Intervista a Giuseppe Vacca di Matteo Giordano e Tommaso Sasso
Giuseppe Vacca è il presidente della Fondazione Istituto Gramsci. Autorevole studioso del pensiero di Gramsci e della storia del comunismo italiano, Vacca è stato docente universitario e ha ricoperto numerosi incarichi in ambito culturale e politico. Tra gli scritti recenti di Vacca possiamo citare Vita e pensieri di Antonio Gramsci. 1926-1937 (Einaudi 2012), Togliatti e Gramsci. Raffronti (Edizioni della Normale 2014) e Moriremo democristiani? La questione cattolica nella ricostruzione della Repubblica (Salerno Editore 2013). Abbiamo deciso di intervistarlo nel solco di un lavoro di approfondimento sulle radici di alcuni problemi del presente, interrogandolo in particolare sulla fase neoliberista, sulle origini delle difficoltà delle culture politiche della sinistra, sulla fortuna e sull’importanza delle figure di Gramsci e Togliatti e su alcuni caratteri della fase attuale. Questa intervista è a cura di Matteo Giordano e Tommaso Sasso, con la collaborazione di Giacomo Bottos e Lorenzo Mesini.
La crisi attuale, oltre alla sua dimensione economica ha anche mostrato il carattere ideologico della dottrina neoliberale, ai cui assunti di fondo la sinistra, in particolare quella europea, è stata per molti anni subalterna culturalmente prima ancora che politicamente. Cosa ritieni ci sia stato alla base di questo pressoché totale appiattimento? Come si spiega il suo deficit di autonomia intellettuale, la sua incapacità di articolare una lettura propria della storia recente?
"Io non credo che il socialismo europeo nel suo complesso sia stato subalterno alla cultura neoliberale. I tentativi che più vengono qualificati in tal senso (dal blairismo allo zapaterismo) volevano piuttosto tener conto della vitalità, nel suo mutare, della cultura liberale. Essa è un punto di confronto da sempre nella storia della sinistra in Europa, a cominciare da Marx.
Il problema è dunque un altro: se il socialismo europeo sia stato in questa avventura un soggetto primario, autonomo e capace di egemonia oppure no. A mio avviso non lo è stato, non per subalternità al cosiddetto neoliberalismo, ma per incapacità di esprimere una visione generale su come l’Europa potesse stare nella globalizzazione avendo un ruolo significativo e crescente. È un’incapacità emersa nei grandi passaggi che hanno segnato la fine della guerra fredda, l’unificazione tedesca, la fine del bipolarismo, e infine la costruzione europea. Possiamo anche dirla così: il socialismo europeo non ha espresso una leadership (come lo era stata, per citare l’ultima, quella di Willy Brandt) che potesse contendere la guida del processo. I grandi leader socialisti europei successivi a Brandt, dalla seconda metà degli anni ’70 in avanti, sono stati tali nella sfera nazionale, non in quella internazionale, mentre la dimensione del processo era appunto internazionale e globale. Per questo il socialismo europeo non è riuscito a districarsi da un contesto di vincoli in cui l’agenda è stata saldamente nelle mani delle forze moderate e conservatrici."
A tal proposito, quale lettura dai del processo di mondializzazione avviato negli anni ’80? È un risultato necessario e inevitabile della transizione dal modello fordista dell’accumulazione a quello finanziario o un strumento funzionale all’affermazione di una nuova forma di egemonia che può essere compresa in una logica di scontro di classe?
"Comincerei con il dire che la crisi del fordismo è stata pilotata. Se ne comincia a discutere negli USA tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70, con l’avvento di un’ultima grande Presidenza strategica: Nixon e Kissinger.
