di John Maynard Keynes
Cairnes, nella conferenza di introduzione su L’economia politica e il lasciar fare, che fu pronunciata all’University College di Londra nel 1870, fu forse il primo economista ortodosso che lanciò un attacco frontale contro il laissez-faire in generale. «La massima del laissez-faire», egli dichiarò, «non ha alcuna base scientifica, ma è tutt’al più una semplice e comoda regola pratica».
(Cairnes descriveva bene la «nozione prevalente» nel seguente passo della stessa conferenza: «La nozione prevalente è che l’economia politica si prefigge di mostrare che la ricchezza può venire più rapidamente accumulata e meglio distribuita, ossia che il benessere umano può essere promosso più efficacemente, grazie al semplice sistema di lasciare la gente a sé stessa; cioè lasciando che gli individui seguano i suggerimenti dell’interesse egoistico, senza limitazioni da parte dello Stato o della pubblica opinione, purché si astengano dalla violenza e dalla frode.
Questa è la dottrina nota comunemente come laissez-faire: e di conseguenza l’economia politica è, credo, molto comunemente considerata come una specie di versione scientifica di questa massima, una rivendicazione della libertà di iniziativa privata e della libertà di contrattazione come l’unica e sufficiente soluzione di tutti i problemi industriali»).
Questa è la dottrina nota comunemente come laissez-faire: e di conseguenza l’economia politica è, credo, molto comunemente considerata come una specie di versione scientifica di questa massima, una rivendicazione della libertà di iniziativa privata e della libertà di contrattazione come l’unica e sufficiente soluzione di tutti i problemi industriali»).
Questa, per gli ultimi cinquant’anni, è stata l’opinione di tutti i principali economisti. Per offrire solo un esempio, una parte del lavoro più importante di Alfred Marshall fu diretta all’indagine dei casi più notevoli in cui l’interesse privato e l’interesse sociale non sono armonici. Ciò nonostante l’atteggiamento cauto e privo di dogmi dei migliori economisti non è prevalso contro l’opinione generale che un lasciar fare individualistico è sia quanto essi dovrebbero insegnare, sia quanto essi in realtà insegnano.
Gli economisti, come altri scienziati, hanno scelto l’ipotesi dalla quale partono e che essi offrono ai principianti perché è la più semplice e non perché sia la più vicina ai fatti. In parte per questa ragione, ma in parte, ammetto, perché sono stati influenzati dalle tradizioni in materia, essi hanno cominciato col presupporre uno stato di cose in cui la distribuzione ideale delle risorse produttive può essere ottenuta attraverso individui agenti indipendentemente secondo un metodo sperimentale, in guisa tale che coloro che si muovono nella direzione giusta distruggano per mezzo della concorrenza quelli che si muovono nella direzione sbagliata. Ciò presuppone che non vi sia grazia né protezione per quanti indirizzino il loro capitale o il loro lavoro nella direzione sbagliata. È un metodo che porta verso l’alto i ricercatori di guadagno cui arride il successo, grazie ad una spietata lotta per la sopravvivenza, attraverso la quale si seleziona il più efficiente per mezzo del fallimento del meno efficiente. Tale metodo non tiene conto del costo della lotta, ma solo dei vantaggi del risultato finale, i quali si suppongono essere permanenti. Se lo scopo della vita è quello di cogliere le foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo più facile di raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto.
Corrispondentemente a questo metodo di raggiungere la distribuzione ideale degli strumenti di produzione fra scopi differenti, vi è una supposizione comune circa il modo di ottenere la distribuzione ideale di quanto è disponibile per il consumo. In primo luogo ogni individuo scoprirà ciò di cui, fra gli oggetti possibili di consumo, egli abbisogna di più, col metodo sperimentale marginale, ed in questo modo non solo ogni consumatore verrà a distribuire il proprio consumo nel modo più vantaggioso, ma ogni oggetto di consumo troverà la propria strada fino al consumatore la cui attrattiva per esso è massima, a confronto di quella degli altri, giacché quel consumatore supererà gli altri con la propria offerta. Così, se lasciamo le giraffe a sé stesse: (1) si coglierà la massima quantità di foglie, giacché le giraffe dal collo più lungo, a forza di far soffrire la fame alle altre, arriveranno più vicine agli alberi; (2) ogni giraffa ricercherà le foglie che trova più succulente, fra quelle che può raggiungere; e (3) le giraffe il cui desiderio per una data foglia è massimo protenderanno di più il collo per raggiungerla. In questo modo saranno ingoiate più numerose e più succose foglie e ogni singola foglia raggiungerà la bocca che la giudica meritevole del massimo sforzo.
