La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 15 gennaio 2017

Il disarmo culturale della politica (e della sinistra)

di Salvatore Biasco
Il disarmo intellettuale
Quando un partito (o uno schieramento politico) è un “mondo” culturale percorso da elaborazione profonda e storia, la fusione e amalgamazione delle generazioni e dei ceti che in esso si riconoscono è fluida e facilitata. Per lo meno ne è condizione necessaria, visto che della frattura generazionale che si è verificata all’interno della sinistra il crollo intellettuale è certo una delle cause. Una frattura, che ha determinato una perdita in entrambe le direzioni depauperando i canali per la memoria storica, la trasmissione e l’acquisizione di problematiche, le categorie analitiche e la verifica della loro idoneità a interpretare le trasformazioni, nonché la condivisione reciproca di soggettività e di quanto domandato e offerto alla politica.
Oggi è un bell’evento [il seminario del 16, NdR] di cui dobbiamo ringraziare Bottos e il gruppo che si riunisce attorno a Pandora, che hanno consentito questo confronto tra una parte più riflessiva e più militante della nuova generazione – che sente questo smarrimento e si chiede quali siano le coordinate della sinistra – e personalità che hanno vissuto altre epoche, ma che si pongono gli stessi problemi, in una ricerca convergente con le loro ansie politiche e intellettuali. 
Se la sinistra “riformista” (da ora in poi “sinistra”) non ha più una decifrabile identità e cultura politica non tutto è ascrivibile a leadership più recenti (che pure hanno abbondantemente messo del proprio e reciso i legami con quel che rimaneva di vitale). Quando si è sciolto il partito in cui militavo (i Ds) per confluire nel Pd, – lasciatemi iniziare con una reminiscenza – non ha lasciato in eredità né un dibattito culturale, né idee specifiche di governo, né un patrimonio di elaborazioni, strutture di staff, scuole di partito, un rapporto con gli intellettuali. Quel poco che rimaneva di identificazione culturale era per un ricordo del passato che ancora sopravviveva.
La progressiva penetrazione della narrazione del presente espressa dalla cultura egemone è frutto di un disarmo. Al meglio, essa candida la sinistra come forza capace di guidare più ragionevolmente l’adattamento ai canoni stabiliti dalla forza di pressione del mercato mondiale, fissando su quale arretramento attestarsi nel campo dei diritti sociali, del welfare e delle ampiezza delle fratture tra oligarchie e popolo. Non certo la pone come forza che aspira a proporre le leve per uscire dalla morsa e affrontare il futuro secondo linee più immaginative e partecipative.
Dove identificare la cultura politica
Sono stato invitato qui, penso, per avere stimolato la riflessione sulla cultura politica in un libro recente, ma anche come membro del network “Ripensare la cultura politica della sinistra”. Un network informale nato dall’esigenza di non disperdere e portare a massa critica tante forze intellettuali che in questi anni hanno lavorato per tenere vivo il pensiero critico sulla società capitalistica. Ciò, nella speranza che le comuni riflessioni fossero utili alla politica e a una sinistra che vuole (e deve) fare i conti con il cambiamento e la trasformazione, con le nuove soggettività, i vincoli di politica economica, i passaggi di ammodernamento dello Stato e la crisi fiscale, ma non ha intenzione di abdicare alla sua storia migliore e di perdere la memoria di sé stessa. E che vuole cercare le leve per guardare al futuro
Sarebbe bello poter entrare nel merito di ciò che è emerso in incontri che hanno riguardato le idee forza della sinistra, la ricostruzione dello Stato, il rapporto tra corpi sociali e istituzioni, oltre a un’analisi per spaccati della società italiana. O poter parlarvi dell’impegno attuale nella ricerca dei connotati che può assumere il socialismo nella realtà odierna.
Non bisogna, tuttavia commettere l’errore di pensare che la cultura di un partito sia un prodotto intellettuale. Sarebbe un errore grave. Essa è una elaborazione quotidiana che deriva da una interazione complessa tra azione, esperienza, idee condivise con i militanti e simpatizzanti, formazione dei dirigenti, insediamenti sociali, memoria storica, letture della società e orientamento istintivo di masse popolari. E’ tutt’uno con la prassi stessa di un partito che ne sia portatore.
Se è così, occorre parlare di cultura politica (di un partito, di un’area o di una schieramento) come un misto di vari ingredienti, che declinerei in quattro direzioni.
