di Rachele Gonnelli
Esiste una disfida delle cozze tra Eni e Greenpeace, sulla genuinità di quelle che crescono spontaneamente attaccate ai piloni delle piattaforme estrattive offshore davanti alla costa ravennate. I molluschi vengono raccolti dalla cooperativa pescatori di Ravenna che per farlo ha addirittura stilato un accordo con la proprietaria dell’impianto a mare, l’Eni appunto, per poi commercializzare il pescato per usi alimentari, dopo i controlli di routine della Asl romagnola sulle contaminazioni batteriologiche e chimiche (mercurio, cadmio, piombo), ragion per cui l’Eni contesta le risultanze del rapporto dell’organizzazione ambientalista sull’inquinamento prodotto dagli impianti adriatici, tra i più vetusti delle 88 esistenti entro le 12 miglia marine.
L’inquinamento, secondo i dati del Cane a sei zampe, se c’è dipende dal traffico navale e dagli scarichi industriali mentre sarebbe insignificante l’apporto dell’attività petrolifera (meno dello 0,1%).
Greenpeace pretende dati certi e aggiornati mentre dal canto suo il Wwf fa notare che per la strana normativa italiana l’ente controllore – l’Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale – vigilato dal ministero dell’Ambiente affida proprio all’Eni, il controllato, come principale player nazionale nel settore idrocarburi commesse sul monitoraggio ambientale delle piattaforme.
Sembra un caso insignificante, questo delle cozze romagnole, eppure è anche su questo che gli italiani sono chiamati tra dieci giorni a esprimersi alle urne. Non sui mitili in sé, naturalmente, ma sul decommissioning, ovvero lo smantellamento e il ripristino dei luoghi a fine vita dei giacimenti come impone la legge mineraria . Per il governo, con la legge di Stabilità 2016, la scadenza delle piattaforme è però rimandata sine die a discrezione del ministero dello Sviluppo.
Se vince il Sì al referendum invece la durata degli impianti non potrà essere prorogata in eterno e la bonifica dovrà essere fatta. E subentra la domanda: ma quanto costerebbe togliere dall’orizzonte le 64 carcasse che vengono tenute in vita al minimo (non produttive o sotto la franchigia) e non producono utili né royalty per enti locali e casse statali?
Non risultano finora esistere piani di decommissioning su questi impianti né depositati al ministero dell’Ambiente né che l’Eni possa produrre (abbiamo chiesto). Del resto sarebbe inutile vista la normativa vigente. Esistono però degli studi di settore su cui si può provare a fare una stima.
Il principale, consigliato dal sito del Plan Blue per combattere l’inquinamento dei mari e degli oceani in rapporto alla Cop21 e alla lotta ai cambiamenti climatici, si chiama «Disused offshore installations and pipeline, towards sustainability decommissioning» e dice che i costi dello smantellamento dipendono dalla tipologia di impianto (i più grandi e moderni sono a blocchi), dalla geomorfologia del luogo e dalla scelta se rimuovere interamente il manufatto o in modo parziale.
Nel Mare del Nord i costi medi per la rimozione delle pipeline e delle piattaforme erano circa 83 dollari a metro già una quindicina di anni fa (si stima di 47 miliardi di euro in un trentennio).
Lo studio dice anche che la valutazione economica sull’opportunità dello smantellamento include necessariamente le royalty e le tasse (in Italia appena il 7% per il petrolio e 10% per il gas), che un impianto di estrazione di gas o petrolio ha una vita media tra i 20 e 40 anni ( lungo le nostre coste ce ne sono del ’64, del ’71, del ’59) e che le operazioni di smaltimento sono delicate e possono anch’esse produrre inquinamento.
I fondi a garanzia contro i rischi ambientali dovrebbero essere un terzo del fatturato delle aziende ma spesso le referenze delle grandi compagnie – dice la stessa ricerca – si basano più sulla loro reputazione finanziaria che su precise garanzie assicurative e bancarie.
L’Eni, analizzando i progetti di decommissioning delle compagnie concorrenti come Bp, Total, ExxonMobil, Erg, avverte che «la bonifica dei siti contaminati è dispendiosa, da mezzo milione a diverse decine di milioni di euro perciò – rileva- è fondamentale l’obiettivo della bonifica»,. o meglio il riutilizzo dell’area, considerando per alcuni usi (non per costruire un asilo o magari un allevamento ittico o di mitili per sauté) «livelli accettabili di contaminazione». Accettabili per chi però?
Fonte: il manifesto
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