di Leni Remedios
Sono passati esattamente cinque mesi da quando Jeremy Corbyn è diventato leader del Partito Laburista inglese.
Quanto sappiamo in Italia del terremoto politico provocato nel Regno Unito da questo sessantaseienne attivista che viaggia in bici, è vegetariano, non alza mai la voce e non reagisce alle provocazioni dei media?
Il ruolo di Corbyn condizionerà o no, in futuro, anche gli equilibri geopolitici mondiali?
In fondo si tratta del leader del partito di opposizione di uno dei paesi più significativi del teatro occidentale. La Gran Bretagna, strattonata dall'orgoglio nostalgico di ex impero coloniale da una parte e l'inevitabile crisi economica dall'altra, si trova ora in una fase delicatissima, dove qualsiasi decisione presa peserà notevolmente nell'ambito dello scacchiere politico globale.
Lascerà l'Unione Europea o no?
Rinuncerà al Trident - il proprio programma nucleare - o no?
Continuerà a sostenere le guerre capitanate dagli americani o no?
Incominciamo dal capire chi è l'uomo.
Carriera politica
Nato nel 1949 nello Shropshire, nelle Midlands, si trasferì presto con la famiglia a Londra e divenne subito attivista sin dai tempi della scuola - una esclusiva Grammar School in cui era uno dei due unici simpatizanti Labour (da qui la sua avversità verso l'educazione selettiva).
Nel 1974 venne eletto consigliere comunale nel distretto di Haringey, nel Nord di Londra, fino a diventare parlamentare dal 1983 in poi, rappresentando la zona londinese di Islington North, con un crescendo continuo di consensi: dagli iniziali 5600 voti ai 21000 voti nelle ultime elezioni.
È famoso per il suo attaccamento al lavoro, per la sua integrità e fedeltà ai principi e per la sua frugalità. Si tratta infatti del parlamentare che ha dichiarato meno spese in assoluto.
Ha sempre sostenuto le campagne per i diritti umani nel mondo e contro l'austerity in casa.
È stato uno degli otto politici arrestati nel 1984 di fronte all'ambasciata sudafricana a Londra, dove protestava contro l'apartheid.
Tiene una rubrica settimanale nel giornale socialista Morning Star.
In Parlamento è uno dei più ribelli: dal 2001 in poi si è opposto alle linee guida del suo partito per più di 500 volte, fra le quali alcune delle questioni più controverse durante l'era di Tony Blair. Per esempio si è fermamente opposto alla guerra in Iraq e all'aumento delle tasse universitarie.
Ha criticato Ed Milliband (il leader Labour che lo ha preceduto) per aver promesso più austerity prima delle elezioni.
Si è pronunciato contro le armi nucleari e contro il rinnovo del programma nucleare inglese Trident ed è vice presidente della campagna per il disarmo nucleare.
Patrocina la campagna di solidarietà per la Palestina, che invita al boicottaggio dei prodotti israeliani in segno di protesta per la situazione a Gaza.
È stato anche presidente della Coalizione Stop the War, che ha organizzato la protesta di due milioni di persone contro il conflitto in Iraq.
Appoggia la causa irlandese ed è stato criticato per aver invitato in parlamento il leader del Sinn Fein Gerry Adams.
Discepolo di Tony Benn (padre di Hilary Benn, attuale ministro ombra degli Esteri e strenuo oppositore delle politiche di Corbyn) viene visto dai suoi critici più feroci come «una caricatura del tipico 'barbuto di sinistra', un'ineleggibile regressione ai tempi bui degli anni '80, quando i Labour davano più valore alla purezza ideologica che alla capacità di vincere.»
Da Benn padre ha ereditato la propensione per una forma di socialismo democratico e per una pianificazione statale dell'economia, come pure l'impegno per un disarmo nucleare unilaterale e per un'Irlanda unita.
È stato incluso nella campagna per la leadership laburista puramente per 'allargare il dibattito', mostrandosi pluralisti e confidando nel fatto che l'eterna minoranza non avrebbe avuto, ancora una volta, nessuna attrattiva per potersi espandere oltre i suoi ristretti confini. Ma i colleghi 'Blairites' che l'avevano incluso nella rosa di candidati hanno poi ammesso di essersi amaramente pentiti della scelta.
Durante la stessa campagna, un infuriato Tony Blair è arrivato a dire che un'eventuale elezione di Corbyn come leader Labour porterebbe all'annichilimento del partito.
Corbyn, dal canto suo, ha sostenuto che Tony Blair dovrebbe essere giudicato da un tribunale per i crimini di guerra relativi al coinvolgimento militare illegale del Regno Unito in Iraq.