Da un lato è espressa dall’universo antropologico, che, con varie mediazioni, accomuna le percezioni, le sensibilità, il modo di ragionare e di impostare i problemi dei dirigenti e delle masse di aderenti e simpatizzanti, (il popolo di sinistra) e giustifica l’appartenenza allo stesso ambito politico; mi riferisco a quell’universo insito nel modo di sentire, di interpretare il mondo, di impostare le relazioni causa-effetto, di dare le gerarchie di valore e definire l’immaginario collettivo, largamente diffuso e condiviso a livello popolare.
Da un altro punto di vista, è espressa dalle fonti di ispirazione del pensiero introiettato (o consapevolmente elaborato) dalle sue élite (e fatto proprio dal partito), che arriva a coinvolgere la rappresentazione delle relazioni economiche e sociali, fino alle interpretazioni della storia, alle posizioni filosofiche e dottrinarie professate e alle angolature utopiche e ideali e le categorizzazioni di quel pensiero.
Ma sono, ancora, cultura di un partito anche quegli orientamenti più contingentemente empirici riferiti alle modalità di svolgimento della politica nel quotidiano, che attengono soprattutto alla formazione di chi la pratica a livello dirigente. Modalità, che trasmettono al corpo sociale il costume di viverla e di riprodurla oltre che i linguaggi, i riti, valori e disvalori, gli slogan, l’orizzonte temporale e il rapporto da tenere coi media. L’attività politica in quanto tale produce cultura (che oggi identificheremmo nel politicismo).
Non marginale rispetto agli altri aspetti, il partito (o schieramento) che rappresenta la sinistra si definisce culturalmente anche per come concepisce e organizzare la funzione intellettuale e per il rapporto che instaura con le competenze e i saperi.
I vari livelli si intrecciano
Ovviamente questi quattro modi di declinare la cultura politica (l’antropologia, le interpretazioni della società, la politica nel contingente e la funzione intellettuale) a interagiscono tra di loro.
Ci sono aspetti spontanei nella cultura di massa propria del popolo di sinistra derivati dalla memoria o da un’idea elementare di giustizia sociale, o da altro, ma c’è anche un modo di assorbire, far proprie e diffondere le linee di ragionamento e giudizio che discendono dall’alto facendone leva di azione e orientamento. C’è quindi una responsabilità pedagogica che attiene a chi esercita una guida popolare.
Questa non è stata più svolta, anche per l’affievolimento dell’azione collettiva. Il che ha agito in due direzioni, o portando al disarmo e rassegnazione di chi è stato investito dal senso comune (fatto proprio anche a sinistra) che non vi sia possibilità di alternative sostanziali al modo d’essere della società moderna; oppure, portando – chi ha mantenuto gli ingredienti tradizionali – a orientarsi verso il ribellismo, la protesta o l’agitazione di velleità confuse e irrealistiche espresse emotivamente più che politicamente. La sinistra ha cessato di essere la sfida interna alla società di mercato e definire sé stessa in relazione dialettica col sistema capitalistico in un progetto di governo effettivamente riformista (nel senso che dirò dopo).
In tal modo, la leva che essa ha sempre fatto su quella disposizione critica del suo popolo e sulla vigile forma mentis dei militanti (i quali nel tempo andato avevano spontaneo il riferimento critico verso i meccanismi del sistema economico nel suo insieme) è un patrimonio andato sostanzialmente disperso. Quella disposizione critica era una porta sempre aperta per la ricerca dei correttivi democratici, che poi si è dissolta progressivamente sotto la suggestione che era necessario appropriarsi – sia pure inseguendo qualche impronta propria – dei caratteri e delle “leggi” che la modernità ha impresso ai sistemi economici; una modernità consacrata come tale da un consensus non sfidato.