Essi disegnano gran parte dell’agenda mondiale dei decenni successivi. Iniziano dividendo definitivamente la Cina dall’Urss, per poi accelerare il mutamento del paradigma tecnologico e quindi il passaggio alla composizione demografica tipica di una società dell’informazione. Vengono così poste le basi per la rapida erosione del peso sociale e politico conquistato dalla classe operaia nel lungo ciclo fordista. Nello stesso tempo mettono fine al sistema di Bretton Woods e esaltano il signoraggio del dollaro, che con politiche di apprezzamento o deprezzamento può drenare risorse internazionali verso i punti di forza dell’industrialismo americano dislocati sulle frontiere della nuova competizione internazionale. È in questo quadro che si innesca la degenerazione, o meglio l’ipertrofia, della cosiddetta economia finanziaria, sconnessa da i tempi e da i modi dell’economia reale. Non dimentichiamo però che si tratta di scelte politiche indispensabili alla creazione di nuovi equilibri rispetto a quelli che si erano affermati nei «trenta gloriosi» (1945-1975). Il ritorno alla competizione e all’instabilità dell’economia mondiale, caratterizzato da acuti conflitti tra i Paesi più forti, presuppone lo sganciamento del capitale finanziario dal controllo politico. Andrebbero poi analizzate per periodi e per tappe le fasi successive per capire come e con chi, con quali Presidenze americane, dentro quali contesti internazionali, scorre il trentennio che vede, come dicevo, la fine della guerra fredda, poi quella del bipolarismo, quindi l’ascesa della Cina grazie alle riforme di Deng e infine la nascita del WTO, l’ingresso in esso della Cina e le rivoluzioni democratiche in America Latina. Un trentennio, insomma, all’insegna di una crescente complessità, di una globalizzazione asimettrica e segnata da grandi conflitti economici in cui da un certo punto in avanti la finanza acquista un ruolo esorbitante, eccessivo e negativo, che innesca una sequela di crisi. Esse cominciano già negli ultimi anni ’90 e hanno poi come epicentro l’esplosione della bolla finanziaria americana e della Clintonomics, in un quadro in cui gli Stati Uniti diventano il maggior debitore del mondo, e lo sono tutt’ora. Furono queste novità ad aprire la strada negli USA a una nuova destra, quella di Bush jr. Essa, come sappiamo, mise in campo per il post-guerra fredda una nuova coppia amico-nemico che ha favorito la radicalizzazione del fondamentalismo islamico e acceso, con la guerra in Iraq, l’incendio del mondo arabo-islamico. Perché getto lo sguardo su una temporalità così lunga? Per ribadire che il processo è molto complesso e non si può considerare il capitale finanziario come soggetto egemonico, impegnato magari in uno scontro di classe. I soggetti egemonici sono sempre politici. Gli attori del mondo che è venuto fuori in questi ultimi anni sono grandi potenze politiche, come gli USA, la Cina, la Russia, la Germania, etc. Non l’Europa, perché non è in grado di elaborare una sua sovranità."
Il passaggio storico degli anni Settanta che vede maturare a livello globale i presupposti storici dell’egemonia neoliberista a cui abbiamo accennato, rappresenta per l’Italia un cruciale momento di transizione. Da un lato la forza del movimento operaio sembra raggiungere il suo apogeo, dall’altro il decennio si conclude con la repentina eclissi delle sue fortune. Quali sono le cause di questa vicenda, dai tratti apparentemente contraddittori? La “sinistra” era consapevole dei mutamenti in atto sul piano socio-economico a livello globale?
"La mia impressione è che complessivamente la sinistra non sia stata un attore primario, sul piano teorico e analitico, del cambiamento che inizia negli anni ’70. La parte preponderante della sinistra italiana era sì abituata a ragionare mondialmente, ma non possedeva un’analisi valida del processo mondiale. Fino al ’73-’74, la riposta prevalente delle Sinistre in Europa era che si potesse aprire un nuovo ciclo socialista. Nasce l’eurosocialismo, si prepara la nascita dell’eurocomunismo, e si avviano alla caduta i regimi autocratici in Portogallo e in Spagna. Ma nel giro di due anni vengono però fatti fuori i principali leader di quella fase, a cominciare da Willy Brandt.
