di Axel Evigiran
La questione si potrebbe riassumere nei seguenti termini: l'uomo sarebbe un lupo, per l'uomo, e lo stato di natura corrisponderebbe ad uno stato di guerra permanente. La guerra di tutti contro tutti, insomma. In questo si può riconoscere l'antropologia pessimista di Hobbes e la sua opera principale, il Leviatano. In contrapposizione a questo pregiudizio troviamo la visione irenica di un Rousseau, per il quale, al contrario, l'uomo è naturalmente buono ma viene corrotto dalla società.
Sembra quasi che si debba scegliere, in una linea che parte da Hobbes ed arriva a Rousseau, dove piazzare il cursore. Ma, davvero, la violenza e lo stato di guerra sono sempre esistiti? Cosa ne pensano gli archeologi e gli studiosi di preistoria, come ad esempio Marylène Patou-Mathis, la quale sull'argomento ha scritto un libro, « Préhistoire de la violence et de la guerre » (Odile Jacob 2013).
Cominciamo dal concetto di guerra, e diciamo da subito che la guerra, definita come uno stato di conflitto armato fra più gruppi politici costituiti, all'epoca dei cosiddetti "cacciatori-raccoglitori" semplicemente non esisteva! Se la definizione di "guerra" può variare a seconda dell'autore, lo spirito rimane il medesimo: è un atto di violenza che ha come sua caratteristica essenziale quella di essere metodica ed organizzata, ed è volta a costringere l'avversario ad eseguire la nostra volontà. Nel caso delle guerre cosiddette "tribali" si tratta allora di un "modo di risolvere una crisi intervenuta durante la conduzione di transazioni pacifiche, ossia come sostituto", e vanno distinte le "guerre sia difensive degli agricoltori che quelle offensive dei pastori - e quelle punitive nel nome del sovranno contro i vassalli refrattari".
Sappiamo dalle ricerche archeologiche che "nel corso del paleolitico, fra molte centinaia di ossa umane esaminate, solamente due attestano atti di violenza volontari". E sono stati perpetrati dall'uomo moderno (homo sapiens)".
La cosa ci porta a dedurre che "dalla rarità di lesioni sulle ossa umane e dall'assenza di rappresentazione di scene di combattimento nell'arte parietale o mobiliare, si può ragionevolmente pensare che la guerra non esisteva, tanto più che la bassa densità delle popolazioni e la loro ripartizione su un territorio vasto rendevano quasi nulla la probabilità che si siano verificati degli scontri".
"Il numero di siti preistorici nei quali sono stati osservati atti di violenza è basso in rapporto all'estensione geografica ed in rapporto alla durata del periodo considerato e, d'altra parte, se la violenza verso gli altri risale quanto meno a 120mila anni, questo vuol dire che la guerra non è sempre esistita."
Infatti, le prime tracce di violenza collettiva che sono state scoperte [N.d.T.: la prima traccia risale ad un periodo fra 13.140 e 14.340 anni fa: è in Europa, nel corso del neolitico, che le tracce di conflitti fra comunità diventano più frequenti], fanno coincidere l'inizio degli scontri intercomunitari con la sedentarizzazione avvenuta durante il neolitico antico. Intervengono, da una parte una crescita localizzata della popolazione che porta ad una crisi demografica e, dall'altra parte, lo "sviluppo dell'economia produttiva che ben presto genera un cambiamento radicale delle strutture sociali e delle credenze. Lo sviluppo dell'agricoltura e dell'allevamento si trovano probabilmente all'origine della divisione sociale del lavoro e dell'emergere di un'élite con propri interessi e rivalità". Va aggiunto che "presso i nomadi, la ricchezza ha necessariamente un carattere limitato, i sedentari, invece, possono accumulare beni materiali".
Per quanto riguarda la violenza, non bisogna confonderla con l'aggressività. Marylène Patou-Mathis insiste su questo punto: "L'aggressività è un comportamento innato che permette di salvaguardare un individuo o la specie dalla sua scomparsa. Biologicamente, di fronte ad una situazione pericolosa, il nostro cervello è programmato per mettere in atto immediatamente una reazione emotiva di sopravvivenza. (...) La violenza ed il suo sviluppo nel corso della storia derivano dalle strutture economiche, sociali, politiche e religiose della società. Talvolta patologica, la violenza proibita, imposta o autorizzata a seconda delle culture, è policausale e multiforme. (...) La violenza è soprattutto un comportamento indotto dalla società nella quale essa si inscrive."
