di Laura Pennacchi
In una recente intervista riportata da Social Europe, Jurgen Habermas, il più importante filosofo politico europeo dei nostri tempi – le dernière philosophe secondo l’icastica definizione della rivista cattolica Èsprit –, nel commentare la «mobilitazione del risentimento» operata dai dilaganti populismi e la capacità di un seduttivo «populismo di destra» di «rubare» temi propri della sinistra, denunzia la mancanza di «ogni tempra politica» nella sinistra stessa, desertificata dalla sua interminabile soggezione alla Terza Via di Blair e di Schroder, e indica nella riscoperta di un autentico discrimine destra/sinistra e in una «polarizzazione democratica» la via per la rinascita.
La «polarizzazione democratica» – l’opposto di quella convergenza al «centro» che Blair si ostina a rivendicare, nonostante i suoi fallimenti – implica una radicalizzazione nel definire «una riconfigurazione politica accettabile della globalizzazione economica» soggiogata dal capitalismo “scatenato”. Si tratta, in particolare, di ripristinare il conflitto su valori e programmi non dentro i partiti politici – come accade ora e come è inevitabile che accada quando si perseguono linee e prassi neocentriste – ma tra partiti politici, che debbono essere meno indistinti tra loro e debbono tornare ad assumere connotati più accentuati e diversificati. Ciò fa della distinguibilità e riconoscibilità del profilo ideale e progettuale di una forza di sinistra la questione cruciale.
C’è qui un monito forte per il Partito Democratico italiano, uno snodo non aggirabile tanto più ora che Renzi – il quale ne rimane il segretario, lasciata la guida del governo – si appresta a tessere la tela per la sua rivincita dopo la clamorosa sconfitta referendaria e il governo Gentiloni rivendica continuità con le politiche renziane, giungendo perfino ad auspicare la propria rapida autodissoluzione per favorire le agognate elezioni anticipate. Per valutare tutta la drammaticità di questo passaggio bisogna concentrare il focus, oltre che sulle pur rilevanti problematiche istituzionali e elettorali, su quelle economiche e sociali, ricostruendo la cifra complessiva dell’azione intrapresa fin qui sotto la leadership di Renzi nel segno di un’ispirazione neocentrista.
Due esempi, tra gli altri, appaiono significativi della rottura ideale e programmatica che sarebbe necessaria. Il primo riguarda la deformazione della proposta originariamente concepita come «pensione di garanzia» per i giovani, perché «deformazione» si deve definire la previsione – associata al recente accordo sulle pensioni stipulato a nome del governo Renzi dall’allora sottosegretario Nannicini – di subordinare la fornitura di futuri benefici pensionistici ai giovani a una decontribuzione strutturale non fiscalizzata che, in realtà (data la correlazione stringente tra contributi e prestazioni del vigente sistema contributivo), oltre a sottrarre preziose risorse all’Inps, abbasserebbe ulteriormente le pensioni per i giovani. Per di più la decontribuzione verrebbe accompagnata da un rafforzamento della previdenza complementare (resa addirittura obbligatoria?), con funzioni sostitutive e non integrative, con ciò rendendo evidente un’ispirazione tardo-blairiana e neoliberista volta a svuotare il pubblico a beneficio del settore privato.
Il secondo esempio è ancora più importante, concernendo il lavoro e gli investimenti pubblici. Infatti, di fronte alla «trappola della bassa crescita» in cui siamo caduti, al persistente spettro della deflazione, alla necessità di riprogettare un intero modello di sviluppo a partire dalla riqualificazione ambientale e territoriale, alla disoccupazione complessiva ancora bloccata al 12% e a quella giovanile intorno al 40%, bisogna mettere in essere investimenti pubblici straordinari, non ordinari investimenti generici. La convinzione che decisivi siano proprio gli investimenti pubblici in quanto tali – specie in un’epoca di bassi tassi di interesse e specie nelle infrastrutture dove i rendimenti per i privati sono endemicamente limitati – è ribadita da Larry Summers che in ciò vede la drastica differenza tra il piano infrastrutturale dei democratici e quello di stimolo fiscale di Trump, basato su benefici all’investimento azionario e su una totale partecipazione privata, che escluderebbe tutti i settori – invece vitali – impossibilitati a generare un alto rendimento commerciale.
D’altro canto, è un’illusione la speranza italiana di pensare di affrontare la vera e propria emergenza di fronte a noi – anche sul piano democratico – con strumenti quali Industria 4.0 (piena solo di stimoli fiscali, incentivi indiretti orizzontali, misure per le liberalizzazioni e per la competitività, in omaggio alla convinzione che il governo debba essere “neutrale” rispetto all’andamento dell’innovazione e debba astenersi dal “dirigere” alcunché) o con la litania della riduzione del costo del lavoro e dell’aumento dell’occupabilità dei lavoratori. È la Confindustria ad osservare che gli incentivi alle assunzioni come la decontribuzione hanno funzionato poco e male e che il Jobs Act «ha mancato di strutturalità», non essendo in grado di «fronteggiare in maniera organica la lotta alla disoccupazione» (da Il Sole 24 ore del 6 gennaio).
Si è preferito rimanere succubi di una sorta di supply side economics (economia dal lato dell’offerta) che, considerando il settore privato naturalmente in grado di generare il mix ottimale di risparmio e di investimenti, vede i disavanzi del settore pubblico e le relative spese pubbliche “spiazzanti” l’investimento privato e per questo prescrive all’operatore pubblico di astenersi il più possibile dall’intervenire in modo palese, salvo lasciargli molte forme “nascoste” di intervento. Vi concorre anche una lettura della rivoluzione tecnologica in corso come «guidata dall’offerta», un’offerta che, lungi dal dover essere sollecitata o tanto meno indirizzata, ha bisogno solo di incontrare il suo consumo, per cui l’unica cosa che conta è dare incentivi indiretti alle imprese e potere d’acquisto (cioè trasferimenti monetari e bonus) ai consumatori.
A fronte di tanta tradizionalità e di tanta inerzia progettuale e culturale a dispetto della retorica nuovista, impressiona il cambiamento di rotta – analitico e politico – di cui si mostrano capaci istituzioni come l’Ocse. Nel suo ultimo Economic Outook, nell’ambito di un netto apprezzamento di politiche fiscali e di bilancio aggressivamente più espansive – che non sarebbero per nulla «spiazzanti» l’investimento privato, con effetti benefici sulla produttività e sull’output – l’organizzazione internazionale si concentra sugli investimenti pubblici e mette in questione per l’Eurozona le regole del Fiscal Compact, chiedendo l’attuazione e l’ampliamento della golden rule, mediante l’estensione dell’esclusione degli investimenti pubblici dai criteri del deficit a tutte le categorie di investimento (non solo per i progetti co-finanziati dall’Unione) e su basi permanenti (non solo per speciali circostanze). La sollecitazione in favore degli investimenti pubblici, nell’analisi dell’Ocse, è rafforzata dal legame ipotizzato tra essi e la finanza fornita dalle operazioni monetarie della Bce in termini di quantitive easing, quasi echeggiando la proposta degli economisti progressisti e dei sindacati di un QE for public investment (un «QE per l’investimento pubblico»).
Fonte: il manifesto
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