di Luigi Pandolfi
Leggendo il manifesto di DiEM25, il nuovo soggetto politico di Yanis Varoufakis, si è colti immediatamente dalla sensazione di trovarsi di fronte all'ennesima sortita velleitaria, intellettualistica, che nulla ha a che fare con i nodi veri della governance economica dell'Unione europea. Eppure, proprio la terribile vicenda che ha riguardato - e che tutt'ora riguarda - la Grecia, avrebbe dovuto suggerire una maggiore concretezza ai suoi estensori. Ma tant'è. Il nuovo movimento pan-europeo vuole innanzitutto "democratizzare" l'Europa. Nobile proposito, che non tiene conto, però, di un dato di realtà: l'Europa, sul piano politico, non esiste. Esistono gli Stati membri, ancorché privati di sovranità piena in materia economica e fiscale, attualmente alle prese con forti spinte anti-europee al proprio interno.
A dispetto della retorica sullo sviluppo democratico e "politico" del processo di integrazione, copiosa negli atti e nei trattati sottoscritti dal 1950 ad oggi, l'Europa si presenta ancora, sostanzialmente, come un'area di libero scambio, un "mercato unico" (detto anche "mercato interno"), all'interno del quale, come si legge nei documenti ufficiali, persone, merci, servizi e denaro possono circolare "con la stessa facilità con cui si muovono all'interno di un singolo Paese". Con clausola di esclusione a danno dei migranti, aggiungeremo adesso. A tale realtà, peraltro segnata da spaventosi squilibri commerciali, è stata fatta corrispondere un'area monetaria con un'unica moneta, l'euro, che attualmente coinvolge diciannove paesi su ventotto, presidiata da un insieme di regole cogenti in materia di finanza pubblica, nel complesso ispirate ad una logica dideleveraging process (riduzione del debito) e di contenimento della spesa, anche per investimenti. Prima di porsi il problema della "democratizzazione" di un'entità inesistente sul piano politico, sarebbe necessario, perciò, mettere in discussione il meccanismo che ha quasi del tutto spogliato, anche in contrasto con i principi contenuti nelle singole costituzioni democratiche nazionali, gli Stati della zona euro delle loro fondamentali prerogative in tema di politiche economiche e finanziarie, comprese quelle finalizzate al riequilibrio delle proprie bilance commerciali.
Se oggi l'Europa è un luogo dove "germogliano disuguaglianze senza precedenti, la perdita di speranza e la misantropia" e prevale la logica dell'"austerità competitiva", il problema non va ricercato nel deficit di democrazia rappresentativa su scala comunitaria, ma nella sua riduzione a laboratorio delle varianti più radicali dell'ideologia neo-liberista. A partire da quella che ha teorizzato la "denazionalizzazione" della moneta, nell'ottica di una reductio ad minimum dell'intervento pubblico in economia. Un assioma, già alla base dei "divorzi" tra governi e banche centrali nazionali a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta, che ha trovato un'applicazione "radicale" in Europa, con la trans-nazionalizzazione del potere della banca centrale, ovvero facendo della stessa un'entità totalmente indipendente, anche fisicamente, dal potere politico. La stabilità dei prezzi e il divieto di finanziamento monetario dei disavanzi pubblici sono diventati così un dogma, anche a fronte dei cicli avversi.
In Europa sono stati sterilizzati, insomma, due strumenti principe a disposizione degli Stati per dare gambe alle loro strategie di breve, medio o lungo termine: la politica valutaria e quella di bilancio o fiscale. La prima è inibita dalla moneta unica, la seconda dal vincolo del pareggio di bilancio previsto dal patto di stabilità europeo (Fiscal compact). Il limite di questo modello è venuto fuori in tutta la sua gravità in questi anni, segnati da una crisi di proporzioni epocali, sistemica, di lunga durata. Dopo il salvataggio-tampone delle banche, ci si è illusi che dalle secche della recessione e della deflazione si potesse uscire semplicemente con le "manovre" espansive della Bce, peraltro decise in totale autonomia dal bureau dell'istituto di Francoforte. In questo modo, gli Stati, impossibilitati a praticare politiche fiscali espansive in funzione anti-ciclica e a varare manovre reflattive, fino a marzo del 2014, quando ha preso avvio il programma di Quantitative easing, sono rimasti passivamente in attesa che il bazooka di Draghi sparasse il primo colpo. Il risultato è che ancora siamo qui a commentare un aumento dell'inflazione su base annua dello 0,1% ed una crescita del Pil ben al di sotto delle aspettative, mentre i disoccupati sono ormai 25 milioni, di cui solo 19 nell'eurozona. "Ci sono forze nell'economia globale di oggi che cospirano per tenere bassa l'inflazione", ha dichiarato giorni addietro il numero uno di Eurotower. Molto più difficile per lui ammettere che politiche monetarie espansive da parte di una Banca centrale "denazionalizzata" sono inutili in assenza di politiche fiscali ugualmente espansive, che, per ovvie ragioni, competono ai governi politici degli Stati.
La verità è che se uno Stato non può influire sulla politica monetaria, né può svalutare la propria moneta e fare spesa in deficit - in pratica è privato di tutti gli strumenti della politica economica -, non può far fronte adeguatamente ai problemi dell'economia e della società ed è costretto a scaricare sui ceti più deboli il costo delle crisi e, più in generale, dalla competitività, com'è accaduto massicciamente in questi ultimi anni.
Torniamo al manifesto di Varoufakis. "Una volta stabilizzate le varie crisi europee, il nostro obiettivo a medio termine è istituire un'assemblea costituzionale all'interno della quale gli europei possano decidere come costruire, entro il 2025, una democrazia europea completamente sviluppata", si legge nel documento di DiEM25. Posto che, come diceva Keynes, "nel lungo periodo saremo tutti morti", un'"assemblea costituzionale" sarebbe possibile soltanto nell'ambito di una transizione verso uno stato federale europeo. Ma quali sarebbero i confini di questo stato? In teoria, esso non potrebbe che ricomprendere l'intero spazio geografico dell'Unione a 28, a meno di non demolire l'attuale edificio e di costruirne un altro, più piccolo, sulle sue macerie. Dentro questo spazio, tuttavia, ci sono Paesi che adottano l'euro e Paesi che mantengono la loro moneta, perché in attesa di fare il loro ingresso nell'eurozona o per scelta strategica (Regno Unito, Svezia, Danimarca). Accanto ad essi ci sono i paesi "candidati" (Albania, ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, Montenegro, Serbia e Turchia) e quelli "candidati potenziali" (Kosovo, Bosnia Erzegovina). Pensare che oggi tutte queste realtà siano disposte a "fondersi" in un unico stato, ancorché federale, è un'idea folle. Nè si può pensare ad una costruzione "per tappe" di un nuovo stato sovrano, basandosi sui Paesi che adottano l'euro ed escludendo quelli che, pur facendo parte dell'Unione europea, non ce l'hanno nemmeno nei loro obiettivi di lungo termine.
A quanto pare, da qui al 2025, in attesa che l'Europa diventi un paradiso democratico, ci sono molte e più urgenti questioni da discutere e da affrontare.
Fonte: Huffington post - blog dell'Autore
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