Patou-Mathis è categorica: "Questa supposta violenza 'primordiale', così cara a René Girard è un mito". Va ricordato, per inciso che, secondo la teoria di Girard del "capro espiatorio’, la violenza è intrinseca all'essere umano ed è conseguenza della rivalità mimetica generata dal desiderio degli individui per degli stessi oggetti non condivisibili. Tuttavia, aggiunge l'autrice, "il meccanismo vittimario e la violenza mimetica, non spiegano in alcun modo i sacrifici rituali praticati in numerose società".
Quanto a Freud ed alla sua "orda primitiva", tesi barocca [N.d.T.: il termine è impiegato da Lévi-Strauss: per Lévi-Strauss, Freud è un esploratore dell'inconscio ed il suo pensiero è mitico come quello dei primitivi] che presuppone che i figli gelosi delle prerogative del padre si ribellino, lo uccidano e lo mangino nel corso di un pasto totemico, l'autrice sottolinea, non senza umorismo: "possiamo anche interrogarci sulla validità della tesi freudiana secondo la quale nei tempi antichi non esisteva una sola 'orda primitiva', ma molteplici. (...) Inoltre, secondo Freud, ciascun bambino conserva nel suo inconscio la traccia del peccato originale - la 'morte del padre' - colpa che non ha commesso, ma di cui porta la colpevolezza, in quanto trasmessa di generazione in generazione. Sapendo che i caratteri acquisiti non si trasmettono geneticamente, ci si può interrogare sulla validità della tesi di una trasmissione orale avvenuta nel corso di millenni."
Va anche notato che "contrariamente a quanto afferma la tesi di Freud, il tabù del cannibalismo non è affatto universale". Marylène Patou-Mathis tratta questo argomento nel suo saggio ed esplora i differenti tipi di cannibalismo che si possono trovare nelle epoche preistoriche, e distingue: il cannibalismo guerriero, il cannibalismo di vendetta ed il cannibalismo di terrore (eso ed endo-cannibalismo); ricordando che "talvolta di sussistenza, il cannibalismo è stato principalmente associato ai riti funebri".
Va detto innanzitutto che durante l'epoca preistorica dei cacciatori-raccoglitori, la premessa che di solito viene fatta - quella di un'economia di sopravvivenza - non si basa su alcuna realtà, né archeologica né etnologica. Moltissimi studi attestano il contrario, al punto che possono essere viste come società autosufficienti, dell'abbondanza, perfino del piacere. Questo punto è molto importante, in quanto altre ricostruzioni senza alcun fondamento reale vogliono modellare l'immagine che ci facciamo dell'uomo preistorico. Così, ad esempio, il postulato di Nietschze, che come Freud vede un periodo di diversità selvaggia precedente al periodo civilizzato, definito come apollineo, "l'era del dionisiaco immorale, dalla sessualità sfrenata, ancora una cosa sola con la natura, e simbolizzata dal coro di satiri per metà bestiali della tragedia greca".
La costruzione di una preistoria violenta, spiega Marylène Patou-Mathis, risale alla fine del 19° secolo: "Nel 1877, l'antropologo Abel Hovelacque vi consacra un'intera opera in cui descrive l'uomo primitivo, senza alcuna prova archeologica, come un essere quasi animalesco ricoperto di peli. Questa convinzione dell'esistenza di un "anello mancante" fra la scimmia e l'uomo verrà rafforzata dalla scoperta, nel 1891, sull'isola di Java, del Pithecantropus [N.d.T.: E' Haeckel che ritiene che sia dovuto esistere, fra l'uomo e le grandi scimmie, un essere intermedio cui dà, nel 1868, il nome di Pitecantropo]. (...) Da qui, si rappresentano o si descrivono, come dei bruti pelosi, degli 'uomini-scimmia'". Bisogna dire che a quell'epoca "le culture preistoriche, definite a partire dalla loro produzione industriale, vengono percepite come una sorta di livelli successivi di progressi tecnici, dando in questo modo una visione inferiorizzante della preistoria". Ora - e l'assenza di prove archeologiche che attesti una simile visione dei nostri lontani antenati, lo dimostra abbastanza - "la pretesa 'selvaggezza' dei preistorici è solamente un mito forgiato nel corso della seconda metà del 19° secolo e all'inizio del 20°, per rafforzare il discorso relativo al progresso compiuto dalle origini ed il concetto di "civiltà".
