di E. Igor Mineo
Le città italiane del Rinascimento, a partire dalla fine del Quattrocento e per tutto il Cinquecento, vennero investite da due fenomeni apparentemente irrelati: la rapida diffusione dei Monti di Pietà e il confinamento degli ebrei in quartieri a loro esclusivamente dedicati: i ghetti. La relazione che, in realtà, integrò in un unico dispositivo, insieme economico, culturale e politico, i due fenomeni viene ora dissezionato da Giacomo Todeschini in un libro, La banca e il ghetto Una storia italiana, secoli XIV-XVI (Laterza, pp. 239, euro 22,00) che sottolinea, sì, la frattura cronologica e le novità di cui il ghetto è simbolo ma, allo stesso tempo, ripercorre tutta una serie di processi, di media e lunga durata, fuori dai quali quel dispositivo non risulterebbe comprensibile, e anzi neppure discernibile.
Il Monte di Pietà, o il Banco pubblico, non parla solo della riorganizzazione del sistema creditizio; e il ghetto non è solo l’esito di una storia di discriminazione, il concretizzarsi, nel vivo del tessuto urbano, di una ininterrotta tradizione di antigiudaismo.
Entrambi appaiono invece come i segni dell’assestarsi provvisorio di una dinamica visibile nelle società urbane tardomedievali già tra XIII e XIV secolo: alla gerarchia sociale che si rafforza (con i suoi esiti oligarchici) corrisponde una gigantesca produzione discorsiva bisognosa di accertare cosa sia una comunità, quali i modi per farne parte, quali i rischi di marginalità o di esclusione; ansiosa cioè di fissare il profilo, sociale, religioso, etico dei suoi membri. In questo universo «italiano» (al quale il Mezzogiorno monarchico è però sostanzialmente estraneo), la comunità si rappresenta attraverso linguaggi che valorizzano al massimo l’astratta idealità del bene comune. Un’idealità ambigua, che si colora di significati insieme religiosi e politici, ma alla quale corrisponde per tempo uno sforzo inteso a razionalizzare ciò che chiameremmo «finanza pubblica».
Entrambi appaiono invece come i segni dell’assestarsi provvisorio di una dinamica visibile nelle società urbane tardomedievali già tra XIII e XIV secolo: alla gerarchia sociale che si rafforza (con i suoi esiti oligarchici) corrisponde una gigantesca produzione discorsiva bisognosa di accertare cosa sia una comunità, quali i modi per farne parte, quali i rischi di marginalità o di esclusione; ansiosa cioè di fissare il profilo, sociale, religioso, etico dei suoi membri. In questo universo «italiano» (al quale il Mezzogiorno monarchico è però sostanzialmente estraneo), la comunità si rappresenta attraverso linguaggi che valorizzano al massimo l’astratta idealità del bene comune. Un’idealità ambigua, che si colora di significati insieme religiosi e politici, ma alla quale corrisponde per tempo uno sforzo inteso a razionalizzare ciò che chiameremmo «finanza pubblica».
Nelle città comunali, l’insieme delle risorse che costituivano il ‘tesoro’ pubblico (il fisco, le proprietà collettive, i prestiti che i privati facevano allo stato) divenne infatti una componente essenziale del bene comune, sempre che fosse indubitabile la cristianità della comunità nel suo insieme, vero e proprio Corpo sacralizzato, come pure dei suoi singoli cives. I quali, a loro volta, non apparivano capaci di contribuire allo stesso modo, eticamente e economicamente, alla prosperità collettiva: non a caso la tendenza oligarchica che vediamo emergere lungo tutto il XIV secolo non riguardava un non meglio precisato ambiente «nobiliare», ma il segmento sociale economicamente più forte e intraprendente, composto di attori implicati quotidianamente nel commercio, nel credito, nella manifattura più redditizia.
Erano costoro, i «mercanti», a entrare in una relazione intima con lo Stato, come ufficiali e amministratori certo, ma soprattutto come appaltatori dei servizi di riscossione di dazi e gabelle, e come prestatori alle casse pubbliche. Il debito pubblico era divenuto grazie a loro una gamba fondamentale della finanza comunale; e sia i mercanti che i banchieri erano interessati a rendere la sua forma istituzionale e ideologica sempre più definita.
