di Luca Martinelli
Le 664 banche italiane non sono tutte uguali. E a fare la differenza non è la natura societaria (che 376 siano banche di credito cooperativo, e 172 società per azioni, ad esempio), né la “dimensione”, anche se le notizie che si rincorrono da fine novembre 2015, dopo il crack e il salvataggio di 4 istituti di credito, hanno portato grande confusione in materia. Tra dicembre 2015 e gennaio 2016 non hanno aiutato le continue esternazioni in materia del presidente del Consiglio, Matteo Renzi. In merito, il premier ha affermato infatti che “in Italia ci sono state troppe banche, anche di paese” (29 dicembre), che “vanno accorpate [...] a partire dalle banche di credito cooperativo. È arrivato il momento di dire che ci sono stati troppi che hanno giocato a fare i piccoli banchieri” (16 dicembre). Guardando ai grandi gruppi bancari, invece, nel corso di una conferenza stampa organizzata per celebrare un protocollo tra l’esecutivo e Intesa Sanpaolo ha detto “i dati dell’ad [Carlo] Messina sono impressionanti: da 27 a 40 miliardi di euro per gli investimenti sono tanta roba e ancora ne verrà” (13 gennaio).
Sono “tanta roba” però anche le sofferenze, cioè i crediti assegnati a clienti in stato di insolvenza, cioè irreversibilmente incapace di saldare il proprio debito, accumulate nei bilanci dei primi cinque gruppi bancari del nostro Paese (oltre a Intesa Sanpaolo sono Unicredit, Monte dei Paschi di Siena, Ubi Banca e Banca popolare), pari a 133 miliardi di euro a giugno 2015. Tanti, specie se rapportate allo stesso dato riferito alle 461 banche minori -nella classificazione di Banca d’Italia sono quelle che intermediano fondi per meno di 3,6 miliardi di euro, ne fanno parte la maggior parte delle banche di credito cooperativo (BCC)-, che è di appena 17 miliardi di euro.
Il dato assoluto spiega qualcosa, ma quello relativo -la percentuale delle sofferenze sul totale delle impieghi, cioè dei prestiti alla clientela- aiuta ad approfondire l’analisi. Nel caso dei 5 principali gruppi bancari italiani, le “sofferenze” rappresentano il 10,8% degli impieghi; per le banche minori, il 9,5%; per il sistema bancario, in media, il 10,3%.
Questo significa che mediamente l’“affidato” di una piccola banca di paese è più affidabile di quello di un gigante del credito. Nel caso di Banca popolare Etica, ad esempio, i crediti in sofferenza sono appena il 2,94% del totale.Alessandro Messina, direttore generale di Banca Etica, rivendica la specificità dell’istituto padovano, che “è l’unica banca in Italia che pubblica l’elenco completo delle persone giuridiche cui presta i soldi. Lo fa per convinzione, ma è anche perché ciò rappresenta un presidio di sicurezza, e rassicura non verranno mai prestati a soggetti che non lo meritano per motivi reputazionali”, una valutazione che per Banca Etica include anche profili di carattere ambientale e sociale.
Messina è stato in passato responsabile del Settore crediti per l’ABI (Associazione bancaria italiana) e responsabile delle Relazioni con le imprese e dei Progetti speciali per la Federazione italiana delle banche di credito cooperativo e casse rurali (Federcasse). Il dibatitto in corso sulla dimensione delle banche pare omettere, ricorda, “che siamo ancora dentro la ‘grande crisi’, iniziata nel 2008, figlia del fatto che ci fossero alcune banche ‘too big to fail’, troppo grandi per fallire, e che pertanto andavano aiutate”. Secondo Messina, la retorica ha associato la forma cooperativa ad episodi di cattiva governance, quando in realtà “la creazione di gruppi d’interesse che non agiscono a tutela della banca si è registrato anche in alcuni casi di istituti di grandi dimensione, com’è il caso di Monte dei Paschi di Siena, Carige o Banca popolare di Milano”.
Oggi sono due le importanti riforme del settore in corso: quella che obbliga le banche popolari (che giuridicamente sono società cooperative) a trasformarsi in società per azioni e quella delle BCC. La logica che le guida è che queste siano propedeutiche ad aggregazione, perché le “banche più grandi possono competere meglio sulla finanza globale, avere accesso con più facilità a ‘capitali d’urgenza’, dei grandi investitori, ma intanto nessuno ha voluto cambiare questa finanza. E anche il regolatore, che si chiami Banca d’Italia o Banca centrale europea -conclude Messina-, si è fatto compiutamente catturare”.