L'astio di Westminster contro di lui è inversamente proporzionale al gradimento delle folle. Fuori dal palazzo i consensi sono arrivati sempre più numerosi, in un crescendo parossistico, fino ad affibiargli l'etichetta di 'rock star' della politica inglese. Nel mentre i tesseramenti sono aumentati ad un ritmo vertiginoso: il perfetto contrario dell'annichilimento. La faccia dei maggiorenti del partito assumeva la stessa espressione irata e incredula che vediamo in questi giorni anche oltreoceano, fra i "clintoniani" travolti dai consensi pescati da un altro vecchio ousider, Bernie Sanders.
I comizi di Corbyn durante la campagna erano ovunque affollati. Epica la vicenda londinese di Camden, dove il 'barbuto candidato' ha dovuto arrampicarsi su un camion dei pompieri pur di farsi sentire da una piazza gremita.
La sua reputazione di uomo onesto ed integro sembra sia fonte di ispirazione per una marea di elettori disillusi dalla politica carrieristica di Westminster e nutre la speranza per una reale alternativa alla dominante linea neo-liberale thatcheriana.
La sua forte propensione a sinistra l'ha certamente spinto in un angolo per molti anni, ma non l'ha fatto demordere, perfino quando il partito seguiva massicciamente le direttive New Labour sotto l'ala decisa di Tony Blair e Gordon Brown.
Probabilmente è proprio questa coerenza - unita ad una forte e sincera passione politica - ad ispirare gli elettori di oggi, soprattutto giovani, come sottolinea la cantante ed attivista Charlotte Church.
Riportano i media: «Qualcosa nel parlamentare di Islington North ha toccato le corde degli elettori, qualcosa che gli altri candidati per la leadership - più giovani, più tirati a lucido, più carrieristi - palesemente non avevano.»
Unione Europea
Su questo tema - tuttora al centro del dibattito politico inglese in vista del referendum - Corbyn ha confermato, fin dai primi giorni del suo mandato, il suo impegno a rimanere dentro l'Unione. Prendendo le distanze dalle posizioni del governo, che considera centrale il congelamento dei benefits per i lavoratori migranti, le politiche europee di Corbyn mirano all'esatto opposto, ovvero ad accordi in cui 'i posti di lavoro e i lavoratori siano al centro', garantendo loro i diritti fondamentali.
Ha criticato ampiamente l'ultima bozza di accordo di Cameron con Donald Tusk, presidente del Consiglio Europeo, bollandola come 'fumo negli occhi' e come «foglia di fico per coprire la spinta crescente verso un'ulteriore privatizzazione dei servizi e verso la riduzione delle norme a tutela dei consumatori, a tutela dell'ambiente e dei diritti dei lavoratori».
Ciò confermerebbe i dati secondo cui l'attuale governo Cameron avrebbe addirittura superato quello della Tatcher nell'ammontare di privatizzazioni e svendite delle risorse pubbliche (si veda su questo Austerity, di Kerry-Anne Mendoza, capo-redattrice del The Canary).
E aggiunge Corbyn: «la bozza di accordo nemmeno comincia ad affrontare problemi reali come l'impatto dell'immigrazione sul mercato del lavoro, i salari e le comunità locali. Ci gira solo intorno e tutto per le divisioni interne al partito di governo.»
In effetti la disputa fra pro e contro UE si fa sempre più aspra e contraddittoria all'interno dei Tories. Addirittura la ministra degli Interni Theresa May era stata salutata con favore da Nigel Farage - leader UKIP, notoriamente schierato contro gli immigrati - come possibile leader di uno schieramento trasversale pro-Brexit. Salvo poi fare dietro front all'alba della missione di Cameron a Brussels. Non si sa se per una questione di 'politically correctness' o - più probabilmente - per dettami calati dall'alto.
Guerra
Indubbiamente il voto sull'intervento in Siria tenutosi nel Parlamento inglese nel novembre dell'anno scorso è stato un banco di prova per tutte le parti politiche in causa. Ma non tutto è bianco e nero come sembra.
La frettolosa vittoria di Cameron in questo senso - che ha dato il via ai bombardamenti solo dopo un'ora dal voto - ha portato alla luce numerose contraddizioni.
