di Alberto Torti e Paolo Fumagalli
Con l’approssimarsi della fine del secondo mandato di Barack Obama, il grande pubblico e gli specialisti volgono la loro attenzione in direzione di Washington, per capire chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca. L’importanza delle presidenziali statunitensi sta nel fatto che gli USA sono ancora, per il momento, l’unica superpotenza sulla scena politica ed economica globale, ma soprattutto rappresentano ancora l’attore più impegnato sulla scena internazionale. I mandati di Obama hanno visto sul fronte interno l’impiego delle risorse statali per combattere la crisi economica che ha flagellato l’economia americana dal 2008, e per livellare l’iniquità del sistema sanitario.
A livello internazionale, il Presidente statunitense si è impegnato per ridurre l’impegno americano, almeno in via ufficiale e in termini di presenza visibile di truppe in Iraq (e parzialmente in Afghanistan); ha inoltre cercato di cavalcare l’onda lunga delle cosiddette Primavere Arabe del 2011 sperando in una transizione democratica interna di quei Paesi. Infine, si è adoperato in Medio Oriente per stabilizzare le relazioni con l’Iran, cercando allo stesso tempo non rimanere invischiato nel pantano siriano, anche se si è visto costretto a intervenire per contrastare militarmente la minaccia di Daesh.
A livello internazionale, il Presidente statunitense si è impegnato per ridurre l’impegno americano, almeno in via ufficiale e in termini di presenza visibile di truppe in Iraq (e parzialmente in Afghanistan); ha inoltre cercato di cavalcare l’onda lunga delle cosiddette Primavere Arabe del 2011 sperando in una transizione democratica interna di quei Paesi. Infine, si è adoperato in Medio Oriente per stabilizzare le relazioni con l’Iran, cercando allo stesso tempo non rimanere invischiato nel pantano siriano, anche se si è visto costretto a intervenire per contrastare militarmente la minaccia di Daesh.
I suoi aspiranti successori del Partito Democratico (statunitense, ovviamente) sanno che dovranno fare i conti con un’eredità importante, e qualcuno tra loro ha già riconosciuto i meriti del mandato di Obama. Nel campo democratico, colpisce il successo inaspettato e sempre crescente di Bernie Sanders: dato in costante ascesa nei sondaggi, ha perso di poco in Iowa e largamente vinto in New Hampshire, i primi due stati in cui si è votato. L’outsider progressista ha sconvolto con la sua campagna gli equilibri politici statunitensi più di quanto abbia fatto Donald Trump. E se l’attenzione in campo democratico è puntata sulla sfida lanciata da Sanders a Hillary Clinton, un inciso deve essere fatto per dovere di completezza: anche il terzo candidato, Martin O’Malley, governatore del Maryland, che si è presentato alle primarie con una proposta genuinamente progressista, sembra essere una persona valida e competente.
Bernie Sanders ha giustamente acceso grandi speranze tra chi nutre simpatie riformiste di sinistra: il 74enne si definisce socialdemocratico (per un politico statunitense, praticamente uno scandalo), denuncia l’influenza eccessiva del denaro nel sistema elettorale, chiama a una “rivoluzione politica” fatta di partecipazione e accende i riflettori sulle diseguaglianze presenti negli USA e sulla scomparsa del ceto medio. Sembra essere, insomma, un leader (come Jeremy Corbyn, e con le dovute differenze di contesto, come Iglesias e Tsipras) intenzionato ad affrontare la crisi economica attuale con proposte “di sinistra”, cioè volte alla redistribuzione della ricchezza e alla valorizzazione degli interventi pubblici in settori come la scuola e la sanità.
Riguardo a Hillary Clinton, nella poca stampa italiana che si occupa della questione, si è diffusa invece l’idea che sia la candidata dell’establishment politico-finanziario (il che è indubbiamente vero, vista la sua storia personale e politica), e che, nelle elezioni presidenziali, sarà la candidata in grado di sfondare al centro. L’ex Segretario di Stato, si scrive da molte parti, si ispirerebbe alla c.d. terza via, il tentativo cioè di conciliare liberismo e socialdemocrazia. Di questa ideologia furono maestri Bill Clinton (e, di riflesso, l’allora First Lady Hillary) e, in Europa, Tony Blair. Tuttavia, attribuire anche alla Hillary Clinton del 2016 questa tendenza politica potrebbe essere riduttivo.
Hillary Clinton ha cambiato radicalmente idea su alcuni temi (come le politiche economiche e sociali, la politica estera, in particolare con riferimento allo sciagurato intervento in Iraq, i matrimoni omosessuali), al punto che una delle accuse più frequenti dei suoi sfidanti è quella di incoerenza rispetto alle posizioni sostenute in passato. L’ex First Lady mostra poi grande attenzione a questioni storicamente “di sinistra” come le diseguaglianze, la parità tra i sessi, i cambiamenti climatici, l’accoglienza degli immigrati e, addirittura, accusa il suo sfidante principale di essere troppo poco severo sulla questione delle armi. In sintesi, benché la proposta di Bernie Sanders sia senza dubbio più radicale, Hillary Clinton non insegue più il centro, come fa notare un attento osservatore della politica estera.
Cos’è accaduto? Semplice: la candidatura di Bernie Sanders ha obbligato Hillary Clinton a tener conto del mutato scenario economico e sociale e dell’impoverimento della classe media. Per dirla in politichese, di fronte al timore di perdere consensi “a sinistra” e regalare la vittoria nelle primarie democratiche al senatore del Vermont, Hillary Clinton si è spostata su posizioni più progressiste. Grazie alla candidatura di Sanders e al conseguente riposizionamento di Hillary Clinton, a prescindere da quello che sarà l’esito delle primarie, il candidato democratico o la candidata democratica si ispireranno a un’idea politica che in Europa definiremmo socialdemocratica. Se vincerà l’ex Secretary of State, e sarà coerente con quanto ha promesso nella campagna delle primarie, dovrà proporre politiche redistributive ed essere attenta ai diritti civili e all’ambiente, e dovrà riconoscere la grande lezione che ha tratto dalla campagna di Sanders. Potrebbe sembrare una questione di mera tattica, ma la politica è fatta anche di questo: anche prima del successo nel New Hampshire, Bernie Sanders aveva già ottenuto una prima, grande vittoria.
Fonte: Esseblog
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