A questo punto della dimostrazione si potrebbe pensare, come sembrano dimostrare i dati archeologici e come lo pensavano, fra gli altri, i Cinici dell'Antichità, che la guerra e la violenza siano il prodotto delle società nelle quali si inscrivono. Ma, l'uomo come sarebbe? Naturalmente buono, o naturalmente cattivo?
A proposito dell'altruismo, l'autrice sostiene che "contrariamente alle teorie naturaliste, sono le emozioni, vecchie di milioni d'anni, all'origine delle qualità morali. Basate su delle fondamenta naturali, sono il prodotto dell'evoluzione, quindi molto precedenti ad ogni religione". Ed aggiunge che se "per Darwin, le qualità morali nascono dall'istinto sociale, da numerose ricerche nel campo delle neuroscienze, della primatologia o dell'archeologia, si dimostra che lo spazio umano è fatto naturalmente per la cooperazione, l'aiuto reciproco o la solidarietà, come atto risultanti da emozioni quali l'empatia, la compassione, oppure il rimorso".
Su questo argomento, Patrick Tort, nel suo "L'effetto Darwin", evoca l'effetto reversibile dell'evoluzione, così definendolo: "l'effetto reversivo dell'evoluzione è ciò che permette a Darwin di pensare il passaggio fra quello che si chiamerà per comodità ed approssimazione 'la sfera della natura', retta dalla rigida legge della selezione, e lo stato di una società civilizzata, all'interno della quale si generalizzano e si istituzionalizzano dei comportamenti diffusi che si oppongono al libero gioco di questa legge." Detto in altri termini, la "selezione naturale, principio direttivo dell'evoluzione che implica l'eliminazione dei meno adatti nel corso della lotta per la vita, seleziona nell'umanità una forma di vita sociale la cui marcia verso la civilizzazione tende ad escludere sempre più, attraverso il gioco collegato dell'etica e delle istituzioni, i comportamenti eliminatori".
Le scoperte archeologiche sembrano confermarlo: "I disabili dalla nascita non venivano più eliminati (come attestano i resti di un bambino di circa 400mila anni fa). Lo stesso avveniva preso i Neanderthal."
Quindi, se "secondo i dati archeologici, gli uomini preistorici del paleolitico vivevano senza violenza istituzionalizzata", e se "la guerra non è affatto indissociabile dalla condizione umana, ma è bensì il prodotto di società e di culture che la generano", nondimeno l'assenza di prove significa "la prova dell'assenza". C'è da dire che "40mila anni fa, la densità della popolazione era stimata in circa 10 abitanti per km2, forse ancora meno in certe regioni - la popolazione europea avrebbe raggiunto i 5milioni di abitanti circa 12mila anni fa".
Con una popolazione così scarsa si può pensare come fosse relativamente facile evitare i conflitti fra tribù. Inoltre se "per la più parte dei biologhi evoluzionisti, la cooperazione sarebbe un comportamento trasmesso di generazione in generazione", si può anche interpretarla come una necessità di sopravvivenza in un ambiente ostile nel corso del paleolitico. Ecco che qui l'altruismo o la cooperazione non sarebbero consustanziali all'essere umano, ma relativi ad un adattamento, sia ad un modo di esistenza che ad uno spazio dato.
Si può anche arguire che l'aggressività legata alla necessità di preservarsi avrebbe anche potuto far emergere nell'uomo una propensione alla violenza, una volta soddisfatte le condizioni societarie, e che se l'effetto reversibile dell'evoluzione ha potuto portare alla protezione dei più deboli, ha anche contribuito a produrre civiltà conflittuali e perfino estremamente violente. Perciò, né buono né cattivo, ma estremamente adattabile.
E' merito di Marylène Patou-Mathis dimostrare, prove archeologiche alla mano, che il mito ancora ben radicato del selvaggio intrinsecamente violento è per l'appunto solo e nient'altro che un mito. Contribuendo così a dare una visione più sfumata e più corretta dell'essere umano durante quelle epoche, permette che siano messe in discussione i preconcetti ideologici. Con bruciante attualità.
Articolo pubblicato su Sous un ciel brouillé
Fonte: blackblog francosenia
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