di Carla Filosa
Già altrove si è trattato concettualmente del cosiddetto “smart work”. Quello che ancora rimane per lo più oscuro da parte dei suoi sostenitori è il riferimento all’ “innovazione profonda della cultura del lavoro” che, al di là di un nominalismo intuibile, non fa emergere i contenuti reali da lasciare sempre in sordina. La “svolta culturale” dovrebbe restituire la “piena dignità al lavoratore autonomo, diverso da quello subordinato ma non minore”. Nemmeno alle elementari si passerebbe tanta mancanza di specificità (diverso, in che senso?) e di concetti o sintassi (minore: da quello subordinato? per importanza sociale? perché finora non degnamente riconosciuto?
manca allora il secondo termine di paragone, non è nemmeno una modalità di nota musicale!), espressi da Maurizio del Conte, professore alla Bocconi! Quantitativamente – viene stimato - riguarderà due milioni di lavoratori (autonomi, architetti, avvocati, partite Iva, ecc.) equiparati a più del 10% del Pil. Ancora una pregevole spiegazione – si fa per dire - del suddetto prof. riguarda il concetto di lavoratore “autonomo...[è] chi fornisce in totale autonomia rispetto al committente i propri servizi”. Qui poi, a parte l’elusiva tautologia, abbiamo sul termine “servizio” un capolavoro di novità. Nientemeno che al 1861-’63 risale una critica di Marx a Ricardo, che seguiva Say, a proposito della carenza teorica di questi ultimi relativa al lavoro salariato. “Anziché parlare di lavoro salariato si parla di «services», una parola in cui la determinazione specifica del lavoro salariato e del suo uso – cioè di aumentare il valore delle merci con cui esso viene scambiato, di produrre plusvalore – viene di nuovo omessa e con ciò lo specifico rapporto per cui denaro e merce si trasformano in capitale. «Service» è il lavoro concepito semplicemente come valore d’uso (una cosa secondaria nella produzione capitalistica), del tutto come nella parola «prodotto» l’essenza della merce e la contraddizione insita in essa vengono soppresse” (Teorie sul plusvalore, II, Roma, 1979, E.R. p.549). Rimane da aggiungere che l’uso del termine “autonomo” non legittima affatto la fraudolenta conseguenza di indipendenza dal committente lavorativo. L’uso ambiguo, sin da tempo, di questo vocabolo tende infatti a occultare il rapporto capitalistico interno alla funzione – ancorché fuori contratto o formalmente separata per costrizione legale – di produzione di valore e plusvalore; questi infatti sono invisibilmente sempre realizzati, se remunerati in base a domanda, appalto, incarico o commissione una tantum.La tutela invocata, “contro gli abusi da parte del committente: la forma scritta del contratto, il divieto di recedere senza preavviso e di pagare oltre i 60 giorni”, somiglia più a una foglia di fico per giustificare l’appropriazione di una quota lavorativa, priva di tracciabilità sociale soprattutto riscontrabile da parte di chi lavora.
