di Paolo Favilli
Nell’articolo di Piero Bevilacqua (il manifesto, 28 gennaio) il centro del problema riguarda le possibilità di convergenza di un ampio ventaglio di saperi in un comune denominatore di critica alla «cultura neoliberista, alla sue strategie, alle sue pratiche». «Un comune denominatore molto ampio – dice ancora Bevilacqua – in grado di tenere anche posizioni politiche distanti».
Discutere di tali questioni a partire dai nomi contenuti nella «parziale» mappa degli studiosi di varie discipline che l’autore ha collocato in appendice del suo testo è fuorviante perché il panorama degli studiosi «critici» è più ampio, più articolato e, d’altra parte, l’autore stesso parla di una lista «tracciata alla buona».
È possibile che tale «comune denominatore» possa tenere insieme posizioni politiche anche distanti, ma dal punto di vista analitico le cose sono più complicate.
È possibile che tale «comune denominatore» possa tenere insieme posizioni politiche anche distanti, ma dal punto di vista analitico le cose sono più complicate.
Coloro che si riconoscono interni a quella grande tradizione intellettuale che ha fatto della «critica» il momento centrale della pratica di pensiero che si pone, in primis, l’obbiettivo del «disvelamento», quindi pressoché tutti coloro a cui Bevilacqua si rivolge, sanno perfettamente che termini come «neoliberismo» ed anche «liberismo» altro non sono che componenti di una narrazione ideologica di «superficie».
Una narrazione che copre i meccanismi strutturali del mutamento, anzi della molteplicità dei mutamenti, della loro corposa incidenza nella vita materiale, intellettuale, spirituale (perché no?) di tutti noi, sotto la coltre di categorie disincarnate dai fatti. Categorie disincarnate rispetto ad una realtà economico sociale, che non ha alcun rapporto con quella narrata dai vincitori di questa fase di accumulazione.
La narrazione ci descrive un campo di battaglia dove le roccaforti delle nostalgie novecentesche (intromissione della politica nella sfera economica, ostacoli alla libera competizione e dunque alla formazione di un mercato mondiale di liberi e di uguali) stanno definitivamente cedendo al soffio vivificante di un neoliberalismo in espansione. Persino nella stagione classica del laissez fair, grosso modo fino al 1870, i processi di accumulazione utilizzavano a piene mani tanto dimensione statuale che formazioni oligopolitistiche ed anche monopolistiche. Oggi poi, in piena retorica neoliberista, tali aspetti sono addirittura i punti di forza del processo in atto.
Ecco che, allora, il pensiero può avere dignità «critica» se si confronta con i caratteri consustanziali alle ragioni, alle logiche, alla direzione dei mutamenti in atto, se si confronta con l’analisi delle odierne forme capitalismo.
«Capitalismo»: un termine che, soprattutto coloro che avrebbero dovuto essere gli eredi della storia del movimento operaio fanno fatica ad usare, anzi non usano proprio. Già più di vent’anni fa lo storico Raffaele Romanelli sottolineava il fatto che l’uso del termine «mercato» e l’uso del termine «capitalismo» comportava un diverso apporto teorico. E Luciano Gallino, nel suo ultimo libro, ha definito questo slittamento lessicale, «una frode linguistica».
Al concetto «capitalismo» si addicono analisi strutturali. Il che implica anche una particolare misura del tempo storico, compresa la cosiddetta transizione del tempo che stiamo vivendo. Implica la necessità di pensare il tempo lungo della modernità capitalista scandito dalle fasi delle sue diverse forme di accumulazione. Questo significa che le differenze, a volte anche profonde, tra le differenti fasi, tra le diverse forme capitalismo, devono venir ricondotte al un livello temporale ancora più profondo e più lungo. Perché oggi il mercato globale necessita di un paradigma interpretativo in grado di combinare la pluralità dei tempi e dei modi di manifestarsi nella dimensione unificante della modernità. La «modernità liquida», seconda la nota definizione di Bauman, è l’aspetto fondante di un post capitalismo, è la porta d’ingresso definiva nella postmodernità, o è del tutto interna ad una forma capitalismo?
Se optiamo per la prima risposta cambiano radicalmente i termini del nostro rapporto con la dimensione conoscitiva di questo nostro presente, dei processi storici che alla «modernità liquida» hanno portato, ed anche, è impossibile evitarlo, con le possibilità di trasformazione in senso democratico del «momento attuale». Se però, come credo, i meccanismi di questo «momento attuale» non sono affatto estranei alle ragioni profonde dei mutamenti della forme capitalismo, e che, nell’attuale fase di accumulazione, sono impliciti (in molti casi espliciti) aspetti fondamentali di forme precedenti dispiegati in maniera esponenziale, ecco che i termini del rapporto rottura-continuità non possono esaurirsi esclusivamente nel momento della negazione.
Dobbiamo interrogarci sulle caratteristiche del rapporto capitalismo-modernità in questa nostra transizione/non transizione. In particolare del rapporto del capitalismo con quella che, per la nostra tradizione, è la promessa fondamentale della modernità: la democrazia, cioè la tensione inesaustiva verso l’uguaglianza storicamente possibile.
Allora è all’interno di questo panorama analitico che è possibile ricreare quei sistemi di rilevanza in grado di contrastare i moltissimi aspetti di irrilevanza che sono stati (e sono) l’altra faccia del processo di frammentazione dei saperi.
Naturalmente la sfera culturale non è il luogo dove si costruiscono le nuove condizioni di un’egemonia fidando sulla propria autosufficienza. Il rapporto con la sfera politica è essenziale.
Fonte: il manifesto
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