di Massimiliano Lepratti e Roberto Romano
Sebbene lo scandalo delle emissioni truccate del gruppo Volkswagen sia l’aspetto più evidente e truffaldino di un tentativo conservativo operato da larga parte del settore automobilistico, la necessità di un cambiamento tecnologico, dettato dalle politiche ambientali europee e statunitensi, cambieranno il segno (contenuto) della produzione di automobili e del trasporto in generale. Le implicazioni sociali, economiche, industriali e ambientali sono inedite e, per alcuni versi, paradigmatiche.
Sul tema, l’associazione EStà di Milano ha realizzato una ricerca per conto della Fiom Cgil Lombardia. Il primo e indiscutibile risultato della ricerca è legato alla scomparsa della produzione dall’Italia delle autovetture. Gli anni d’oro sono passati e non ritorneranno mai più, ma il paese potrebbe giocare un ruolo non banale nella componentistica di settore.
Dinamica e struttura del settore automotive
L’automotive è interessata da due trasformazioni: 1) la formazione di grandi oligopoli sovranazionali; 2) la rivoluzione tecnologica legata allagreen economy. Relativamente al primo aspetto dobbiamo esaminare i mutamenti di struttura del mercato dal lato della domanda e dal lato dell’offerta. La domanda si allarga ai paesi Brics ed emergenti, mentre nei paesi della Triade i veicoli ad alimentazione alternativa registrano un significativo aumento, pur partendo da numeri molto bassi.
Dal lato dell’offerta, è iniziata una partita gigantesca. Tra il 2007 e il 2014 la produzione automotive passa da 73.237.724 a 90.015.919 unità, con una crescita del 30%. Il risultato è eclatante se consideriamo che la produzione industriale dei paesi Ocse è aumentata solo del 2,6%, ma coerente con la crescita della produzione industriale mondiale del 20% (Banca Mondiale). Cambia anche la geografia del lavoro tra il 2000 e il 2014: la produzione cinese passa dal 3,5% al 26,4% di quella mondiale, entrando a pieno titolo nel processo di ri-strutturazione del settore assieme a Stati Uniti, Giappone e Germania, ovvero i Paesi che condizioneranno lo sviluppo e il futuro del settore.
In Europa, la Germania ha sussunto gran parte della produzioneautomotive europea: dal 1999 al 2014 la produzione tedesca passa dal 33,6 al 44,3% totale; quella francese si dimezza, mentre l’Italia scompare dai radar europei. Sebbene la produzione (automotive) aggregata sia un buon indicatore del livello di concentrazione del settore societario, per comprendere alcune strategie delle società è necessario dividere la produzione in veicoli commerciali-autocarri e vetture. Se consideriamo la produzione di vetture, i principali attori sono Volkswagen, Toyota, GM, Hyundai, Nissan e Ford; se consideriamo la produzione di veicoli commerciali i principali attori sono GM, Fca-Fiat, Ford e Toyota.
Questa distinzione permette di comprendere la scelta di Marchionne di andare negli Stati Uniti, che, evidentemente, non è legata alla produzione di vetture. È infatti troppo grande la distanza che separa Fca-Fiat da Toyota, Volkswagen, GM, Hyundai, Ford e Nissan, diversamente dai veicoli commerciali in cui gioca un ruolo importante. Con GM e Ford, cioè gli Usa, rappresenta quasi due terzi della produzione internazionale.
In questo contesto, il futuro industriale italiano è marginale. Alle attuali condizioni di mercato – globalizzato –, la dimensione minima di produzione per competere oscilla tra i 5-7 milioni di pezzi. L’Italia nel 2014 realizza poco meno di 700mila unità, un livello che inibisce qualsiasi dinamica di struttura, nonostante il trend delle auto a metano e la produzione di veicoli commerciali. Fortunatamente, la componentistica italiana non ha rincorso Fca-Fiat. A questo punto, la domanda che dobbiamo farci è la seguente: questo settore può agganciare la filiera lunga della produzione, anticipando la domanda tecnologica che si prospetta? L’auto elettrica, i nuovi materiali, l’aerodinamica, le trasmissioni, le batterie, la componentistica ad alta efficienza sono il futuro. In questo campo, le ricerche italiane sono ben posizionate, ma occorre un contesto politico e industriale adeguato, perché gli indizi non si traducano in una falsa speranza.
Innovazione e ambiente
Dal lato della rivoluzione tecnologica, l’automotive è davanti a un bivio che solo i grandi oligopoli possono affrontare. Sebbene il settore sia stato povero di innovazioni e trainato dalla crescita della domanda – le modifiche tecnologiche sono in buona parte dettate dalle normative che Ue e altri Stati hanno implementato (1990) per rispondere all’inquinamento ambientale –, le traiettorie tecnologiche sono influenzate dalle relative specializzazioni tecnologiche: gli Stati Uniti utilizzano le competenze nella raffinazione del petrolio per sostenere l’alimentazione a benzina; gli europei puntato sul diesel; i giapponesi sfruttano l’elettronica per l’auto elettrica.