manca allora il secondo termine di paragone, non è nemmeno una modalità di nota musicale!), espressi da Maurizio del Conte, professore alla Bocconi! Quantitativamente – viene stimato - riguarderà due milioni di lavoratori (autonomi, architetti, avvocati, partite Iva, ecc.) equiparati a più del 10% del Pil. Ancora una pregevole spiegazione – si fa per dire - del suddetto prof. riguarda il concetto di lavoratore “autonomo...[è] chi fornisce in totale autonomia rispetto al committente i propri servizi”. Qui poi, a parte l’elusiva tautologia, abbiamo sul termine “servizio” un capolavoro di novità. Nientemeno che al 1861-’63 risale una critica di Marx a Ricardo, che seguiva Say, a proposito della carenza teorica di questi ultimi relativa al lavoro salariato. “Anziché parlare di lavoro salariato si parla di «services», una parola in cui la determinazione specifica del lavoro salariato e del suo uso – cioè di aumentare il valore delle merci con cui esso viene scambiato, di produrre plusvalore – viene di nuovo omessa e con ciò lo specifico rapporto per cui denaro e merce si trasformano in capitale. «Service» è il lavoro concepito semplicemente come valore d’uso (una cosa secondaria nella produzione capitalistica), del tutto come nella parola «prodotto» l’essenza della merce e la contraddizione insita in essa vengono soppresse” (Teorie sul plusvalore, II, Roma, 1979, E.R. p.549). Rimane da aggiungere che l’uso del termine “autonomo” non legittima affatto la fraudolenta conseguenza di indipendenza dal committente lavorativo. L’uso ambiguo, sin da tempo, di questo vocabolo tende infatti a occultare il rapporto capitalistico interno alla funzione – ancorché fuori contratto o formalmente separata per costrizione legale – di produzione di valore e plusvalore; questi infatti sono invisibilmente sempre realizzati, se remunerati in base a domanda, appalto, incarico o commissione una tantum.La tutela invocata, “contro gli abusi da parte del committente: la forma scritta del contratto, il divieto di recedere senza preavviso e di pagare oltre i 60 giorni”, somiglia più a una foglia di fico per giustificare l’appropriazione di una quota lavorativa, priva di tracciabilità sociale soprattutto riscontrabile da parte di chi lavora.
La “svolta” più significativa – in termini di novità – riguarda infine il lavoro a domicilio. Non quello tradizionale, esistente sin dall’antichità, ovviamente, ma quello pilotato dalle nuove tecnologie. Non a caso inizialmente il bando attuale era rivolto solo alle donne, dato che il capitale ha ereditato e rinverdito, nella conservazione sociale dei secoli passati, l’acquiescenza femminile a sopportare tutti i carichi di cura, in sostituzione di ammortizzatori sociali sempre carenti. Dunque è a una donna che fa più “comodo” risparmiare i tempi del traffico da destinare invece al lavoro o alla famiglia! L’intensificazione del suo ruolo fissato di funzioneorganizzativa della vita altrui, si basa su una peculiarità tutta femminile di saper gestire un’intermittente dicotomia mentale tra plurimi compiti quotidiani e diversificati obblighi lavorativi, sotto il peso di un aumento di responsabilità per l’impegno preso a cottimo. Gli strumenti tecnici di questa “innovazione” sono: l’uso di Internet, il telefono, il pc portatile, lo smartphone e la chiavetta, forse anche forniti dall’azienda (ma non è detto, anelando questa alla riduzione dei costi). Gli strumenti sociali “innovativi” di almeno due secoli fa sono: dissimulazione del calcolo temporale sul valore reale del lavoro realizzato (anche quello immateriale o dematerializzato), declassando il tempo di lavoro ad attrezzo obsoleto, in modo da considerare il lavoro non solo come attività umana in generale, ma cancellandone lafunzione capitalistica (lavoro salariato, dipendente, produttivo di valore, anche indirettamente) nella capacità di rendimento, di “pezzi” di lavoro solidificato. La quota di lavoro non pagato o pluslavoro, condizione di ogni occupazione in questo sistema, non risulta quindi più sulle “ore” ma sui “pezzi”, nei quali rimane invisibile l’incorporazione della forza-lavoro mercificata, soprattutto ignorata nella sua parte imposta come gratuita. L’occupazione ottenuta viene così percepita come un bene da curare gelosamente – all’oscuro del suo essere funzione necessariadell’accumulazione di capitale - similmente al lavoro di cura familiare da cui faticosamente ma non sempre ci si può emancipare, funzionale anch’esso all’abbassamento del salario sociale nella sua forma indiretta.