Se mettiamo una di seguito all’altra le proposizioni veicolate dagli orientamenti e dalla pratica, forse più che da una teorizzazione propriamente riflettuta, la sequenza è impressionante. Si tratta di proposizioni che possono pure avere qualche giustificazione relativa, ma che andavano discusse criticamente non assunte senza vero scrutinio e assolutizzate. Le elenco senza gerarchie: che il mercato sia l’unico agente di crescita; che la concorrenza e liberalizzazioni siano indistintamente una strumento di efficienza; che le politiche debbano essere business friendly; che la figura destinataria della politica economica sia il consumatore individuale; che le politiche debbano far perno solo sull’offerta e che questo imponga mercati flessibili; che l’obiettivo primario nel mercato del lavoro sia l’employability non l’occupazione e i diritti; che i sindacati siano elemento superfluo di rigidità e conservazione; che lo scopo delle imprese pubbliche sia di creare valore ed essere sottoposte allo scrutinio e alla logica del mercato; che quelle dei servizi pubblici locali siano imprese come tutte e non elemento della cittadinanza; che l’autonomia delle parti e gli esiti contrattuali possano far premio sul diritto; che lo stato debba essere leggero, e che per sua natura è inefficiente; che l’amministrazione pubblica debba introdurre regole che simulino il settore privato; che l’efficienza pubblica sia misurata sul metro su cui la misurano i privati; che le tasse vadano ridotte anche diminuendo i servizi; e altro. Si potrebbe poi citare il disarmo verso la ricchezza e le diseguaglianze.
Intendiamoci: con ciò non affermo che non ci sia da incorporare nella cultura della sinistra un’attenzione alle conseguenze indesiderate dell’azione sociale, capire le conseguenze sulle classi più deboli e sui diritti di cittadinanza di burocrazia, sprechi e inefficienze amministrative nella produzione di servizi pubblici, impadronirsi del rapporto strumentale con il mercato tra i mezzi dell’azione pubblica, quando necessario a rompere oligarchie o oligopoli privati. Ma un conto è questo, un altro è avallare nella direzione degli indirizzi citati l’idea che il riformismo sia la realizzazione delle “riforma di struttura” come son venute a definirsi nel senso comune e nei precetti neo liberali e tecnocratici, invece di intendere il riformismo come quell’intervento sui meccanismi che spostano potere e reddito, aumentano la socialità nel processo produttivo e il controllo sugli esiti dei processi spontanei guidati dal mercato. E, in più, che creino partecipazione e protagonismo sociale. In altre parole; che correggano il capitalismo e lo subordino il più possibile a strumento della volontà pubblica.
Non si mantiene una cultura antropologica e una identificazione politica senza una narrazione potente delle coordinate di marcia, e senza alimento a una soggettività critica che porti larghe fette della popolazione a percepirsi come soggetto della propria storia attraverso pratiche collettive. Ma questo presuppone formazioni politiche di grandi ambizioni e vedute, non partiti di opinione che trattino che trattino gli individui come una massa atomizzata (spesso di consumatori e utenti). Abbiamo smarrito (salvo risvegli improvvisi e tardivi, privi di orientamenti per l’azione) l’idea che i meccanismi, lasciati al mercato, producono instabilità, diseguaglianze e grave differenziazione di potere, che solo la politica può contrastare; che l’instabilità è congenita e va governata, che la società va costruita consapevolmente attraverso istituzioni e ingegnerie sociali che spostino potere e reddito e creino coesione e stabilizzazione; che a questo fine sia necessario contestualmente dotare i cittadini di strumenti politici (non di renderli oggetto del risparmio di qualche euro di spesa all’anno o di soluzioni illusoriamente tecnocratiche), che lo Stato è potenzialmente la migliore risorsa. E oggi, dato lo scollamento del popolo dalla politica, una soggettività critica e una energia identitaria non è ricostruibile senza proporre una scelta di campo che definisca il “chi siamo”. E vi sono temi, sui quali non posso entrare nel merito (l’ho fatto nel libro) quali quelli di avanzamento della democrazia, di qualità del progetto di governo, di difesa dello spazio pubblico, di eguaglianza, di ruolo dei corpi sociali, del tipo di rappresentanza e dei modi stessi d’essere espressi dal partito, nonché di snodi culturali, in cui la definitezza delle posizioni deve essere una discriminante netta, tale da configurare una distinzione tra “noi” e “loro”. E questo vale anche per l’Europa: “noi” che a quel livello vogliamo ricostruire una economia mista, regole al capitalismo e alla finanza mondiale, politiche industriali e uno stato (europeo) socialmente significativo, a partire dal perseguimento della piena occupazione (quindi: non solo spazi per fare individualmente più debiti e utilizzarli nel mercato politico) e “loro” che si oppongono a tutto questo. E dobbiamo essere in grado, con un’azione culturale capace di approfondimento analitico, di impedire che molti militanti e elettori di quello che è stato il nostro popolo possano cadere dell’illusione di facili e regressive scorciatoie fuori dall’Europa.
