di Fulvio Scaglione
Giulio Regeni, il ricercatore italiano ucciso al Cairo dopo essere stato sequestrato e torturato, è diventato un volto noto a tutti e ormai caro a moltissimi. È quindi auspicabile, e anzi imperativo che, quando nel suo paese natale Fiumicello si celebreranno i funerali, che saranno pubblici ma non di Stato e ai quali eventuali autorità parteciperanno a titolo privato, un velo di silenzio e di rispetto cali sull’Italia.
È chiaro che la sua non è stata una morte qualsiasi. Per la violenza inaudita, per le circostanze oscure, per il risvolto politico che essa, nella polemica tra l’Italia che cerca la verità e l’Egitto che nega di nasconderla, ha subito assunto.
Ma in questi giorni abbiamo sentito di tutto, troppo. Di volta in volta la memoria del povero Regeni è stata sballottata tra chi lo descriveva come un attivista per i diritti dei lavoratori egiziani e chi gli cuciva addosso i panni dell’agente segreto.
Tra chi lo voleva giornalista impegnato, pronto a correre i rischi del reporter da prima linea, e chi gli rimproverava di essersi ingenuamente andato a cacciare in un Paese come l’Egitto, governato col pugno di ferro da una giunta militare e da anni scosso da tensioni quasi incontrollabili.
È stato il tumulto dell’indignazione e dell’offesa ma, se possiamo dirlo, alla fine non ci abbiamo fatto una gran figura. Perché in tutto questo nazionalismo da quattro soldi compreso, sono stati rari i momenti in cui ci siamo ricordati che Giulio Regeni era prima di tutto un giovane italiano. Il che, Egitto o non Egitto, faceva comunque di lui il membro di una categoria particolare.
In Italia, quando si hanno i suoi 28 anni, sono quasi quattro su dieci le possibilità di essere disoccupati, il doppio della media europea. Per questo tanti di questi ragazzi emigrano: 101.297 italiani hanno lasciato il Paese nel 2014, il 7,6 per cento più che nel 2013. Partiti, dicono le statistiche, anche e soprattutto da quel Nord più felice (o meno infelice) di cui Regeni era originario.
Ma non solo. Giulio era, doveva essere, un giovane uomo che aveva fiducia nel futuro e voleva scoprire il mondo. Altrimenti non avrebbe scelto di studiare in una sede prestigiosa ma lontana come Cambridge, di approfondire, di appassionarsi a materie come l’economia dell’Egitto che non sembrano le più convenienti, se hai nella testa solo il posto fisso e una bella macchina.
Ecco, passione. Quanta doveva averne, Giulio, per mettersi a studiare l’arabo e affrontare i disagi e i pericoli di una città affascinante e complicata come il Cairo? E quanto preziose sono, per un Paese come il nostro che spesso pare deluso se non sfibrato, passioni come quella?
È probabile che di Giulio Regeni, e di tanti altri ragazzi come lui che vediamo partire per il mondo, stiamo capendo troppo poco. Che sottovalutiamo la loro carica umana e li graviamo, invece, di ambizioni e categorie che appartengono piuttosto a ciò che loro vogliono lasciarsi alle spalle.
Noura Wahby, una ragazza egiziana sua compagna di studi a Cambridge, con poche righe su Facebook ci ha detto di Giulio più di quanto abbiamo fatto noi con un mare d’inchiostro. “È il mio migliore amico. Ama l’Egitto. Ama la gente. Pensa che meritiamo il meglio. Era mia guida a Cambridge. Avrei dovuto essere la sua guida al Cairo. Ho avuto modo di guardare la mia amata città attraverso i suoi occhi. È scomparso dal 25 gennaio”.
Adesso non resta che insistere per sapere la verità su Giulio, sulla sua morte troppo immotivata e crudele per essere vera. Con il dubbio, però, di esserci già lasciati scivolare tra le dita un’altra verità, forse ancor più importante: la verità di Giulio.
Fonte: Famiglia Cristiana
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