di Duccio Facchini
L’accoglienza è un diritto che l'Italia ha riconosciuto per legge. L’ha fatto con un decreto legislativo di cui si è poco dibattuto, datato 18 agosto 2015. È il 142, che è andato tecnicamente a recepire due direttive comunitarie (la 32/2013 e la 33/2013). Da quando è entrato in vigore, il 30 settembre scorso, forma e sostanza sono entrate in conflitto, generando non pochi paradossi. Interpretazioni normative tra loro diverse che riguardano non solo la vita dei richiedenti asilo -oltre 66mila le domande esaminate dalle Commissioni territoriali nel 2015, l’83% del totale di quelle presentate- ma l’intero “sistema dell’accoglienza”.
Un esempio aiuta a comprendere meglio. Per i disordini capitati dopo l’annuncio di uno sciopero della fame, 4 cittadini nigeriani richiedenti asilo ospitati all’Hotel Erba (Como, in gestione alla “Cooperativa Sociale Progetto Itaca Onlus”) si son visti notificare la “revoca delle condizioni di accoglienza” e accompagnare a forza alla stazione ferroviaria: “Abbandonare il territorio provinciale, grazie”.
Non sono stati espulsi perché la loro domanda di protezione è ancora valida -così come il permesso di soggiorno temporaneo che ne discende-, in attesa del giudizio della Commissione territoriale chiamata a valutarla (teoricamente entro sei mesi), ma se quelle quattro persone allontanate dal centro -e non dall’Italia- avessero voluto ricorrere contro il provvedimento del prefetto avrebbero dovuto farsi carico di un (oneroso) ricorso al Tribunale amministrativo regionale.
Non sono stati espulsi perché la loro domanda di protezione è ancora valida -così come il permesso di soggiorno temporaneo che ne discende-, in attesa del giudizio della Commissione territoriale chiamata a valutarla (teoricamente entro sei mesi), ma se quelle quattro persone allontanate dal centro -e non dall’Italia- avessero voluto ricorrere contro il provvedimento del prefetto avrebbero dovuto farsi carico di un (oneroso) ricorso al Tribunale amministrativo regionale.
Secondo l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI), obbligare a quel tipo di percorso “appare costituzionalmente illegittimo”, proprio perché l’accoglienza è un diritto e non “mero interesse legittimo”. Dire che “l’accoglienza è un diritto” significa, come illustra Gianfranco Schiavone -vice presidente di ASGI e presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati Onlus di Trieste- che “finalmente è stato riconosciuto il diritto all’accoglienza anche in pendenza di ricorso o in presenza di un’autorizzazione alla permanenza. Fino a quando non è stata presa una decisione definitiva sulla domanda del richiedente, l’accoglienza non può cessare”. Schiavone non si riferisce solo alla fase iniziale dell’iter -cioè al pronunciamento delle (venti) Commissioni territoriali chiamate a valutare le domande-, ma anche ai passaggi successivi. Se la Commissione dovesse respingere la domanda, infatti, al richiedente è riconosciuta la facoltà di ricorrere al tribunale di primo grado, alla Corte d’Appello e alla Corte di Cassazione.
Un’altra problematica è quella dei richiedenti asilo cui sia stato riconosciuto definitivamente il permesso di soggiorno per “motivi umanitari”. Secondo il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno, che ha emanato una circolare “esplicativa” delle nuove regole sull’accoglienza a fine ottobre 2015, al beneficiario di quel tipo di permesso “non possono essere assicurate le misure di accoglienza”, “salvo che lo straniero non presenti nuova domanda alle Commissioni territoriali”. La Prefettura di Torino ha preso alla lettera la “tesi” del ministero, comunicando formalmente ai referenti delle strutture di accoglienza temporanea che i cosiddetti “umanitari” “non possono permanere nelle strutture di accoglienza”. In provincia di Lecco ci si muove diversamente, garantendo a questa categoria di rifugiati “lo stesso trattamento degli altri”, come racconta ad Ae un operatore di una struttura che agisce in convenzione con la Prefettura.