Il voto si svolse all'alba degli attacchi terroristici di Parigi e proprio questo evento, stando all'editorialista politica della BBC Laura Kunnsberg, ha reso possibile cio' che fino a qualche settimana prima era considerato impensabile: creare il consenso adeguato alla guerra sia fra gli elettori che fra i parlamentari. Disillusi dalle precedenti esperienze militari (soprattutto da quella in Iraq) e preoccupati dai tagli imminenti al welfare, i contribuenti inglesi non erano affatto propensi ad appoggiare l'ennesima guerra, tra l'altro per niente chiara e piena d'interrogativi: chi appoggiamo in questa guerra? E chi sono queste 70.000 unità pronte a combattere di cui parla Cameron? Poi, poco prima del voto sulla Siria, il cancelliere del governo John Osbourne ha fatto un'inversione a U sui tagli al welfare. Poi è successo quel che sappiamo a Parigi. E tutto è cambiato.
Nel trambusto emozionale del post-Parigi, Jeremy Corbyn si trovava nella posizione delicata di doversi mantenere integro nel proprio impegno anti-guerra da una parte (uno dei pilastri su cui regge la marea di consenso da parte di nuovi elettori) e il rischio di farsi intrappolare - così come hanno effettivamente provato a fare - dall'etichetta di 'simpatizzante dei terroristi', oltre alle esplicite minacce di dimissioni di massa da parte dei suoi ministri ombra pro-guerra nel caso avesse imposto una linea politica comune. Alcuni di questi si sono addirittura spinti oltre, consultando dei legali per eliminare Corbyn in quanto - secondo loro - non avrebbe rispettato le procedure formali del partito.
A tutto questo Corbyn ha risposto scrivendo una lettera ai suoi parlamentari in cui enunciava la sua personale posizione contro l'intervento in Siria, ma in cui contemporaneamente concedeva ai suoi ministri di votare liberamente secondo coscienza.
Alcuni osservatori politici hanno letto questa mossa come un segno di debolezza.
L'opinione che qui illustriamo è invece quella di una saggia dimostrazione di cautela, che probabilmente prende spunto dalla disastrosa esperienza del governo greco di Alexis Tsipras, che ha peccato in primo luogo d'ingenuità.
È una questione di strategia e di realismo. In un mondo governato da forti potentati economici e da oligarchie quasi onnipotenti, non si può pensare di farcela all'improvviso armati solamente della propria integrità ideologica.
Dando ai suoi ministri la libertà di voto sulla Siria, Jeremy Corbyn ha semplicemente tolto loro il tappeto da sotto i piedi. Costoro non aspettavano altro che il loro leader imponesse la propria linea guida per farlo fuori attraverso contorti mezzucci legali, fregandosene completamente dell'opinione del 70% della base, contraria all'intervento militare. Ed è molto probabile, stando a come il potere riesca a piegare la legge a proprio favore, che ce l'avrebbero fatta, facendo così contenta anche la controparte Tory. Invece non è andata secondo questi piani.
Vero è, oltretutto, che il consenso popolare del nuovo leader, in seguito a questa vicenda, è altresì cresciuto. A livello trasversale tutte le persone che hanno a cuore le istanze umanitarie e i temi contro la guerra si stringono sempre di più attorno alla figura di Jeremy Corbyn. Pure gli elettori al tempo favorevoli all'intervento militare in Siria, passata l'onda emotiva dei fatti di Parigi, si stanno chiedendo che cosa effettivamente il governo stia facendo laggiù. Domanda che rimane inevasa grazie al massiccio contributo dei mass-media, che deviano l'attenzione degli elettori sull'emergenza profughi (con relativa e ormai spudorata propaganda anti-islamica), scaricando naturalmente le colpe di ciò sui bombardamenti russi. Ma questa è un'altra storia.
Tornando a Corbyn: alla fine il reimpasto del governo ombra - dimissioni o non dimissioni - Corbyn l'ha fatto lo stesso settimane dopo a suo piacimento, pur mantenendo Benn nel ruolo di Ministro degli Esteri, probabilmente sempre in virtù del principio di cautela sopra richiamato.
In effetti le voci di palazzo parlavano di un possibile subentro di Benn figlio come leader, nel caso fossero riusciti a far fuori l'attuale leader. Dinamiche che ricordano molto da vicino il susseguirsi dei primi ministri italiani degli ultimi tempi, decisi da gruppi di potere esterni alla volontà popolare. Nel mantenere Benn in seno al nuovo governo ombra, Corbyn ha evitato sagacemente la polarizzazione del conflitto all'interno del suo partito e continua ora imperterrito a ricoprire il suo ruolo.
Bisogna ricordare che il nuovo leader laburista non è un novellino. Come si è visto gode di una lunga militanza politica e sindacale, fuori e dentro il parlamento e si presume conosca molto bene le insidie del Palazzo.