L’organizzazione della cultura
Finora siamo rimasti sul terreno di come si presenta il quadro secondo le prime tre declinazioni che ho dato di “cultura politica” Per quanto sia un tema caduto in disuso vorrei toccare anche il quarto: la questione dell’organizzazione della cultura. Ne parlo perché i dirigenti da tempo non hanno più creduto in una funzione culturale. Se è vero che nulla della visione del mondo di un partito può (né deve) essere un prodotto squisitamente intellettuale è anche vero che l’organizzazione e la mobilitazione degli intellettuali e il rapporto che con essi si instaura – a partire dalle domande che sono loro trasmesse – é un pezzo cruciale di identificazione di un partito. Siamo passati dal Pci che mirava a una propria interpretazione della storia, della società, delle cose mondiali e prendeva posizione, anche direttamente, in dispute filosofiche, storiche, letterarie, e perfino artistiche, antropologiche e di teoria economica, ad oggi.
Per carità! Non vogliamo assolutamente questo, né rappresentazioni organiche, o visioni escatologiche né chi le interpreta. Nessun integralismo, ma una qualche definitezza culturale, sì. Laicismo, non nebbia. Oggi non riusciremmo neppure a identificare quale siano i dieci testi fondanti che rendono comuni le coordinate culturali e politiche dello strato dirigente, del personale politico, militanti e simpatizzanti e che producono la base di omogeneità nel Pd. Abbozzare una risposta sarebbe impossibile (lasciamo stare l’ironia). Ugualmente impossibile sarebbe se ci chiedessimo quale la lettura viene data della società. E potrei continuare a lungo, aggiungendo i legami che si sono persi con l’accademia, dove anche che quel poco di battaglie che avvengono con implicazioni nella politica sono estranee a questa sfera che non è più attrezzata né a captarle, né utilizzarle, tanto meno a alimentarle.
Le tante sensibilità presenti nella sinistra non possono essere un alibi. Sono una ricchezza se vi è un fondamento culturale di base comune, che presuppone dibattito aperto, ma, se vi è disinteresse per questo e un “rompete le righe” sono altrimenti una baraonda priva di un baricentro (che non comunica nulla all’esterno).
Parlando di organizzazione della cultura, degli specialisti, della funzione tecnica nella politica, del ruolo e dell’investitura politica degli intermediari culturali con i saperi specifici, delle modalità di attivazione e mobilitazione delle energie intellettuali e tecniche, in realtà parliamo di “politica” e di come questa, nelle sue trasformazioni, abbia perso capacità di organizzare attorno alle sue domande (sempre meno definite) e alla sue battaglie (inesistenti) le competenze tecniche e la funzione culturale. Non è un caso che la sinistra ha rinunciato a combattere per un proprio punto di vista e per l’egemonia culturale e sia priva di antenne per intercettare fermenti e tensioni della società.
Qui non è questione di quei legami ineluttabili tra intellettuali e la politica che avvengono come connessione spontanea, episodica e su base individuale, generalmente priva di finalizzazione e di canali effettivamente aperti nelle due direzioni, oltre che di interconnessioni di ruoli. E’ questione di vera e propria mobilitazione e sollecitazione. Neppure si può dire che la funzione culturale è risolta in via indiretta, spontanea o autogestita dall’esistenza di think thank, centri, fondazioni, quando in tutto ciò che ruota loro intorno le formazioni di sinistra non sono il referente, ne’ sarebbero in grado di esserlo, per cui le imprese culturali di area devono inventarsi una domanda politica (“come se”), e diventano spesso (loro malgrado) centri autoreferenziali o che funzionano per l’autosoddisfazione di chi vi opera, quando non si disperdono, disperdendo energie intellettuali. Di certo, non hanno possibilità di accrescere il capitale cognitivo collettivo.
Questo mi sollecita tre considerazioni che espongo sinteticamente.