Sempre a Lecco, però, il prefetto ha disposto la revoca dell’accoglienza a un richiedente asilo incappato nel doppio diniego da parte della Commissione territoriale prima, e poi del tribunale (in primo grado). Il punto è che in realtà, come spiega Schiavone, il sistema dovrebbe garantire l’accoglienza durante tutti i gradi di giudizio, fino in Cassazione. Tutto ruota intorno alla cosiddetta “sospensiva”. Secondo l’interpretazione ministeriale della nuova legge, infatti, il ricorso contro una decisione di rigetto che per la seconda volta ha dichiarato inammissibile la domanda “non sospende l’efficacia del provvedimento impugnato”, cioè il diniego alla domanda di protezione. Quindi, sempre secondo Viminale, “il ricorrente (in appello, ndr) non ha diritto alle misure previste dal decreto legislativo” (come avvenuto a Lecco). E non è neppure certo che ne possa beneficiare se il giudice di secondo grado dovesse accogliere l’istanza di sospensiva.
La nebbia s’infittisce anche per Silvia Turelli, operatrice della cooperativa K-PAX Onlus di Breno (BS), protagonista di un lungimirante progetto di accoglienza diffusa in Valle Camonica che ha conquistato anche l’attenzione del quotidiano francese Le Monde. Turelli sta cercando di orientarsi nelle “zone grigie della normativa”, dov’è possibile incontrare -come racconta ad Ae- un “ricorrente in appello (la cui richiesta di sospensiva è stata respinta dal giudice) che porta avanti una pratica di riconoscimento di status di rifugiato senza poter restare sul territorio italiano, lasciando così seguire il tutto da un avvocato, su mandato”.Si tratta della cosiddetta fase “b” dell’accoglienza, che si sta svolgendo nella confusione delle regole e nella pressoché totale impreparazione delle strutture del nostro Paese. Secondo la Fondazione Migrantes, infatti, “rispetto ai 153mila sbarcati, sono accolti in Italia, nelle diverse strutture, al 1 gennaio 2016, 103.792 persone. Nella rete di primissima accoglienza sono presenti 7.394 persone (2mila in meno rispetto allo scorso anno). Nelle strutture temporanee di accoglienza sul territorio nazionale sono oggi ospitate 76.394 persone, oltre il doppio rispetto allo scorso anno. Nel Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), cioè strutture di seconda accoglienza degli asilanti (sic) e rifugiati, sono accolte 19.715 persone”.
Questi dati mostrano che la straordinarietà è la norma e la regola l’eccezione. “Lo SPRAR dovrebbe contare su risorse notevolissime -spiega ad Ae Paolo Bonetti, professore associato di Diritto costituzionale all’Università Milano-Bicocca-, che invece non ha. Così com’è il sistema italiano di accoglienza viola la Direttiva comunitaria che prescrive ad ogni Stato di assicurare strutture dignitose con precisi requisiti, prevedendo deroghe -come il ricorso a strutture straordinarie- solo in casi di afflussi eccezionali. In Italia è il contrario”.
I Comuni, del resto, non sono obbligati ad accogliere i potenziali richiedenti ma sono semplicemente incentivati a farlo attraverso bandi ricorrenti (l’ultimo scade il 14 febbraio 2016). Per questo, lo SPRAR riguarda oggi 434 progetti e coinvolge appena 382 enti locali in tutto il Paese. Nonostante le mancanze del sistema, riescono a fiorire buone pratiche. K-PAX, ad esempio, già al lavoro su una guida multilingue per l’orientamento legale dei richiedenti, si è immaginata la fase “c” dell’accoglienza, una volta ultimato il percorso. “Vi sono soluzioni studiate ad hoc sul progetto individuale di un ragazzo la cui accoglienza istituzionale giunge al termine ma sta svolgendo attività formative o lavorative sul territorio (il decreto 142 prevede la possibilità per l’interessato di lavorare due mesi dopo la presentazione della domanda di protezione, prima erano 6, ndr) -spiega Turelli-. In tale caso è possibile inserirlo in una delle strutture in affitto alla cooperativa facendolo compartecipare alle spese con una quota di 100 o 120 euro al mese, dal momento che accedere al mercato privato degli affitti non è semplice per chi non ha un lavoro fisso o non ha la possibilità di versare la caparra”. Non solo. Dal momento che oggi il sistema italiano “cessa l’accoglienza una volta avvenuto il riconoscimento di rifugiato o meritevole della protezione sussidiaria”, come spiega Schiavone di ASGI, K-PAX ha deciso di partecipare al progetto “OIKOS-Rifugiati in famiglia”, che prevede, sia per i richiedenti asilo sia per i già riconosciuti rifugiati, la possibilità di essere ospitati “per un massimo di 6 mesi” da famiglie residenti sul territorio di Brescia e Provincia. Un tentativo di superare l’emergenza. “Che non è quella dei richiedenti asilo -precisa Bonetti-: siamo noi”.
Fonte: Altreconomia
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