La Banca centrale europea (Bce) utilizza due parametri per “misurare” la solidità di un istituto di credito: il Common equity tier 1 (CET1) ratio e il Total capital ratio (TCR). Guardano al grado di patrimonializzazione e agli impieghi: non li vedete nel testo e nelle infografiche che accompagnano questo articolo perché “i dati di bilancio, o i parametri, non possono essere letti in modo asettico, o parziale” come spiega Sergio Gatti, direttore di Federcasse, la federazione delle BCC. Detto che per quanto riguarda l’universo del credito cooperativo il CET 1 medio è al 16,2% (contro il 12,5% delle altre banche) mentre il TCR è al 16,7% (le altre banche al 14,8%), vale la pena sottolineare come questi dati non dicono tutto. Un esempio? A metà dicembre la Bce ha reso pubblici i risultati dell’ultimo stress test cui ha sottoposto le banche italiane. Tecnicamente si chiama Supervisory Review and Evaluation Process (SREP), e tanto Monte dei Paschi di Siena quanto Carige hanno registrato CET1 ratio ben superiori rispetto al target minimo indicato dalla Bce. Sarebbero solide, cioè. Nonostante questo, nel mese successivo alla pubblicazione dei risultati del test, i titoli di entrambe le banche -quotate alla Borsa di Milano- hanno subito un crollo, con le azioni di Mps che hanno perso (al 19 gennaio) il 45,63% del valore mentre quelli di Banca Carige segnano meno 44,53%.
L’andamento del titolo non rappresenta necessariamente lo stato di salute della banca (vedi infografica), ma può riflettere -ad esempio- l’invito della Banca centrale europea a cartolarizzare e “cedere” masse di crediti in sofferenza (tecnicamente NPL, non performing loans), com’è successo a Mps, o l’annuncio che lo stesso istituto avvierà una verifica sulla gestione degli stessi, nel caso di Carige.
Le Banche di credito cooperativo stanno discutendo con il ministero dell’Economia e la Banca d’Italia la propria auto-riforma. “Il governo ci ha dato delle opportunità -spiega Gatti di Federcasse-, stralciando dal ‘decreto popolari’ del gennaio 2015 il capitolo sulle BCC, in cambio di un impegno a fare una proposta organica, conforme alle direttive UE. Tra gli elementi qualificanti, c’è che ogni singola BCC manterrà la licenza bancaria a livello locale, che significa protagonismo e partecipazione dei territori. Nascerà un gruppo bancario, una spa, ma a servizio delle banche del territorio; l’autonomia delle singole BCC non sarà totale, ma sarà commisurata alla sua rischiosità”. Sarà possibile intervenire sulla governance, ad esempio, quando la banca “sbanda”, com’è successo negli anni scorsi al Credito Cooperativo Fiorentino (CCF), a lungo presieduto dal parlamentare Denis Verdini. Una vicenda che ha strascichi giudiziari (Verdini è stato rinviato a giudizio), ma che è stata risolta: CCF è stata acquisita (nel 2012) da un’altra BCC, Chianti Banca. A dicembre 2015 s’è chiuso un altro salvataggio interno, quello della BCC Padovana da parte della BCC di Roma. “Tutte le banche del sistema hanno finanziato un veicolo su cui sono state caricate le sofferenze, poi grazie a un ulteriore Fondo di garanzia istituzionale, cui contribuiscono tutte le banca di credito cooperativo in proporzione alla propria rischiosità, abbiamo rimborsato anche i titolari delle obbligazioni subordinate, senza nessuna interruzione dell’attività e polemiche sui territori”. I “subordinati” sono coloro che i media hanno presentato come le vittime del “caso Etruria”. Il mutualismo è carattere fondante delle BCC. Che a fronte di una raccolta che vale il 9-10% del mercato, erogano il 23% dei mutui a favore delle imprese artigiane. E in ben 555 Comuni tengono aperto l’unico sportello bancario. “Molti non si ripagano -dice Gatti-, ma nelle aree interne ci sono territori a rischio ‘desertificazione’, dove non c’è più nemmeno la Posta”. Grazie a una presenza capillare le BCC raccolgono, complessivamente, 160 miliardi di euro.
Fonte: Altreconomia
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