Non a caso, già nel ’74 Schmidt segue un’altra strategia: fare cioè dell’SPD un attore della potenza tedesca. Il disegno si fonda su una convergenza e un’intesa con gli Stati Uniti, che si delinea al tempo della conferenza mondiale per l’energia voluta da Kissinger, e mette in campo, attraverso il Fondo monetario internazionale, un modello di gestione delle crisi – si chiamerà in seguito Washington Consensus – che verrà sperimentato innanzitutto in Italia nel 1976. Mi riferisco a quelle politiche di austerità che poi si imporranno nell’Ue di Maastricht creando uno spazio geopolitico asimmetrico e sempre più dualistico, dominato dalla potenza economica della Germania."
Di recente hai curato, insieme a Michele Ciliberto, una importante raccolta di scritti di Palmiro Togliatti, uscita nella collana “Il Pensiero Occidentale” di Bompiani. Per te Togliatti è sempre stata una figura di riferimento. Quale significato ha, secondo te, riproporre oggi la figura di Togliatti? Qual è la sua attualità? In che misura può essere considerato non solo un grande politico, ma anche un grande pensatore?
"Per dirla in termini semplici abbiamo provato a isolare, nella misura in cui è legittimo, la figura di Togliatti rispetto a una storia politica collettiva del ‘900 alla quale è stato intrinseco e di cui è stato protagonista, dal ’46 in avanti. Al fine, come ho avuto modo di spiegare in diverse altre occasioni, di offrire alla discussione e anche alla verifica una dimensione che a nostro avviso era ed è essenziale, quella dello spessore intellettuale e strategico di Togliatti. La ricchezza di Togliatti sul piano del pensiero politico, della visione storica e culturale, del modo di interpretare il marxismo e di leggere il Novecento, è una lezione di grande interesse per chiunque. Togliatti è stato il leader dell’unico partito comunista che abbia concorso a dar vita a una repubblica democratica secondo i canoni del costituzionalismo europeo. Non si tratta di un incidente della storia, circoscrivibile nell’ambito di condizioni eccezionali che lo avrebbero reso possibile o addirittura imposto a un politico accorto.
Si tratta invece di una creazione, ricca di intuizioni ed idee fondamentali. Idee della democrazia, del ruolo del movimento operaio, del mondo successivo alla seconda guerra mondiale, della questione cattolica, che andava al di là del far politica e della sapiente dotazione di una politica ecclesiastica. La politica di Togliatti scaturisce da una percezione precoce di cosa è il mondo dell’interdipendenza e di quali sfide nascono con l’era atomica.
È insomma un’intuizione precoce del modo in cui l’evoluzione della modernità richiedesse un nuovo pensiero capace di andare oltre la tradizione dell’illuminismo. Questa dimensione rappresenta un patrimonio da spendere e una fonte ricca di energie valide per la politica dei nostri tempi."
Cosa ha significato per l’evoluzione della democrazia italiana la “funzione nazionale” dei comunisti voluta da Togliatti?
"Ve lo dico in termini estremamente abbreviati. Se negli anni più duri della guerra fredda, essendo noi un Paese di frontiera che per almeno due decenni si è potuto giovare di un grande alleato internazionale (gli USA e la loro politica mediterranea), la presenza del più grande partito comunista di Occidente non è stata di ostacolo allo sviluppo del Paese; se nel passaggio dalla stabilità al conflitto economico mondiale l’Italia, pur trovandosi nella tempesta, ha potuto affrontare l’emergenza degli anni ’70 senza mettere in discussione i fondamenti della democrazia repubblicana; se alla fine della prima Repubblica gran parte delle forze che continuano a fare la storia della democrazia italiana hanno una determinata origine, tutto questo lo dobbiamo al PCI togliattiano e berlingueriano, oltre che alla storia del cattolicesimo democratico."