Alla base di questa formalizzazione – prima il Monte comune, fra Tre e Quattrocento, poi i Monti di Pietà dalla fine del Quattrocento, infine i veri e propri Banchi pubblici (sullo sfondo le Casse di Risparmio) – stava una cultura teologica che era andata legittimando il movimento di moneta: transazioni mercantili e attività creditizie (con le loro remunerazioni), come pure oblazioni e prestiti al Monte comunale (o ad altre istituzioni caritative). Lecite, tali operazioni, in quanto utili al Corpo della città e al suo mantenimento, effettuate da persone meritevoli di fiducia.
Una tale, virtuosa socialità si definisce così in rapporto al suo opposto: la socialità inutile, talora parassitaria, religiosamente ambigua, delle persone eticamente e economicamente oscure, per natura o per ostinata inclinazione al peccato, e pertanto lontane dal cuore vivo del corpo comunitario. Era la parte sociale più degradata e marginale, occupata da persone non affidabili e neppure di religiosità certa: un mondo la cui misera quotidianità aveva bisogno di specifiche reti di credito, tanto locali e circoscritte quanto le altre erano sovra-territoriali, se non internazionali, ossia di un sistema di crediti minuti e improduttivi, simbolizzato dal prestito su pegno.
A questa domanda risposero soprattutto i prestatori ebrei, che per questa via si integrarono nelle città comunali del Duecento e del Trecento, rappresentando una socialità, tanto cristiana quanto ebraica, opaca e poco alfabetizzata, dotata di un incerto statuto civico e che pure faceva parte integrante del panorama sociale. Queste due polarità del sistema comunitario, ci fa capire Todeschini, stavano in tensione, e si condizionavano, posta, ovviamente, la centralità del polo che faceva capo alla piena cittadinanza «cristiana».
Questa convivenza non va letta ricorrendo a anacronistiche immagini di «tolleranza», funzionali, tra l’altro, al «romanzo della creatività imprenditoriale e finanziaria italiana». Le retoriche politico-religiose del bene comune esprimono infatti significati disciplinari che non sono sempre gli stessi nel corso del tempo, ma che certo rimangono aderenti a un programma di controllo dello spazio sociale da parte delle élites politico-economiche cristiane.
Il peggioramento della condizione ebraica, dal tardo Quattrocento, fu dovuta sì alla radicalizzazione di tale programma, ma solo dopo che la polemica antiebraica da parte dell’ala «radicale» francescana (l’Osservanza) ebbe surriscaldato il clima culturale, ponendo il problema del monopolio del credito minuto da parte dei banchi ebraici. Qui la discontinuità: nella scelta di assistere i «poveri», liberandoli dal commercio pericoloso con gli infedeli, e integrandoli in reti assistenziali affidabili dal punto di vista cristiano e che prevedessero la possibilità del soccorso creditizio. Il contraltare fu il ridimensionamento della presenza ebraica, con l’obiettivo di sottrarre agli ebrei una funzione svolta per un paio di secoli, e di assegnare programmaticamente ai Monti di Pietà il compito di aiutare la parte più fragile della popolazione urbana.
Il processo venne portato a compimento quando si costruirono i ghetti, e dunque la separatezza ebraica assunse un segno fisico che non c’era mai stato, e agli ebrei vennero assegnati i mestieri-simbolo: la «strazzeria» – il commercio di panni e oggetti usati –, e l’«usura». Una vera e propria «svolta disciplinare» che, ancora una volta, stava in relazione, in pieno Cinquecento, con un esito molteplice: una rappresentazione finalmente ordinata e gerarchizzata della comunità insieme con un’identità economica cristiana ideologicamente svincolata da relazioni pericolose. Dall’altro lato del muro che da allora separò formalmente cristiani e ebrei, il fantasma di Shylock aveva preso davvero a circolare, e con lui l’«equazione tra ebrei e ricchezza, tanto cara all’antisemitismo sette-ottocentesco».
Ciò che impressiona in questa ricostruzione è la capacità di sottoporre venerande genealogie – quella della modernità commerciale e borghese, o quella della separatezza dei traffici del ghetto – a una critica corrosiva che restituisce tutta la complessità di un lungo processo di costruzione di un corpo comunitario, di cui banca pubblica e ghetto sono due esiti concomitanti, anche se evidentemente asimmetrici.
Fonte: il manifesto
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