Le principali linee di innovazione riguardano l’efficienza e il rispetto dell’ambiente per minimizzare l’impatto su clima ed ecosistemi (incluso il rumore e l’inquinamento atmosferico). Solo l’uso efficiente di risorse naturali e input permette infatti di ridurre la dipendenza dai combustibili fossili (e dalle conseguenti importazioni), così come la mobilità e la riduzione del traffico permettono di risolvere il problema della sicurezza e della protezione dei cittadini. L’obiettivo è quello di conciliare mobilità e fluidità nei trasporti con soluzioni innovative, accessibili, inclusive e sicure, utilizzando tecnologie Ict e tutte le innovazioni che migliorano l’intera filiera produttiva.
Un insieme di sviluppi interrelati che puntano a un vero e proprio nuovo paradigma nel settore automotive (o a “una nuova tecnica superiore di produzione”, come direbbe un grande economista come Paolo Leon). La particolarità dei programmi di ricerca per la mobilità sostenibile è l’approccio integrato e non particolareggiato. Potendo avere, l’innovazione destinata all’aeronautica o all’automotive (in particolare nella componentistica), diversi utilizzi e produrre vantaggi inattesi anche in altri comparti.
Un buon parametro per valutare l’innovazione è l’analisi dei brevetti di settore. Nel periodo 2012-2014 l’Italia ha depositato un numero di brevetti, riguardante il settore dei trasporti, di circa 300 unità per ciascuno dei tre anni presi in considerazione; la Germania ha depositato un numero di brevetti costante, ma intorno a ben altri valori (2mila unità); la Francia, invece, è lineare con i suoi 800 brevetti, dopo un periodo di stasi. L’aspetto importante sottolineato dallo studio è la correlazione tra le spese in ricerca e sviluppo effettuate dai Paesi e i brevetti. L’esigua entità degli investimenti italiani rispecchia i modesti risultati ottenuti dal settore auto, mentre più importanti e significativi sono i risultati ottenuti dal comparto della componentistica.
La Francia dimostra un impegno sempre crescente e costante nel tempo. La Germania è addirittura il Paese modello, dove l’incidenza degli investimenti in ricerca e sviluppo è evidente: a partire dagli anni novanta si nota un andamento in costante aumento, nonostante la crisi del 2008-2009, con valori assoluti di ben 4-5 volte superiori a quelli degli altri Paesi europei.
I principali risultati della ricerca
I principali elementi che emergono dallo studio possono essere sintetizzati in un breve elenco: • il ruolo estremamente dannoso dei combustibili fossili per la salute dei cittadini e per il capitale naturale nelle aree metropolitane, e nell’area di Milano in particolare (con costi ben superiori a quelli abitualmente ipotizzati);
• i netti vantaggi per ambiente e salute dell’auto elettrica rispetto a quelle alimentate da qualunque combustibile (soprattutto tenendo in conto la provenienza sempre più pulita dell’energia elettrica, che già dal 2013 a livello mondiale per oltre il 50% è ottenuta da fonti non fossili);
• il ruolo che le norme imposte dagli Stati hanno svolto e stanno svolgendo per favorire le innovazioni;
• gli scenari di sviluppo delle auto elettriche (destinate a divenire sempre più diffuse soprattutto grazie al calo del prezzo e al miglioramento nelle prestazioni delle batterie). Scenari che fanno ipotizzare che entro il 2022 i veicoli elettrici saranno pienamente competitivi con le autovetture a benzina, anche in assenza di sovvenzioni, e che entro il 2040 copriranno il 35% del mercato. La prospettiva è quella di un forte spiazzamento del settore petrolifero, attualmente incapace di prevedere lo sviluppo dei veicoli elettrici e la sovrapproduzione di energia fossile che ne conseguirà;
• i processi di concentrazione mondiale nel settore auto, che porteranno con ogni probabilità i quattro maggiori Paesi produttori (Cina, Usa, Giappone e Germania) a contendersi la quasi totalità del mercato; si tratta dei Paesi che nel corso degli ultimi anni hanno consolidato la spesa in ricerca e sviluppo in rapporto al Pil e rafforzato la componente green economy;
• il possibile ruolo dell’Italia nella produzione di componentistica di avanguardia (con un export che si orienterebbe verso beni intermedi e strumentali ad alto contenuto di tecnologia).
Una politica industriale coerente
Non sarà dunque la domanda di automobili, intese come beni finali di consumo, a rappresentare un’opportunità su cui rafforzare il settore manifatturiero nazionale. Occorre invece concentrarsi sul settore della componentistica. Quest’ultimo è caratterizzato da una domanda particolare, la cui variazione non è causata principalmente dalla variazione del livello dei prezzi. Ci troviamo pertanto dinanzi a un settore in cui la competitività viene per lo più a giocarsi sulla qualità e la durabilità del prodotto. Per queste ragioni, la politica industriale sottesa al consolidamento del settore della componentistica non può declinarsi solo sulla riduzione del costo del lavoro. I beni e i servizi forniti dalle imprese del settore contribuiscono a innovare i beni capitali che sono poi impiegati nella produzione di automobili.
Ma c’è di più: l’evoluzione delle modalità con cui vengono combinati i fattori della produzione nell’automotive dipende dagli output messi a disposizione dal settore della componentistica. Pertanto, la sfida che interessa il settore è molto complessa: essa concorre a modificare la qualità e la quantità dei beni capitali da cui dipendono la qualità e la quantità dei beni finali, in questo caso delle automobili.
Fonte: Rassegna Sindacale
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