E il voto sulla Siria, solo apparentemente una sconfitta, ha lasciato aperto un dibattito vivace sulle politiche di guerra britanniche. Per esempio molti parlamentari Labour non esattamente 'corbynisti' , pressati da azioni di lobbies da parte dei propri elettori e da militanti della coalizione Stop the War, si son visti costretti a scriver loro individualmente, promettendo un impegno in parlamento contro le politiche di aggressione del governo. Segno che le azioni di Corbyn, sebbene apparissero sconfitte, hanno lasciato il segno.
Stiamo pur sempre parlando di un paese in cui ancora le azioni di pressione da parte dell'elettorato vengono tenute in grande considerazione, perlomeno per una questione di democrazia ed egualitarismo di facciata. Jeremy Corbyn lo sa bene e sta cercando di sfruttare al massimo questi meccanismi, che ancora riescono in qualche modo a sfuggire ai tentacoli della politica di Palazzo.
Se la foto di Corbyn seduto da solo in prima fila, nella 'front bench', abbandonato dai propri ministri durante la discussione sulla Siria, è sintomatica della situazione interna ai vertici di partito, bisogna però immaginare quei banchi vuoti riempiti dalle migliaia dei sostenitori delle politiche corbyniste fuori da Westminster e che continuano tuttora ad iscriversi al partito solo in virtù della nuova leadership.
Media
Corbyn deve curare la difficile transizione da un Labour che in parlamento è ancora dominato dall'ala Blair-Brown-Milliband a un partito in cui finalmente ridiventa protagonista la base dell'elettorato. Il tutto senza possibilmente scricchiolare sotto le pressioni delle lobbies e dei principali media ad esse collegati.
Media pronti a gettare fango ad ogni occasione e che si appendono ai dettagli più insignificanti: di quanti gradi s'è inchinato alla cerimonia commemorativa dei morti in guerra? S'inginocchierà o no di fronte alla Regina? Ma perlomeno questi sono interrogativi diretti, in cui la pochezza degli attacchi è immediatamente riconoscibile.
Più contorti e sul filo del rasoio sono gli attacchi provenienti da giornali pseudo progressisti come il Guardian, che in realtà fin dalla campagna per la leadership ha perseguito una linea molto ambigua. Ne sono un esempio i recenti articoli riguardanti le prossime elezioni regionali in Scozia e le comunali a Londra, dove persino nella molto plausibile probabilità di vittoria schiacciante da parte dei labour vengono intravisti, in uno spettacolare esempio di contorsionismo giornalistico, segnali di debolezza della leadership Corbyn. La reazione del nuovo leader laburista a questi attacchi - sia quelli più spudorati che quelli più sottili - è sempre stata l'impassibilità. Fin dal primo momento della sua investitura Jeremy Corbyn ha dichiarato di non voler rispondere agli attacchi personali, ma di voler discutere solo ed esclusivamente delle politiche. Atteggiamento che mantiene anche in parlamento durante i settimanali 'Prime Minister Question Times', dove non cede mai alla violenza verbale e si è fatto anzi promotore di uno stile nuovo, calmo e pacato, per quanto deciso. Ciò ha completamente disarmato sia i media - abituati alla spettacolarizzazione della politica attraverso il meccanismo del botta e risposta che tanto bene si adatta ai tabloid - sia i suoi avversari. Il collega sopraccitato Hillary Benn ha riconosciuto di avere rispetto verso questa nuova concezione della politica, a cui semplicemente "non siamo abituati". New politics. Nel frattempo, sotto l'evidente influenza della nuova leadership, altri appuntamenti elettorali minori svoltisi in questo frangente (come quello di Oldham West and Royton) hanno dimostrato una vittoria schiacciante dei Labour, che ha travolto sia i Tories che un sempre più malconcio UKIP, il partito nazionalista di Nigel Farage.
I sindacati, dopo anni di disillusione, si sono ricompattati quasi tutti col nuovo leader Labour. E i Blairites, invece di gioire di un aumento vertiginoso dei tesseramenti dopo anni di disinteresse politico da parte degli elettori - un successo che qualsiasi funzionario si augurerebbe per il proprio partito - urlano spasmodicamente all'ineleggibilità di Jeremy Corbyn, troppo socialista, troppo vetero-marxista, troppo idealista etc., un tema ormai trito e ritrito, usato fino alla nausea durante la campagna per la leadership e tuttora usato, con largo anticipo, in vista delle elezioni nazionali del 2020. Dimenticando che non ha avuto alcuna presa sul pubblico, tutt'altro.
Annichilimento? Le parole pronunciate da Tony Blair si scontrano sempre di più con la realtà.