In che momento entra realmente in crisi secondo te l’esperimento sovietico? Quando poi l’URSS crolla definitivamente, finisce con essa anche l’idea del comunismo? Oppure pensi che essa mantenga un suo significato nella lettura del processo storico?
"Nel bene e nel male, il mondo sovietico più che un’idea del comunismo ha rappresentato un’idea del socialismo, in competizione e in alternativa con quelle della socialdemocrazia.
Entra in crisi già nel decennio successivo alla morte di Stalin, perché le sue risorse strategiche non sono convertibili in risorse egemoniche rispetto all’enorme realtà di popoli e di spazi conquistati e apparentemente condotti ad unità fra il ’45 e il ’49. Dopo la vittoria della rivoluzione in Cina, il movimento comunista internazionale avrebbe potuto essere tenuto insieme se avesse dimostrato di essere capace di lanciare una sfida egemonica al mondo occidentale. Ma questo non avvenne e forse non poteva avvenire.
Quando nel 1959 quell’apparente unità si incrinò definitivamente, la credibilità del movimento comunista come portatore di una modernità alternativa venne colpita a morte. La classe operaia, nei panni del movimento comunista, non era più in grado di proporsi come il soggetto di un nuovo universalismo, più inclusivo, più emancipativo, più ricco di quello borghese. Non a caso, iniziò anche a svilupparsi una divaricazione con le rivoluzioni anticoloniali e con il cosiddetto mondo dei non allineati. Dunque è da allora che si apre la crisi del progetto di unificazione del mondo secondo un modello di modernità presuntivamente alternativo. Ne è passato di tempo, stiamo parlando di 60 anni fa. Ma in prospettiva storica quello che è finito è il socialismo, poiché non ha avuto un respiro sovranazionale e globale. Ed è ovvio che questo vale innanzitutto per la parte comunista. Ma se dovessimo tradurre in termini di linguaggio storico-politico i processi e le sfide mondiali della globalizzazione, se ci potesse essere la ripresa di una lunga tradizione europea, occidentale e infine mondiale, che ha camminato per più di due secoli con le forme delle rivoluzioni liberali, del movimento socialista e comunista, e delle rivoluzioni anticoloniali, cioè l’idea di una possibile unità del genere umano come risultato del suo autonomo sviluppo, dovremmo tornare a parlare, in modo del tutto nuovo, di comunismo. e base di un processo di unificazione anche spirituale, tutto questo è il comunismo. Dunque la storia del comunismo comincerebbe dopo la fine del socialismo reale e della dimensione paradossalmente prevalentemente nazionale della politica."
Nell’89 ti schierasti a favore della Bolognina e al superamento del Partito comunista italiano. Quella svolta fu accusata di improvvisazione, nonostante maturasse da tempo, e di mancanza di un disegno politico che prendesse le mosse da una rinnovata analisi circa il nuovo contesto globale e le prospettive del capitalismo in Italia e nel mondo. Vorremmo che ripercorressi le ragioni di quella scelta.
"Col senno di poi le ragioni fondamentali di quella scelta, al netto di come fu compiuta, erano giuste ed erano quelle essenziali. Era giusta l’intuizione, che già andava maturando negli anni precedenti, secondo cui ciò che serviva al PCI era una ricollocazione internazionale. Era infatti più che logora una collocazione atipica e pur sempre legata al campo del comunismo sovietico. Con la svolta della Bolognina il processo di adesione al PSE si compie, sancendo la linea già delineata nel Congresso di Firenze del 1986.
A fronte delle ragioni legate alla collocazione internazionale, vi fu finalmente la presa d’atto che il decennio degli anni ’80, di stagnazione politica e di accelerazione di processi corruttivi e degenerativi, era stato quel che era stato anche per responsabilità del PCI e della sua inadeguata opposizione.