Però questa supposizione di condizioni in cui una selezione naturale illimitata porta al progresso è solo una delle due ipotesi provvisorie che, prese come verità letterali, sono diventate le due colonne che sostengono il laissez-faire. L’altra è l’efficacia e, in sostanza, la necessità delle occasioni di guadagni privati illimitati come incentivo al massimo sforzo. Il profitto, in un sistema di laissez-faire, va a vantaggio dell’individuo il quale, sia per abilità che per fortuna, si trova con le risorse produttive nel posto opportuno e al momento giusto. Un sistema che permette all’individuo abile o fortunato di cogliere l’intero frutto di questa congiuntura offre evidentemente un immenso incentivo alla pratica dell’arte di trovarsi nel posto opportuno e al momento giusto. Così uno dei più potenti fra i moventi umani, l’amore del denaro, è asservito al compito di distribuire le risorse economiche nel modo meglio calcolato per accrescere la ricchezza.
Il parallelismo già accennato, fra il laissez-faire economico ed il Darwinismo appare ora, come Herbert Spencer riconobbe per primo, essere molto stretto. Proprio come Darwin invocava l’amore sessuale, agente attraverso la selezione sessuale, come cooperante alla selezione naturale per mezzo della concorrenza per dirigere l’evoluzione lungo linee che dovrebbero essere tanto desiderabili che efficaci, così l’individualista invoca l’amore del denaro, agente attraverso la ricerca del profitto, come cooperante alla selezione naturale per provocare la produzione nella massima misura possibile di quanto è più fortemente desiderato, misurato in valore di scambio.
Sono tanto grandi la bellezza e la semplicità di una tale teoria che è facile dimenticare come essa non derivi dai fatti concreti, ma da un’ipotesi incompleta introdotta per amor di semplicità. A parte altre obiezioni da menzionarsi più tardi, la conclusione che gli individui agenti indipendentemente per il proprio vantaggio producano il massimo volume complessivo di ricchezza dipende da una varietà di presupposti irreali, come ad esempio che i processi di produzione e consumo non sono in alcun modo organici, che esiste una sufficiente conoscenza preventiva delle condizioni ed esigenze e che vi sono possibilità adeguate di ottenere questa conoscenza. Perciò gli economisti in genere riservano ad una fase posteriore del loro ragionamento le complicazioni che sorgono : (1) quando le unità efficaci di produzione sono grandi rispetto alle unità di consumo; (2) quando sono presenti costi generali o costi connessi; (3) quando le economie interne tendono ad estendersi al complesso della produzione; (4) quando il tempo necessario per gli adeguamenti è lungo; (5) quando l’ignoranza prevale sulla conoscenza ; e (6) quando monopoli e combinazioni interferiscono con l’eguaglianza nelle negoziazioni – essi riservano, per così dire, ad una fase successiva la loro analisi dei fatti reali. Per di più, molti di quelli che riconoscono che la ipotesi semplificata non corrisponde accuratamente al fatto, concludono ciononostante che essa rappresenta ciò che è «naturale» e perciò ideale. Essi considerano l’ipotesi semplificata come benessere e le ulteriori complicazioni come malattia,
Tuttavia, oltre questa questione di fatto, vi sono altre considerazioni, abbastanza semplici, che includono giustamente il costo ed il carattere della lotta di concorrenza e la tendenza della ricchezza di distribuirsi dove non è apprezzata al massimo. Se abbiamo a cuore il benessere delle giraffe, non dobbiamo trascurare le sofferenze di quelle dal collo più corto, che sono affamate, né le dolci foglie che cadono a terra e che vengono calpestate nella lotta, né la supernutrizione delle giraffe dal collo lungo, né il cattivo aspetto di ansietà e di voracità combattiva che copre i miti visi del gruppo […].