Trident e politiche nucleari
Il dibattito sul programma nucleare inglese sta di nuovo lacerando il partito Labour proprio in questi giorni. Il Trident prevede l'utilizzo di sottomarini della marina reale che pattugliano gli oceani del mondo dal 1998 (soppiantando il vecchio programma Polaris, attivo dal 1968) e che sono provvisti di testate nucleari. Ogni Primo Ministro inglese ha il dovere, appena ricevuta l'investitura, di scrivere una lettera indirizzata ai Comandanti di tali sottomarini con le istruzioni da seguire in caso di attacco nucleare.
Jeremy Corbyn ha destato un putiferio fin dai primi giorni della sua elezione, dichiarando che, in caso di vittoria Labour nelle prossime elezioni nazionali, non darebbe mai il suo consenso al lancio di una guerra nucleare. Sono seguiti dibattiti a non finire su tutti i media, in cui i sostenitori pro-Trident esaltavano l'importanza della mera presenza di queste testate nucleari come 'deterrente' nei confronti di eventuali paesi avversi. Molto si è detto sul senso di questa 'deterrenza' , comprese voci secondo cui praticamente tutti gli ex primi ministri non avrebbero mai dato disposizioni attive in tal senso. Quindi si tratterebbe di un bluff, la commedia del "io so che tu sai che io so".
Ma il punto naturalmente non è quello, non vale neanche la pena verificare o meno tali voci. Corbyn non si è limitato a dichiarare che non autorizzerà mai una guerra nucleare. Il punto sono i miliardi in gioco per il rinnovo del Trident, che andrà al voto fra breve. Il leader laburista si è spinto a dire che si batterà per lo smantellamento del programma Trident in quanto tale.
Inammissibile.
Puoi dire che sei contro la guerra quanto vuoi, ma non puoi mettere a repentaglio l'industria militare. E su questo punto Corbyn si trova contro anche membri auterovoli del suo partito, come Andy Burnham, ministro ombra degli Interni e John Woodcock, rappesentante, guarda caso, della circoscrizione elettorale di Burrow and Furness, dove i sottomarini vengono fabbricati. Nonchè uno dei pochi sindacati a lui avversi, quello che rappresenta i lavoratori coinvolti in questo ramo dell'industria militare. Naturalmente Corbyn ha sempre precisato di tenere in considerazione le problematiche relate ai lavoratori, tant'è vero che sostiene la riconversione dell'industria bellica a seguito dello smantellamento del Trident. Ma questo è un dettaglio che i media mainstream amano omettere, facendo passare il messaggio che il nuovo leader labour intende chiudere l'industria dei missili tout court, incurante del destino degli operai e di tutti i lavoratori coinvolti.
Interessante, per capire il contesto, è il fatto che pochi giorni fa il Ministero della Difesa di questo governo, ancora prima dell'eventuale approvazione del rinnovo del Trident da parte del parlamento prevista per giugno, ha già annunciato la progettazione di nuovi sottomarini d'avanguardia, "I sottomarini nucleari più tecnologicamente avanzati nella storia della Marina Reale" stando alle parole del vice ammiraglio Simon. Dispositivi il cui stanziamento fa parte di un pacchetto di miliardi stabilito dalla legislatura precedente, quindi viene dato per scontato che il rinnovo del Trident ci sarà, in barba alle procedure democratiche in corso.
In sostanza sembra che, dietro la facciata dei meccanismi parlamentari di voto, i giochi siano decisi a tavolino già da tempo dai capitani d'industria e da ministri e parlamentari compiacenti provenienti da ogni parte politica, con in ballo miliardi di sterline, numerose grandi e medie industrie coinvolte e migliaia di posti di lavoro promessi all'elettorato.
Logico che la matassa di interessi coinvolti non gradisca un Jeremy Corbyn vetero marxista, potenziale prossimo leader del paese, che dichiara di voler smantellare tutto il loro progetto.
All'alba della sua elezione, sulla stampa erano addirittura comparse dichiarazioni anonime da parte di stati maggiori dell'esercito in cui minacciavano ammutinamento di massa e, ancor peggio, alludevano ad un eventuale colpo di stato nel caso Corbyn diventasse Primo Ministro alle prossime elezioni nazionali.
Ora come ora si discute di eventuali opzioni fin prima mai considerate, compresa la possibilità di pattuglie di sottomarini privi di testate nucleari. Insomma, anche qui - come nel caso del voto sulla Siria - l'effetto Corbyn sta già avendo dei risultati in fase di dibattito.
I prossimi mesi saranno decisivi per la politica britannica e vedremo come il nuovo leader si misurerà con l'attuale governo. E con i suoi colleghi plasmati dagli anni di Blair.
Fonte: Megachip Globalist
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