di Maurizio Ricciardi
Nel 1867 un rifugiato tedesco, un comunista, in un libro che avrebbe avuto un’importanza capitale, commentava quanto avvenuto pochi anni prima negli Stati Uniti, scrivendo che «Il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi in un paese, dove è marchiato a fuoco quando è in pelle nera». Karl Marx aveva seguito con attenzione quanto avveniva a un oceano di distanza, convincendosi che l’abolizione della schiavitù fosse solo il primo segno dell’emancipazione di tutto il lavoro. Non è andata così. I rapporti all’interno degli Stati uniti erano troppo consolidati per essere modificati da un solo evento. Lo erano al punto da non poter essere spiegati nemmeno dalla biografia di un solo uomo per quanto rappresentativo. Questa convinzione sembra essere alla base di Abraham Lincoln. Un dramma americano (Bologna, Il Mulino, 2016, euro 22) scritto da Tiziano Bonazzi che, attraverso e grazie a Lincoln, ricostruisce il lungo passaggio storico che investe l’architettura di quella parte della Grande Europa che è ancora la società statunitense dell’Ottocento.
Il volume dunque è molto di più della biografia del XVI presidente, perché restituisce la storia costituzionale degli Stati Uniti in un momento di trasformazione che investe seriamente i tre pilastri costituzionali della società statunitense: la religione, il lavoro e la razza. Merito del volume è quello di seguire con uguale precisione due opposte eccedenze: quella della vicenda individuale di un presidente e quella delle vicende storiche rispetto alla biografia di un uomo che ha un ruolo tutt’altro che secondario nel forgiarle.
Lincoln vive nel passaggio dall’America dei pionieri a quella del lavoro industriale, della politica dei partiti e del nazionalismo. Egli incarna questa transizione anche dal punto di vista personale. Lincoln vive in primo luogo nel mutamento di una frontiera che oltre a essere un persistente mito fondativo, coltivato e costantemente riaffermato, assume una dimensione finanziaria, diviene uno spazio di guerra e luogo di incubazione di una guerra civile. Essa, infatti, diviene un capitolo importante del bilancio pubblico per il denaro garantito dall’assegnazione delle nuove terre. La frontiera meridionale è all’origine del nazionalismo statunitense che grazie alla guerra con il Messico che perde il 40% del suo territorio. La frontiera non è più solo lo spazio aperto dove possono scaricarsi tutte le tensioni sociali e politiche, ma è essa stessa un luogo di tensione che deve essere governato. Non è un caso che tra le cause scatenanti della guerra civile vi sia la pretesa di espandere la schiavitù anche nei nuovi Stati di frontiera, limitando il lavoro libero e modificando i rapporti di potere tra gli Stati settentrionali e quelli meridionali dell’Unione. Le proporzioni mitologiche assunte in seguito da Lincoln sono in gran parte legate alla sua capacità di confermare l’unità dello Stato all’interno di questi movimenti potenzialmente centripeti. Egli ci riesce nonostante abbia un rapporto eccentrico con la religione che Bonazzi individua come il più importante fattore costituzionale della vita individuale e collettiva.
Come aveva dimostrato in un volume precedente, negli Stati Uniti la religione è il nocciolo indiscutibile della costituzione sociale e politica. Essa stabilisce l’orizzonte di senso anche per un individuo come Lincoln che più incline a credere alla dottrina della necessità che è una prima forma di sociologia dell’azione sociale, perché afferma la priorità di catene di cause sottratte al potere degli individui. La sua freddezza nei confronti della religione lo obbliga a una sorta di confessione pubblica di fede per impedire che l’accusa di ateismo nuoccia alla sua campagna elettorale. Vi è dunque anche un’eccedenza della biografia rispetto alla storia collettiva che se è funzionale alla creazione del mito, porta anche alla neutralizzazione di Lincoln grazie alla sua canonizzazione. Subito dopo il suo assassinio viene definito il presidente redentore, riconoscendo in questo modo tanto la grandezza del suo ufficio quanto la necessità del suo sacrificio in omaggio alla drammaturgia cristiana della storia, che lui in qualche modo finisce per condividere. Cercando di darsi ragione del macello della guerra civile gli pare plausibile non solo che Dio non si sia schierato, ma che egli possa volere che essa «continui finché affondino tutte le ricchezze accumulate in duecentocinquant’anni di costrizione al lavoro e finché ogni goccia di sangue sparsa con la frusta sia pagata da un’altra pagata con la spada». Durante la guerra civile Lincoln dimostra di essere un politico capace tanto di assumersi il rischio della decisione quanto di cambiare le sue convinzioni.
Abolisce l’habeas corpus, decreta lo stato di emergenza nei territori disputati e li governa tramite governatori da lui nominati, introduce la tassazione progressiva. Allo stesso tempo modifica le sue convinzioni sui neri al punto da abolire quella «componente strutturale della «storia atlantica» e, con essa, della nostra modernità» che è la schiavitù. Essa non è dunque un prezzo occasionale pagato sulla via della libertà, ma il modo stesso in cui questa libertà è stata materialmente praticata. Come molti suoi contemporanei Lincoln vive all’interno di una sorta di schizofrenia antropologica che separa l’istituzione della schiavitù dagli schiavi che materialmente la subiscono. «Lincoln era certo dell’inferiorità dei neri» e solo la guerra civile modifica almeno in parte questa convinzione. Non è estranea a questo cambiamento di prospettiva l’adesione di Lincoln all’ideologia del free labor che aveva cominciato a diffondersi negli anni Trenta. Denunciare la «schiavitù del salariato», come fanno gli operai nelle prime vertenze sindacali, rivela la vicinanza tra la condizione degli schiavi e quella dei lavoratori. Rischia di rivelare che anche condizione degli operai bianchi è una costrizione. Vi è la profonda convinzione che il lavoro libero sia l’origine della ricchezza, perché nella libertà del lavoro c’è la possibilità che esso possa costantemente trasformarsi in capitale. L’indipedenza individuale diviene così il presupposto per la continua ricostruzione delle condizioni per l’accumulazione del capitale. Con la morte di Lincoln sia il free labour sia l’emancipazione del lavoro il pelle nera. Nell’elaborazione del mito emerge chiaramente che il Redentore assunto come riferimento è «il Lincoln del 1860, non quello del 1863, il Redeemer della patria bianca, non il Redeemer dei neri». L’abolizione della schiavitù scivola sullo sfondo delle cause della guerra di secessione, fino a quando nel 1896 la Corte suprema dichiara la costituzionalità della segregazione razziale.
Fonte: il manifesto
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