C’era da contrastare la degenerazione del sistema democratico, c’era da ripensare in termini competitivi i punti di forza dell’industrialismo italiano, da rilanciare una proposta riformatrice degli apparati della riproduzione, e potrei continuare a lungo.
A fronte dell’incapacità di tracciare una rotta lungo questi e altri binari, intuire in extremis che qualcosa era ancora nelle mani del PCI e quindi oggetto dell’esercizio della sua libertà ed autonomia non fu cosa da poco. Riuscimmo così a superare uno schema in cui la legittimazione di un certo sistema politico si fondava sulla presenza di un certo partito comunista. Questo è l’altro elemento che al di là della retorica di allora, da me mai condivisa, del carattere salvifico di un atto fecondo, mi porta a pensare che meno male che si fece quel che si fece. Forse si poteva fare meglio, ma le responsabilità furono di tutti."
Tornando al momento presente, la sinistra soffre indubbiamente della mancanza di un mito di mobilitazione di massa di cui invece dispongono altre tradizioni politiche, penso alla liberazione dell’individuo da ogni tipo di vincolo. Quale è secondo te il terreno su cui provare a costruirne uno capace di dotare la nostra parte della necessaria autonomia?
"Un nuovo mito fondante è certamente la democrazia. Però non lo metterei in contrapposizione con alcuni degli elementi distintivi della contemporaneità a cui abbiamo accennato, però. Prendiamo il riferimento della nostra retorica: il mercato finanziario e la sua espansione. L’andamento quotidiano degli investimenti finanziari e del mercato azionario è o non è un aspetto della diffusione della democrazia? Crea o no la possibilità di prendere decisioni e assumere comportamenti, anche se su un piano scelto dal capitale? Da questo punto di vista, l’influenza dei cittadini sull’andamento dell’economia è molto maggiore di quarant’anni fa e si esercita in modo più differenziato ed esteso su scala mondiale. Quando si discetta di partecipazione e non partecipazione, di libertà e di mancanza di libertà, bisogna mettere nel conto anche questo.
Oppure consideriamo la diffusione e l’intreccio sempre più stretto dei nuovi mezzi di comunicazione e dei nuovi linguaggi, che mettono in rete milioni di individui sollecitandone l’opinione. Agli inizi della rivoluzione informatica, dominava una retorica secondo la quale si sarebbe finalmente arrivati ad una società “orizzontale” e alla democrazia dell’informazione. Gli esiti sono stati completamente diversi, ma lo sviluppo della comunicazione democratica è innegabile. Le forme di partecipazione che ho nominato sono individuali o collettive? Entrambe le cose. Quindi come ci si colloca, con una propria agenda, nello sviluppo di queste nuove forme della soggettività? Anche se sono di impronta complessivamente individualistica, da questa realtà può crescere un individualismo comunicativo che corrisponde alla ricchezza potenzialmente infinita dei processi di differenziazione e di elaborazione della soggettività."
De Tocqueville affermava qualcosa di simile prima ancora di Gramsci, se vogliamo.
"Senza le rivoluzioni borghesi ed il pensiero liberale, Marx non sarebbe esistito. Il suo pensiero altro non è che una critica del pensiero liberale (dall’economia, al diritto, alla politica) e si sviluppa in un confronto senza fine con il liberalismo. Sono le due facce della modernità occidentale, quella individualistica e quella societaria: due facce di una dialettica, («l’insocievole socievolezza» di Kant) che caratterizza la società moderna, costitutivamente plurale, ben oltre l’opposizione primaria tra “borghesi” e “proletari”.
Nelle sedi moderne tutti utilizzano la democrazia come mito di mobilitazione di massa: noi siamo chiamati a dire qual è il nostro “mito” democratico. Per molti decenni, era la determinazione reciproca tra democrazia e socialismo a fare la differenza. Ora non è più così semplice."
