di Giuseppe D'Acunto
Il volume Ancora il postmoderno? (manifestolibri, pp. 224, euro 17), a cura di Gabriella Baptist, Andrea Bonavoglia e Aldo Meccariello, raccoglie nove contributi critici che, osservati con uno sguardo d’insieme, dispiegano il nucleo plurale del lemma «postmoderno», sollevando il problema se esso rappresenti una semplice figura postuma del moderno, una sorta di suo epilogo o ultimo atto, o se, invece, decretando la fine dei «grandi racconti» e dell’articolazione teleologica del tempo, non apra lo scenario per una nuova «logica del senso» e per un’«ontologia del presente».
E proprio questa oscillazione la si può cogliere già in ciò che scrive Massimo Piermarini nel primo saggio che apre il volume, Postmodernità e postmodernismo: Lyotard, Baudrillard, Deleuze.
Qui, del postmoderno si afferma che, per quanto da un lato il suo destino storico sia senz’altro indissociabile dal moderno, dall’altro esso presenta essenzialmente un «carattere di pastiche, (…) di manipolazione-combinazione di materiali e forme dei vari stili delle epoche che lo precedono». Non diversamente per Paolo B. Vernaglione nel suo contributo (Per un’archeologia del presente) la postmodernità è da intendere come il «fallimento della modernizzazione» che ha aperto, però, la strada ad un’indagine «archeologica» sul presente, tale che, abolendo la nozione di avvenire e disfacendo la storia, ha istituito il regime della pienezza immanente di un «tempo intemporale».
Qui, del postmoderno si afferma che, per quanto da un lato il suo destino storico sia senz’altro indissociabile dal moderno, dall’altro esso presenta essenzialmente un «carattere di pastiche, (…) di manipolazione-combinazione di materiali e forme dei vari stili delle epoche che lo precedono». Non diversamente per Paolo B. Vernaglione nel suo contributo (Per un’archeologia del presente) la postmodernità è da intendere come il «fallimento della modernizzazione» che ha aperto, però, la strada ad un’indagine «archeologica» sul presente, tale che, abolendo la nozione di avvenire e disfacendo la storia, ha istituito il regime della pienezza immanente di un «tempo intemporale».
E proprio su questa stessa linea, Bruno Latour – autore cui è dedicato il saggio di Antonio Caridi – porta avanti un programma riassumibile nella formula: «disinventare la modernità». Nel senso che se, tradizionalmente, si è creduto che ci fosse, da un lato, una natura unica e, dall’altro, una pluralità sul versante delle produzioni simboliche (culture, linguaggi ecc.), ebbene, questa pluralità va vista come iscritta proprio nella natura, per cui il compito di ogni impresa scientifica dovrebbe essere quello di enucleare, primariamente, dei «modi d’esistenza».
Il rapporto ambivalente che lega postmoderno e modernità – dato, soprattutto, dal fatto che l’uno si sarebbe appropriato di quell’istanza di legittimazione che è stato, forse, uno dei tratti più tipici dell’altra – è poi al centro anche del saggio di Giuseppe Patella, Il postmoderno è morto! Lunga vita al postmoderno. Qui, già il titolo allude al fatto che, proprio perché, fino a oggi, tante volte è stata annunciata la morte del postmoderno, si può credere che esso non smetta mai di morire. Solo che «non si riesce più davvero a capire se abbiamo a che fare con il suo cadavere, con il suo fantasma o piuttosto con la sua caricatura».
Il saggio di Orlando Franceschelli, Modernità e naturalismo: oltre la secolarizzazione (e il postmoderno), cercando di dirimere la polisemicità, decisamente troppo estesa, implicita nella categoria di postmoderno, propone di declinarla nel segno di un naturalismo filosofico postmetafisico, tale, cioè, che essa si faccia promotrice del «passaggio dal principio teologico-metafisico della creaturalità del mondo e dell’uomo a quello della loro naturalità».
Ovviamente, il presente volume non poteva dimenticare il fatto che il termine postmoderno ha trovato una delle sue prime formulazioni nell’architettura del Novecento. E, proprio in tal senso, il saggio di Andrea Bonavoglia (La funzione della forma. Architetture moderne e postmoderne del Novecento da Adolf Loos a Frank Gehry), è dedicato a due fra i maggiori esponenti dello stile architettonico «funzionalista»: di quello stile, cioè, in cui «la progettazione ha un ruolo di supporto alla forma, e non viceversa». Segue un contributo che segna un tempo musicale di «intervallo» nella compagine dell’intero volume: Roberto Caracci,Le figure dell’«abitare» in Kafka. La casa come bunker e come rifugio poroso. Qui l’autore, studiando i personaggi di tre racconti di Kafka (La metamorfosi, Un sogno e La tana), nota come essi trovino solo «nel sottosuolo il senso del possesso, del giacere, dell’abito e della solitudine».
Chiudono il volume due saggi che si ricollegano ai termini di quell’alternativa che avevamo prospettato all’inizio: mentre Antonino Infranca (Il trans-moderno al di là del moderno e del post-moderno), considera il postmoderno come «una parentesi del moderno, la sua ultima attuale fase», intendendo per attuale «non «contemporanea», ma «in atto», Aldo Meccariello (Postille provvisorie non scientifiche a moderno e post-moderno), rimarcando la dimensione di crisi e di rottura segnata dal postmoderno rispetto al moderno, argomenta, invece, la tesi secondo cui il primo può giustificarsi solo se è inteso come quel luogo in cui le forme del secondo, trovando una «nuova dimora», possono «finalmente dispiegarsi».
Fonte: il manifesto
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