«Sono qui per dimostrare il mio appoggio al processo di pace e alla liberazione dei prigionieri politici baschi»: così Angela Davis ha aperto la conferenza Donna e carcere lo scorso venerdì a Bilbao. La storica intellettuale e militante afroamericana è stata la protagonista principale di tre giornate organizzate da diverse organizzazioni della sinistra indipendentista basca per parlare di prigionieri politici e carcere da una prospettiva abolizionista e femminista.
L’Istituto basco per la Promozione di Studi Sociali (Gite-Ipes) è stato tra i promotori principali delle iniziative. «Il pensiero femminista e anti-carcere, innovativo e costruttivo, è uno dei nostri pilastri», hanno spiegato da Ipes.
«Vogliamo riflettere e promuovere forme di giustizia alternativa più efficaci, solidali e propositive, in opposizione all’attuale modello carcerario che si basa su disuguaglianze naturalizzate, vendetta e rappresaglia».
«Vogliamo riflettere e promuovere forme di giustizia alternativa più efficaci, solidali e propositive, in opposizione all’attuale modello carcerario che si basa su disuguaglianze naturalizzate, vendetta e rappresaglia».
Donna, nera e comunista
Nata il 26 gennaio del 1944 a Birmingham in Alabama, la «tre volte ribelle: donna, nera e comunista» Angela Davis (così come l’ha presentata il giornale basco Gara che ha partecipato all’iniziativa) già da molti anni cammina al fianco della sinistra indipendentista a favore di una soluzione democratica al lacerante conflitto basco. Ha scelto con il tempo di concentrare il suo estro rivoluzionario alla elaborazione di una critica femminista del sistema carcerario, mettendo il suo lavoro e carisma intellettuale al servizio di diverse campagne internazionali per la liberazione dei prigionieri politici.
La sua critica olistica al regime penitenziario s’inserisce in una proposta integrale di sovversione del sistema capitalista. Di fronte a una platea di più di trecento persone, ha più volte difeso l’idea che la questione del carcere non può essere affrontata senza metterla in relazione con la complessità del sistema dominante.
«Pensare e proporre di abolire il sistema carcerario ci impone di prendere molto seriamente l’anticapitalismo, l’antirazzismo e l’antisessismo», dice.
Per la femminista dell’Alabama, nel modello di giustizia capitalista esplodono le contraddizioni intrinseche della società contemporanea, «contraddizioni che il pensiero e la teoria femminista sono in grado di sviscerare e affrontare fino al midollo». D’altronde «negli Stati uniti il complesso industriale-penitenziario è in una relazione simbiotica con il gigantesco complesso industriale-militare; si appoggiano e promuovono mutuamente». Basti pensare alle grandi probabilità che ha un giovane nero o latino di finire detenuto o arruolato nell’esercito.
Una connessione perversa
Angela Davis ha fatto notare che pur rappresentando solamente il 5% della popolazione mondiale, negli Stati uniti vi è il 25% della popolazione mondiale incarcerata. Ad oggi sono duecento mila le donne rinchiuse nel regime carcerario nordamericano, cifra che quaranta anni fa rappresentava il totale della popolazione detenuta, e che oggi rappresenta un terzo delle donne in stato di detenzione a livello globale.
Il prodotto di una connessione perversa e crudele tra il castigo politico e civile e il circuito globale dell’economia capitalista. La multinazionale G4S che produce, applica ed esporta “sicurezza” è la seconda corporation più grande al mondo: «l’impero che crea più occupazione in Africa«, ha spiegato l’icona del femminismo nero.
Il lavoro intellettuale di Angela Davis svela la natura delle carceri statunitensi. Macchine (di proprietà privata) per la privazione di diritti civili (le statistiche dicono che quasi 6 milioni di cittadini hanno perso il diritto al voto per un processo penale); macchine economiche per l’accumulazione di ricchezza mediante la spoliazione delle comunità latine e afroamericane: ai detenuti si negano i benefici di ciò che resta del Welfare State e li si emargina dal circuito sociale di produzione della ricchezza.
Ma il carcere è anche il luogo dove la violenza intima, quella sessuale, s’incontra con la violenza statale perché è commessa dallo Stato stesso. Le donne oltre alla repressione soffrono continui abusi sessuali e maltrattamenti. Quelle transessuali, poi, sono tra la comunità più criminalizzate e vulnerabili: «Le persone transgender non entrano nella classificazione binaria uomo/donna che il carcere stesso produce e consolida socialmente», ha illustrato Angela Davis.
Architettura della repressione
Questa architettura della repressione – ha spiegato ancora la femminista nera — non può essere interpretata considerando gli Stati uniti: «La nazione-carcere leader del mondo» come un corpo isolato dalla realtà globale. «La tecnologia usata per reprimere la ribellione di Ferguson è la stessa che utilizza l’esercito israeliano in Palestina». E l’ideologia del terrorismo sta alimentando islamofobia e razzismo oramai in tutto il Nord del mondo, criminalizzando le comunità subalterne e generando nuova linfa per un sistema repressivo globale basato sulla vendetta e il castigo.
Allora il modello penitenziario statunitense altro non è che il pezzo centrale di un ingranaggio globale. Una macchina sempre più privatizzata che zittisce e neutralizza le contraddizioni sociali del sistema capitalista, rinchiudendo e castigando i soggetti sociali che queste contraddizioni le soffrono sotto forma di molteplici oppressioni.
Un nuovo paradigma
Per rompere questo ingranaggio globale — ha chiarito Angela Davis — ci vuole una proposta complessa e profonda che agisca sulle sue radici strutturali, «una proposta per la democrazia radicale, per il socialismo».
Un nuovo paradigma che sappia creare anche un immaginario costituente di una società non più affamata di castigo, violenza e rappresaglia. «Lo Stato elabora il pensiero dominante mediante i nostri corpi; i nostri pensieri riproducono la struttura di violenza e oppressione. Per questo il personale è politico».
Proprio per la natura globale di questo sistema repressivo, Angela Davis ha lanciato un appello alla solidarietà e cooperazione internazionale. «Dobbiamo unire la causa dei prigionieri politici baschi con quella dei palestinesi. Inserirla dentro una critica integrale e radicale alle fondamenta di violenza e oppressione razziale, di classe e di genere su cui si appoggiano le nostre società e le nostre carceri», ha spiegato aprendo le braccia l’intellettuale femminista. Che aggiunge: «Dobbiamo dire ai giovani che il capitalismo si può superare, affinché le prossime generazioni possano continuare a credere in un’alternativa a questa società basata sulla violenza».
La battaglia di giustizia continua
Prima di lasciare i Paesi Baschi, la scorsa domenica, Angela Davis ha provato a visitare nel carcere di Logroño il prigioniero politico Arnaldo Otegi, una delle figure più importanti della sinistra basca.
Tuttavia il centro penitenziario ha negato l’accesso all’attivista afroamericana, tra le tante firmatarie, insieme all’ex presidente uruguaiano Pepe Mujica o all’attivista sudafricano Desmond Tutu, dell’iniziativa Free Otegi Free Them All. L’uscita dal carcere di Otegi è prevista per il prossimo 1 di marzo. «Per lui e per tutti gli altri prigionieri politici, continueremo la nostra battaglia di giustizia», ha ribadito Angela Davis.
Fonte: il manifesto
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