Nella crisi della modernità di cui stiamo parlando, colpisce la rinnovata importanza acquisita dal rapporto tra politica e religione, e non solo in Medioriente. Che interpretazione dai della politicizzazione del Religioso in atto? Che ruolo gioca in società sempre più in balìa dell’instabilità e del rischio?
"Per chi si rifà alla nostra storia, è la scoperta dell’acqua calda. Alle origini del comunismo gramsciano c’è anche la critica dell’anticlericalismo socialista. Il riconoscimento della funzione civile e positiva della religione è un cardine del pensiero di Gramsci, anche se pensa che comunque il progresso della modernità avrebbe dissolto le religioni rivelate. In Togliatti poi, il riconoscimento del fatto che l’Italia è un Paese cattolico e che questo non costituisce un ostacolo allo sviluppo della democrazia e del socialismo, è presente fin dal ’44. Togliatti dota il movimento operaio italiano di una politica ecclesiastica fin dal ’29 e negli anni Trenta, dal Komintern, è probabilmente il principale stratega della politica della “mano tesa” ai cattolici, che sarà un tratto saliente del fronte popolare in Francia nel ’36 e della politica di unità antifascista in Italia. Nel ’58 teorizzerà in Italia l’inclusione non solo dei cattolici, ma anche del Vaticano. Ancora più importante, a mio avviso, è come legge il rapporto tra religione e modernità. Nel ’45-’46 comincia a sostenere che non è vero che la religione sia solo una sopravvivenza pre-moderna, e nella conferenza ‘Il destino dell’uomo’ (marzo 1963) affermerà che la concezione della religione sia dell’illuminismo che del «materialismo» ottocentesco era sbagliata e i comunisti italiani l’avevano abbandonata da tempo. Credo che in quella critica includesse anche Gramsci.
Quelle affermazioni scaturiscono da una lettura molto più avanzata della modernità, che non si declina a cicli, i quali si aprono e si chiudono a discrezione del Politico, e pone nell’alleanza tra credenti e non credenti il fondamento al quale risalire per raccogliere di volta in volta le forze necessarie ad affrontare le sfide della globalità. Togliatti, nel ’45, è tra i pochi leader politici e grandi intellettuali che capiscono cosa cambia nella storia dell’umanità con l’inizio dell’era atomica. Dal ‘56 egli sviluppa l’intuizione delle sfide della globalizzazione, giungendo alle revisioni accennate del modo di pensare la politica e la morale. Egli dunque ha insegnato a risalire alla matrice religiosa di qualunque fenomeno culturale e questa, a mio parere, è una lezione eccezionale."
Quali motivazioni adduci alla tua convinzione secondo cui le divisioni tra credenti e non credenti costituiscono l’ostacolo forse più grande all’unificazione del genere umano?
"Quando si rompono equilibri politici globali, le forme della guerra che riemergono sono quelle delle guerre di religione. Oppure, se sui confini che solcano il mondo premono miliardi di uomini, ciascuno con la propria fede, e si precipita in nuovi conflitti le risposte della politica non ci sono o sono inadeguate, rinascono le guerre di religione. È troppo facile dire come che l’Europa le ha vissute nel passato, ora le sta vivendo l’Islam. È uno stupido e futile determinismo storico. Adesso che l’Islam è in casa nostra, ammesso e non concesso che il modo in cui l’Europa moderna superò il dramma dell’ex guerre di religione possa costituire un modello, si tratta di reimpostare il problema rispetto alla pluralità di religioni che si incontrano e scontrano su scala planetaria, perché questo è il mondo che emerge dalla globalizzazione. Per questo dico che riducendo all’essenziale elementi di divisione, emergono in primo luogo le fratture tra diversamente credenti e tra credenti e non credenti. Il discorso vale anche per le religioni civili: anche il “professare” diverse religioni civili torna a dividere credenti e non credenti, generando derive fondamentalistiche non meno tragiche di quelle sviluppatesi in seno alle fedi religiose."
