta la nazione e il suo capo, o l’individuo autocentrato, o lo Stato, o il mercato, un orientamento di sinistra è tale perché ha a cuore l’intera comunità umana e la natura, senza accettare esclusioni né iniquità. La destra può benissimo essere liberista; se facesse altrettanto, la sinistra cesserebbe di essere se stessa. La destra tende a fare proprie tutte le direzioni sbagliate nelle alternative che ho citato. Se chi è a sinistra imbocca una di queste direzioni, entra in contraddizione con il proprio orientamento ideale. Certo, per scegliere le direzioni giuste non basta definirsi “di sinistra”: occorre impegnarsi in un cammino incessante di pensiero critico e autocritico e di azione trasformatrice.
La differenza tra destra e sinistra non è quella tra il male e il bene. Né penso che una cultura di sinistra sia portatrice della verità. Destra e sinistra non sono due assoluti. Sono riferimenti relativi, non sufficienti, ma necessari perché legati a visioni divergenti, l’una orientata verso l’esclusione e l’altra verso l’inclusione. L’orientamento a sinistra impegna chi lo segue a rivedere le proprie posizioni per maturare ogni volta scelte coerenti rispetto a un ideale che chiede di coniugare i valori secondo la misura dell’universalità, ossia della non esclusione. Proprio per questo una prospettiva di sinistra democratica e nonviolenta deve saper vedere il proprio limite, riconoscendo la piena legittimità delle altre prospettive. La perdita di credibilità della sinistra sul piano culturale deriva proprio dalle semplificazioni, dal settarismo o dalle incoerenze di chi, dicendosi di sinistra, nel contempo crede nella “crescita”, o dà prova di maschilismo, o ha una mentalità etnocentrica ed è chiuso alle altre culture. Misconoscere la differenza tra destra e sinistra porta all’ambiguità. Quella di chi magari ha idee avanzate su alcune questioni e poi condivide idee di destra, per esempio sull’alternativa tra accoglienza o respingimento dei migranti. La differenza va riconosciuta come la divergenza tra due differenti tipi di apertura della coscienza: o verso qualcuno soltanto o verso tutti. Tenere conto di questa distinzione fa parte della coscienza politica necessaria a costruire la transizione verso un’altra economia: nei processi della vita pubblica, nei progetti politici e nelle scelte di governo.
Fonte: Altreconomia
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