[L]’individualismo ed il laissez-faire, malgrado le loro profonde radici nella filosofia morale e politica della fine del secolo XVIII e del secolo XIX, non avrebbero potuto assicurarsi il dominio duraturo sulla condotta degli affari pubblici, se non fosse stato per la loro conformità con i bisogni e i desideri del mondo degli affari di allora. Essi davano pieno campo d’azione ai nostri eroi d’una volta, i grandi uomini d’affari. «Almeno metà della migliore abilità del mondo occidentale», usava dire Marshall, «è occupata negli affari». Una gran parte della «più alta immaginazione» di quel tempo era così impiegata. Era sulle attività di questi uomini che erano incentrate le nostre speranze di progresso.
«Uomini di tal classe», scrisse Marshall (The Social Possibilities of Economic Chivalry, in Economic Journal – 1907, XVII, pag. 9) «vivono in visioni continuamente mutevoli, prodotte nei loro cervelli, delle varie vie che portano al loro scopo desiderato; delle difficoltà che la Natura opporrà loro sul rispettivo cammino e degli espedienti con i quali essi sperano di avere la meglio sulla sua opposizione. Questa immaginazione non gode di molto credito fra il popolo, poiché non le è concesso di abbandonarsi ad eccessi; la sua forza è disciplinata da una volontà superiore; e la sua massima gloria è di aver raggiunto grandi risultati con mezzi tanto semplici che nessuno saprà, e solo gli esperti arriveranno ad indovinare, come una dozzina di altri espedienti, ciascuno dei quali appare egualmente brillante all’osservatore frettoloso, fossero messi da parte a vantaggio di uno. L’immaginazione di un tale uomo è impiegata, come quella del maestro di scacchi, nel prevedere gli ostacoli che possono opporsi all’esito favorevole dei suoi progetti lungimiranti e nell’eliminare costantemente idee brillanti perché egli si è già reso conto delle contromisure che vi si oppongono. La sua potente forza nervosa è all’estremo opposto della natura umana da quella nervosa irresponsabilità che concepisce frettolosi progetti utopistici e che si deve piuttosto comparare alla baldanzosa faciloneria del giocatore debole che vuole risolvere alla svelta i più difficili problemi di scacchi mettendosi a muovere da sé stesso sia i pezzi bianchi che i neri».
Questo è un bel quadro del grande capitano di industria, il maestro-individualista, che serve noi nel servire sé stesso, proprio come qualunque altro artista. Ma questo, a sua volta, è un idolo che si sta offuscando; noi dubitiamo sempre più se è lui che ci condurrà per mano in Paradiso.
Questi numerosi elementi hanno contribuito al pregiudizio intellettuale corrente, alla impalcatura mentale, all’ortodossia del giorno. È scomparsa la forza costrittiva di molti tra i motivi originali ma, come al solito, la vitalità delle conclusioni sopravvive a quelli. Suggerire un’azione sociale per il bene pubblico alla City of London è come discutere l’Origine delle Specie con un vescovo sessant’anni fa. La prima reazione non è intellettuale, ma morale; un’ortodossia è in questione e quanto più persuasivi sono gli argomenti tanto più grave sarà l’offesa. Ciò non di meno, avventurandomi nell’antro del mostro letargico, ho tracciato almeno le sue pretese e la sua discendenza, in modo da mostrare che esso ci ha dominati piuttosto per diritto ereditario che per merito personale.
Liberiamoci dai principii metafisici o generali sui quali, in varie occasioni, si è basato illaissez-faire. Non è vero che gli individui posseggano una «libertà naturale» nelle loro attività economiche. Non vi è alcun patto che conferisca diritti perpetui a coloro che posseggono o a coloro che acquistano. Il mondo non è governato dall’alto in modo che gli interessi privati e sociali coincidano sempre. Esso non è condotto quaggiù in modo che in pratica essi coincidano. Non è una deduzione corretta dai principii di economia che l’interesse egoistico illuminato operi sempre nell’interesse pubblico. Né è vero che l’interesse egoistico sia generalmente illuminato; più spesso individui che agiscono separatamente per promuovere i propri fini sono troppo ignoranti o troppo deboli persino per raggiungere questi. L’esperienza non mostra che gli individui, quando costituiscono un’unità sociale, siano sempre di vista meno acuta di quando agiscono separatamente.
Fonte: Keynes blog
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