Lo strato degli intermediari culturali
La prima considerazione è che l’integrazione e l’utilizzo nella “macchina politica” dell’elaborazione intellettuale e tecnica non è un processo spontaneo a cui presieda qualche contatto personale o la circolazione di articoli, atti di convegno, convegni occasionali, siti internet, libri, ecc. (meno che meno rassegne stampa). Quell’integrazione è frutto di strutturazione, volontà e prassi politica, nonché di routine organizzate. La linfa vitale rimane l’esistenza di uno strato intermedio tra politica e mondo dei saperi, su cui un partito non può non puntare, riconosciuto nei vari ambiti professionali e accademici e dell’azione collettiva, e capace di selezionare, sollecitare e tradurre in visione e proposta politica l’espressione, l’elaborazione e la testimonianza che da quegli ambiti proviene, integrando le persone e la competenza specifica nei processi di partito. Queste figure costituiscono il canale per dare rappresentanza a coloro che non si avvicineranno mai all’attività politica diretta, ma che per il loro lavoro si trovano in punti sensibili della società. Occorrono lunghe catene di attivazione di reti personali per mantenere vitale e organizzare una stanza di compensazione tra studiosi e esperti, che lavori a una selezione di idee e temi e a un inventario di proposte come supporto a un terminale politico. Ma senza quella sponda quel lavoro non ha senso e l’attività individuale si disperde intellettualmente altrove. Questo mobilitazione è mancata, le figure pivotali non hanno trovato cooptazione e ruolo nella politica, la divisione tra interno e esterno si è accentuata e molto è avvenuto nel segno dello spreco. Questa o quella individualità non colmano il vuoto perché ciò che conta sono ruoli vissuti collettivamente.
Senza questo impianto, fondazioni, consulte, sezioni tematiche, incredibili scuole quadri che possono di volta in volta esser inventate dai dirigenti, sono un orpello.
Ed esse non salvaguardano il patrimonio di motivazioni e disponibilità di uno strato più largo di intellettuali pronto a spendersi individualmente, ma che è soggetto a depauperarsi – per disaffezione o disinteresse – se percepire l’utilità della partecipazione come evanescente, i metodi di lavoro dubbi, l’occasione di coinvolgimento estemporanea e priva di continuità e finalizzazione, le idee come utilizzate à la carte e poi gettate via, poca o nessuna influenza sulla formalizzazione delle questioni generali (e perfino settoriali specifiche), che rimangono comunque campo esclusivo degli insiders, che terranno la rappresentazione dei temi nelle sedi proprie e ne sceglieranno a discrezione le dosi di appropriazione (oltre tempi e modi).
In sintesi, il coinvolgimento come genere di consumo e non di investimento.
I tecnici
Si potrebbe pensare che un partito non strutturato per le funzioni intellettuali lo sia per una preminenza che dà alle conoscenze tecniche, alla scienza dell’amministrazione e quant’altro orientato all’esercizio e al programma di governo. Per quanto possa esserne discutibile l’unilateralità di riferimento, le funzioni tecniche sono necessarie alla politica. Ma neppure questo è riscontrabile.
È vero che un partito trova comunque i suoi quadri, i suoi staff e i suoi ministri in un esperienza di governo. Ma questi finiscono per costituire una élite che fa tutto in completa delega mettendo in pratica, nei campi di responsabilità, convincimenti personali, personali elaborazioni, quanto nasce da personali contiguità culturali a gruppi specifici della società. Personalità diverse danno luogo a varianti non piccole di politiche. Quest’élite “adottata” non ha il compito di tradurre in azione di governo una elaborazione collettiva, se non in senso molto lato. Per cui rischia di essere un corpo estraneo e poco integrato col resto dell’attività politico-partitica e con le sue pulsioni. Rischia di pesare e aver ruolo solo in sede tecnocratica mentre l’esperienza di governo è in corso, senza lasciare molto in sede politica (e culturale) ad esperienza finita. E ciò vale in modo singolare anche per il governo che ci ha preceduto in cui è stato il leader ad assumere su di sé l’autonomia che in altre esperienze attribuiamo ai ministri e al personale (in senso lato) di governo.
Che questa autonomia ci sia si capisce (e perfino si giustifica). Se escludiamo quella che ancora considero una straordinaria elaborazione prodotta dal Cespe nel 1991-4 e che ha pesato nei programmi successivi, ciò che proviene dai partiti sono generalmente declinazioni di buone intenzioni e petizioni di principio, che non riescono dare in qualche punto un senso dei bivi di scelta che una missione di governo comporta quando deve tradurre in provvedimenti effettivi (e in scelte concrete) impostazioni e formule generiche che aleggiano a molti metri dal suolo. E’ parte di una cultura distorta (praticata anche con più forza dalla sinistra più radicale) il pensare che l’enunciazione di un principio, di una intenzione, di una denuncia basta a definire una politica o una capacità di governo. E quindi, i programmi a sinistra continuano a rimanere un esercizio retorico e un adempimento formale, non un asse per l’azione e , al tempo stesso, il riferimento per la crescita di una ’identità collettiva.