Ovviamente la forza-lavoro non ha né sesso, né razza, né etnia se non per abbassarne il valore, quindi ormai è rivolto a tutti, anche con assunzioni a breve termine per collaborazioni con freelance, rapporti da remoto, professionisti all’estero, ecc., (con tanto di uso anche di scrittoi-smart, cioè a scomparsa e rimuovibili con facilità, ideati sin dal ’96), e i risultati sembrano determinare maggiore soddisfazione oltre a, ovviamente, un minor assenteismo calcolato intorno al 63%! È stato previsto che questa tipologia lavorativa potrebbe indurre una diminuzione di costi complessivi di 27 miliardi, con un aumento di produttività e un calo di costi fissi intorno ai 10 miliardi. Pertanto si pensa di estenderla anche nel lavoro pubblico, mentre nel privato si coglie l’occasione per destinare agevolazioni fiscali e incentivi alle aziende che la useranno. L’auspicata “rivoluzione culturale” riguarderà quindi la capacità imprenditoriale di ingenerare “fiducia” nel dipendente-smart, che così collaborerà all’innalzamento produttivo aziendale o statale, accollandosi responsabilmente un rendimento lavorativo con qualunque costo personale aggiuntivo. L’attività lavorativa potrà avvenire in parte interna e in parte esterna al posto di lavoro, entro i limiti di una durata massima (espressione verbale, ma irreale materialmente) dell’orario lavorativo giornaliero o settimanale. Inoltre, per il diritto all’uso del proprio lavoro (Statuto dei lavoratori, art. 21), se ne potrà disporre “salvo che l’attività inventiva sia prevista come oggetto del contratto di lavoro e a tale scopo compensata”.Infine, per gravidanza, malattia o infortunio verrà sospesa l’esecuzione lavorativa senza corrispettivo per non più di 150 giorni.
Su la Repubblica, del 03.02.16, si insiste su credibili conferme (Cinzia Sasso, la proponitrice di questa formula lavorativa) al minor lavoro svolto in ufficio rispetto a quello a domicilio, stimato con un aumento di produttività al 35-40%. I 10 miliardi di costi fissi risparmiati (a Torino, nel Trentino, ecc.) li hanno chiamati “conciliazione dei tempi di vita con i tempi di lavoro”, come da Jobs Act, data la sperimentazione avviata sin dal 2011: promotori Risorse Umane di Torino con sindacati, pari opportunità, assessori competenti. È chiaro quindi che la precondizione di “accordo tra le parti” prevede una dose di ulteriore ideologizzazione neocorporativa, in cui il lavoratore non sappia più di essere sfruttato e impoverito proprio da chi domanda il suo lavoro, bensì percepisca di esserne beneficato – quale ne sia l’aggravio personale – perché un lavoro di partecipazione consente di condividere soddisfazioni anche se, giustamente dovute alla proprietà, sperequate.
Il progressivo dissolversi di posti di lavoro, mediante espulsione progressiva di lavoratori da un mercato in restrizione, fa sì che l’impegno ideologico si corredi rapidamente di misure di contrasto alla povertà in necessario aumento. Un disegno di legge delega appena approvato dal Consiglio dei ministri, prevede infatti un sussidio economico momentaneo unito a un programma di “inclusione sociale”, che significa una presa in carico dei servizi sociali e per il lavoro. Per ora riguarderà circa un milione di persone, utilizzando le risorse che ammontano a 800 milioni per il 2016, stanziate dalla legge di Stabilità. Al momento l’attuazione di questa elemosina gattopardesca – in tutto simile alle famigerate leggi sui poveri nell’Inghilterra del XVII secolo! - dipenderà dalla buona volontà e dalle possibilità finanziarie degli enti locali, mentre intanto i destinatari poveri se sopravvivranno sarà solo per i loro espedienti.
L’unica “conciliazione” condivisibile, in quanto fatto già avvenuto, per ora, è quella di considerare tempi di vita e di lavoro identificati nell’acquisto di chi compra la forza-lavoro, rendendo i primi funzionalmente asserviti ai secondi. Se infatti illavoratore libero è sempre stato per definizione precario, con una sosta (sec. XIX e XX) per le lotte vinte sulla riduzione dell’orario di lavoro e sui contratti collettivi e nazionali, oggi, con queste leggi e diritti rasi al suolo, la precarietà di lavoro e vita è di nuovo il criterio dominante su tutta la classe lavoratrice mondiale. La “contraddizione in processo”del capitale mostra però più vicino il suo essere “limite” a sé stesso, nell’inestinguibile crisi dell’accumulazione.
Fonte: La Città futura
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