di Raffaele Lupoli
Il voto sulle trivelle di domenica 17 aprile va ben al di là della portata del quesito: è un’occasione per restituire la parola ai cittadini e per riflettere sul modello energetico ed economico più utile all’Italia. Lo sanno bene il governo e la maggioranza che lo sostiene, che non a caso evitano di dare visibilità al referendum e si schierano, come ha fatto il Pd, per l’astensione. Ma vediamo, numeri alla mano, che cosa può accadere votando sì al referendum.
Concessioni senza scadenza. Partiamo dal quesito referendario: votando sì si ottiene di far cessare le concessioni per estrarre idrocarburi, gas e petrolio, entro le 12 miglia marine (dove, ricordiamo, la legge di Stabilità dello scorso dicembre ha già vietato ogni nuova attività estrattiva) al momento della scadenza prefissata, senza che sia possibile prorogarle fino all’esaurimento del giacimento. Va chiarito che la possibilità di sfruttare il giacimento fino a fine vita è stata introdotta dal governo Renzi in contrasto con le regole europee sulle concessioni pubbliche, che devono essere sempre soggette a scadenza.
Quantitativi irrisori di idrocarburi. In Italia sono 35 le concessioni di estrazione entro le 12 miglia (su 135 complessive) e 9 i permessi di ricerca già rilasciati. Dalle piattaforme in funzione nel 2015 sono state estratte 542.881 tonnellate di petrolio e 1,84 miliardi di Smc (standard metri cubi) di gas, vale a dire lo 0,95% del fabbisogno nazionale di petrolio e il 3% del fabbisogno nazionale di gas. Parliamo dunque di quantitativi che se venissero a mancare a seguito della vittoria del sì non creerebbero particolari shock al nostro approvvigionamento energetico. D’altro canto, invece, si porrebbe fine al fatto che le compagnie – il cui vero problema è l’antieconomicità dell’estrazione offshore in un contesto di prezzi bassi del petrolio – protraggono lo sfruttamento “a tempo indeterminato” perché per quantitativi così ridotti non pagano royalties e per non affrontare i costi dello smantellamento degli impianti e del ripristino dello stato dei luoghi.
Il mito delle riserve italiane. Un altro mito da sfatare sono le riserve di petrolio che sarebbero presenti o nel sottosuolo e sotto il mare italiano. I sostenitori delle trivelle parlano di una quantità di idrocarburi che coprirebbe per 5 anni l’intero fabbisogno nazionale, così come previsto dalla Strategia energetica nazionale, documento governativo datato 2013 (guarda caso lo stesso anno in cui si è cominciato a ridimensionare il sostegno alle rinnovabili). A guardar bene i numeri, le risorse certe ammontano a 126 milioni di tonnellate equivalenti (Mtep) e non 700, cifra che comprende anche quelle “probabili e possibili”. Le riserve certe nei nostri fondali ammontano a 7,6 Mtep di petrolio e 29,4 di gas, in grado di coprire il fabbisogno nazionale di petrolio per 7 settimane e quello di gas per 6 mesi.
Lo spauracchio dei posti di lavoro. Anche sul rischio di perdere posti di lavoro (ma finora soltanto i chimici della Cgil hanno espresso perplessità) è importante chiarire alcuni dati. Il panorama internazionale offre il ritratto di un settore -quello dell’oil&gas – in forte flessione e anche in Italia, ormai da anni, calano fatturato e occupati, con 4 miliardi di euro perduti in tre anni e due terzi delle aziende dell’indotto in crisi (secondo Deloitte il 35% per cento è a forte rischio di fallire). La Solar foundation ci ricorda che lo scorso anno negli Usa il numero degli occupati del settore delle rinnovabili, dove Obama ha appena fermato le trivelle nell’Atlantico, ha superato il numero dei lavoratori nell’industria delle “fossili”, che ne conta 187.200 contro i 209mila del solo fotovoltaico, con i primi in calo e i secondi in costante aumento. Nel 15esimo State of Renewable Energies in Europe, Eurobserv’ER, censisce in Italia – pur nella flessione dovuta alle politiche governative e al calo del prezzo del petrolio – 82.500 persone impiegate nel settore delle rinnovabili contro i 65.000 circa dell’industria estrattiva.
Numerosi studi dimostrano, infine, che in particolare nella produzione di energia elettrica rinnovabili ed efficienza energetica creano dieci volte più posti di lavoro di quelli generati dalle fonti fossili. Dirottando dunque sulle prime gli incentivi rivolti a queste ultime si avrebbero vantaggi considerevoli in termini occupazionali. La Commissione europea, ad esempio, ha stimato che raggiungendo il 30% di energia prodotta da fonti rinnovabili nel 2030 si arriverebbe a 1.300.000 posti di lavoro in più in Europa, mentre con un obiettivo al 27% se ne avrebbero 700.000.
I sussidi alle fossili. A proposito di sussidi, nonostante il crollo del prezzo del petrolio l’attività estrattiva non sarebbe così conveniente se non ci fossero numerose forme di sostegno da parte degli Stati. A livello mondiale, le stime passano dai 550 miliardi di dollari di un’analisi dell’International Energy Agency ai 5.300 miliardi (quasi dieci volte tanto) valutati dal Fondo monetario internazionale, che ha aggiunto al sostegno diretto anche i costi delle conseguenze ambientali e sanitarie dell’utilizzo di idrocarburi e carbone. In generale, il sussidio alle fossili vale a livello globale sei volte di più di quello alle fonti pulite. In Italia la produzione di combustibili fossili viene sostenuta con 2,7 miliardi di euro ogni anno, che diventano 17,5 se si guarda agli incentivi lungo tutta la filiera, consumo incluso.
Inquinamento e global warming. A tutto questo vanno aggiunti i danni che eventuali incidenti provocherebbero al mare, alla sua biodiversità, alla pesca e al turismo (evidenze di un habitat alterato attorno alle piattaforme estrattive italiane sono già emerse da una recente indagine di Greenpeace). E va aggiunta la constatazione che la lotta al surriscaldamento globale è davvero efficace soltanto se ci si impegna a non estrarre più gli idrocarburi e a non utilizzare il carbone.
Fonte: Left
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