Manca poi la sponda di un gruppo parlamentare, il quale, per sua collocazione, potrebbe potenzialmente essere il pivot della situazione sul piano culturale e programmatico. Quando questo si forma senza nessuna ambizione di farne la punta di diamante di una costruzione progettuale e l’interlocutore autorevole di una vasta mobilitazione di saperi, quando le carriere interne sono tutte cooptative e centrare sulla fedeltà, il clan, il cursus honorum nel partito, quando il rapporto con tecnici e portatori di saperi è impostato in modo approssimativo, strumentale e spontaneistico, privo di domande o con antenne occluse ad intercettare e filtrare ciò che potrebbe essere utile non è lo sbocciare dei cento fiori in azione, ma qualcosa vicino alla rinuncia a definire un progetto e una fisionomia, quale che sia.
I raccordi
La terza considerazione parte da un tema già toccato. Se da un lato abbiamo una fioritura, strutturata e riconosciuta, di centri di elaborazione, una abbondanza di think thank, una dovizia di personale tecnico e intellettuale disponibile a spendere il proprio tempo a servizio della politica e dall’altro un deficit di elaborazione, di strategia, idee e rigore, nonché una difficoltà a comprendere la società, è segno evidente che qualcosa non funziona. E che non funziona la selezione delle persone, delle idee, né nella congiunzione dei due mondi.
La congiunzione dovrebbe anche riguardare il pezzo più spontaneistico di elaborazione che si esprime in rete, riflesso nella spinta a costruire siti, riviste on line, associazioni, portali e nella voglia delle persone di commentare, dire la propria, segnalare. E’ un campo verso il quale andrebbe indirizzata una significativa e immaginativa interlocuzione e convogliamento di idee. Un partito attento si darebbe le modalità e le risorse umane e finanziare per intercettare in rete tutto ciò che corre all’esterno (ovviamente, di utile e costruttivo): per intervenire, discutere, dibattere, spiegare, orientare, recepire e rielaborare, porre domande. Anche questa presenza quotidiana è un modo di produrre cultura e conoscenza (in primo luogo per se stessi), oltre che di far valere un punto di vista, se necessario.
Tuttavia, qualsiasi organizzazione della cultura è difficile senza incontrare una classe politica lucida nel disegno di porsi come centro (committente e destinatario insieme) di un fermento intellettuale che essa stessa non solo può far montare, ma che, poi, deve far convergere attorno a sé con capacità di programmazione e discernimento.
Il prestigio, per concludere
Non sorprendiamoci se in uno scenario che vede affastellamento di suggestioni un partito diventi permeabile a idee pret a porter che derivano dal senso comune, a sua volta plasmato da chi esercita un egemonia culturale e la coltiva con dovizia di mezzi e forte determinazione. E che oggi viene rielaborata una nuova destra che ha guardato alla globalizzazione in modo meno idealizzato (anche se tutt’altro che corretto) di quanto una certa fiducia nel mercato e nell’impresa e un modo romantico di vedere il mondo, nonché un’acritica contiguità con le élite finanziarie, consentissero alla sinistra. Peccato che il tempo non mi consenta di sostare sull’”interesse” dei tempi.
Con un humus culturale debole, non si può aspirare a dare battaglia per una egemonia politica e culturale. Un partito non pesa solo per i suoi voti, ma altrettanto per la considerazione, la stima e il rispetto che guadagna attraverso, il suo apparato di pensiero, i suoi programmi, la propensione a costruire la società, l’indicazione di una agenda, la capacità di saper offrire una classe dirigente competente e all’altezza delle funzioni che aspira a svolgere. Subire, al contrario, una perdita di prestigio e di autorevolezza nella società, che è qualcosa di impalpabile, è un macigno difficile da rimuovere più ancora della perdita di consenso elettorale. Per risalire la china del prestigio non valgono cortocircuiti comunicativi o appelli ai buoni sentimenti.

Questo testo è tratto da una delle relazioni tenute all’inizio del seminario “Una nuova cultura politica? La sinistra in tempi interessanti. Generazioni a confronto” che si è tenuto venerdì 16 dicembre a Roma presso la Sala di Santa Maria in Aquiro del Senato. Ringraziamo il prof. Biasco per aver accettato di partecipare e di farci pervenire l’intervento che segue.

Fonte: Pandorarivista.it 

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