La figura e il pensiero di Antonio Gramsci sono oggetto di una grande attenzione e fortuna a livello internazionale. In quanto studioso e presidente dell’Istituto Gramsci per una lunga stagione, tu hai seguito da vicino e sei stato un protagonista dell’evoluzione degli studi gramsciani nel nostro paese. Quali prospettive vedi in merito? Assistiamo e assisteremo ad un aumento dell’interesse per Gramsci? Se sì, sotto quali aspetti?
"Ancora oggi continua a crescere l’interesse per Gramsci: in Cina hanno tradotto le Lettere e messo mano ai Quaderni. I Quaderni in edizione critica sono tradotti in tedesco, inglese, francese, giapponese. Scritti o antologie sono tradotti in 45 lingue. Noi abbiamo appena pubblicato un’antologia degli studi su Gramsci in Gran Bretagna e stiamo lavorando ad un volume antologico sulla presenza di Gramsci nel mondo arabo-islamico, avendo già in cantiere la Francia, l’India e gli USA. Naturalmente, dall’osservatorio dell’Istituto Gramsci, nonostante le sue interazioni internazionali e le collaborazioni con i paesi europei, gli Stati Uniti e l’America Latina, non riusciamo a vedere tutto, sebbene ci arrivi molta informazione relativamente a tutto ciò che si pubblica su Gramsci nel mondo. Ma tutto ci dice che questo fenomeno, nato negli anni ’80, non solo continua e si accresce, ma comincia anche uno sviluppo degli studi gramsciani di seconda generazione: così come i cultural studies, partendo dall’Inghilterra, hanno avuto significativi sviluppi in diverse aree del mondo, anche la teoria delle relazioni internazionali è influenzata dal concetto gramsciano di egemonia, sopratutto nel Nordamerica. Lo stesso vale per gli studi linguistici (il paradigma gramsciano della «traducibilità dei linguaggi») ed il nodo del rapporto tra lingue e nazionalità, o ancora per l’uso della categoria di rivoluzione passiva impiegata per pensare determinate epoche di passaggio da una situazione ad un’altra, o per ripensare le proprie storie nazionali (sopratutto in America Latina). Infine, c’è anche una diffusione dei nuovi studi gramsciani italiani, cioè una ripresa di studi rigorosi sotto il profilo filologico, storico e teorico, alimentata dagli studiosi coinvolti nell’edizione nazionale degli scritti di Gramsci e dai seminari dell’IGS sui Quaderni. Esso comincia a produrre generazioni di studiosi gramsciani che interloquiscono principalmente con queste nuove linee della ricerca gramsciana italiana."
Nei tuoi scritti si legge che è necessario saper maneggiare il linguaggio delle narrazioni dominanti e provare a “straniarlo”. Cosa ti porta, da storico gramsciano, ad assegnare al “lavoro da fare sulle parole” un’importanza di primo piano?
"Faccio il primo esempio che mi viene in mente: il libro di Francesco Cundari “Comunisti immaginari”, uscito pochi anni fa, ruota tutto intorno all’uso delle parole. Lo fa per ricostruire la sedimentazione di un immaginario comunista nel tempo, che sopravvive alla vicenda del partito che lo aveva alimentato.
Il fenomeno si spiega con un concetto tipicamente gramsciano, e cioè che nella lingua dei parlanti è sempre presente – consapevolmente o meno – una visione generale del mondo (una filosofia). Essa è il risultato di confronti, scontri, conflitti e combinazioni che si distendono nel tempo e costituiscono l’insieme dei linguaggi imprescindibile per qualunque operazione narrativa, chiunque l’intraprenda, e per quanto dirompente possa essere lo “spirito di scissione” che lo anima. Ma altri che da Gramsci, conviene andare a lezione dalla Chiesa cattolica, maestra insuperata delle narrazioni, del simbolico e dell’uso delle parole."
Fonte: Pandora Rivista di Teoria e politica
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