di Giuliana De Vivo
Dopo la pronuncia della Corte costituzionale saremo tutti chiamati a decidere sul futuro dei buoni lavoro, i cosiddetti voucher. È presto per avere una data certa del referendum, si oscilla tra il 15 aprile e il 15 giugno prossimi. Salvo elezioni anticipate – in questo caso la legge prevede lo slittamento di una anno – o interventi riparatori del Parlamento, dove la commissione Lavoro della Camera sta già studiando cinque proposte di modifica ai discussi ticket per pagare il lavoro accessorio.
Ma com’è cambiato l’universo di chi è pagato con questo strumento, e quali sono stati gli effetti sortiti finora? Quando si vuole mettere in croce qualcuno – o qualcosa – ogni chiodo è buono, e i voucher ci hanno messo a poco a diventare l’emblema del lavoro precario. Narrazione facile in tempi di crisi e alta disoccupazione (soprattutto giovanile), e favorita dall’abbassamento dell’età media in questo microcosmo che rappresenta lo 0,23% del costo complessivo del lavoro in Italia.
In sette anni, racconta l’Inps nel rapporto Il lavoro accessorio dal 2008 al 2015. Profili dei lavoratori e dei committenti, pubblicato a fine 2016, l’età media è passata da 59,8 a 35,9 anni (si veda la tabella in alto a sinistra). Evoluzione notevole, che va di pari passo con quella legislativa: dall’introduzione dei voucher nel 2003 fino al 2008, quando esisteva un limite di destinatari (pensionati e studenti) e di ambito (lavori occasionali in agricoltura); passando per l’apertura, nel 2009, ai settori del commercio, turismo e servizi e a tutte le categorie di lavoratori (inoccupati, disoccupati, subordinati a tempo pieno e part time, autonomi); fino al “liberi tutti” della riforma Fornero (2012), che si è limitata a fissare un tetto massimo di 5 mila euro netti all’anno per lavoratore (in totale, anche da più committenti).
Così, spiega il professor Bruno Anastasia, dirigente dell’osservatorio Veneto Lavoro e autore dello studio assieme alla ricercatrice Stefania Maschio e a Saverio Bombelli del coordinamento statistico dell’Inps, se nei primi anni il “popolo dei voucher” era composto soprattutto da «pensionati che ogni tanto lavoravano in campagna, per esempio durante la vendemmia, con le successive liberalizzazioni il numero dei pensionati voucheristi è cresciuto ancora in valori assoluti (oggi sono più di 100 mila, raddoppiati dal 2010), ma la loro incidenza è diminuita, ed è al di sotto dell’1%, perché nel frattempo le altre tipologie di prestatori sono cresciute di più».
Guardando alla situazione professionale, il gruppo più cospicuo è composto dai 754 mila lavoratori “attivi”: il 45% di questi ha un impiego part time, il 30% lavora full time ma a tempo determinato, due su 10 sono a tempo pieno e indeterminato, gli altri stanno percependo un ammortizzatore sociale. Non si può dire, quindi, che la fetta più rilevante dei voucheristi trovi in questo strumento la propria principale fonte di reddito. Discorso a parte per i lavoratori extracomunitari (si veda la tabella in alto a destra): il numero medio dei voucher riscossi da questi è analogo a quello dei lavoratori italiani o comunitari; numericamente gli stranieri sono meno – anche se dal 2008 in poi sono cresciuti progressivamente molto di più – e, fa notare Anastasia, «la loro incidenza fra pensionati e studenti sarà scarsa perché in queste due categorie pesano poco sotto il profilo demografico».
Lo studio dell’Inps conferma però che se c’è un punto in cui lo strumento ha fallito è il suo obiettivo più ambizioso, l’emersione dal lavoro nero. Dalla distribuzione sulla cartina italiana è evidente che i buoni lavoro sono più utilizzati nelle aree più sviluppate: nel Nord Est il numero dei prestatori di lavoro accessorio è quasi doppio rispetto al Sud. Logico: se c’è meno offerta di impiego, vale anche per quello occasionale. Ma se si confronta, come hanno fatto i tre ricercatori (si veda il grafico in basso, al centro) il numero medio di voucher con la quota di occupati irregolari emerge una relazione inversa.
«Ci si aspetterebbe che, poiché al Sud c’è più lavoro sommerso, ci siano più buoni pro capite proprio per emergere da questo sommerso», osserva Anastasia. Ma «se ce ne sono di meno può voler dire che al Sud, per 100 ore di lavoro, il datore dà cinque voucher (il cui valore nominale è 10 euro, ndr), mentre al Nord quelle 100 ore sono pagate tutte con dieci voucher». Lo strumento, quindi, non è servito davvero per emergere dal nero, ma «semmai ne è stato una leva, per emergere quel tanto che basta a lasciare il grosso del lavoro irregolare ancora sommerso».
Fonte: pagina99
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