di Mimmo Cangiano
Academic Freedom
Pochi giorni fa il Prof. George Ciccariello-Maher della Drexel University (particolarmente famoso negli ambienti della sinistra radicale statunitense e latino-americana per le sue analisi sul Venezuela di Chávez[1]) si è ritrovato al centro di un bailamme mediatico a causa di questo tweet natalizio: “All I want for Christmas is white genocide”. Il consiglio amministrativo della Drexel ha scelto la posizione dell’ambiguità. Da un lato ha affermato di non essere divertito dal tweet del suo Faculty e di considerarlo “molto seriamente”, dall’altro ha ribadito il pieno diritto del professore ad esprimere le proprie idee nel dibattito pubblico: ha ribadito la sua “Academic Freedom”.
Il diritto alla libertà accademica (formalizzato negli Stati Uniti nel 1940) serve a garantire all’insegnante piena libertà nella scelta degli argomenti da trattare in classe, così come piena libertà nel taglio critico/interpretativo. Un docente ha il diritto di presentare il Venezuela di Chávez come esempio di un socialismo funzionante e rispettoso delle libertà individuali; un altro docente può insegnare il creazionismo come valida alternativa all’evoluzionismo. È in fondo un principio di natura liberale, in cui gli inevitabili scompensi culturali e ideologici che si creano saranno in teoria riassorbiti, da un lato, mediante la longa manus della comunità scientifica, e dall’altro attraverso le scelte degli studenti riguardo a università dove iscriversi e classi da seguire. Le aporie culturali della libertà accademica sono state ampiamente analizzate senza che si arrivasse ad una soluzione soddisfacente. Come spesso accade, però, fra una citazione da Zola e una da Leo Strauss, ciò che è rimasto fuori dal dibattito è la capacità di fidelizzazione che la libertà accademica – in quanto privilegio – comporta per gli intellettuali.
Si tratta infatti di un meccanismo geniale (e nessuna sorpresa dunque che la Drexel abbia voluto ribadirlo) portato a creare un nesso indissolubile fra l’intellettuale e il sistema educativo e amministrativo in cui opera (“ringrazierò sempre la mia Università per avermi dato piena libertà di esprimere le mie idee”). Il ruolo critico connesso alla figura dell’intellettuale è immediatamente posto, attraverso tale meccanismo, sotto l’egida di un privilegio da “aristocrazia operaia”. Ciò principalmente per tre scopi. Innanzitutto per assimilare all’istituzione lo strato-elevato degli intellettuali separandolo dagli strati intermedi e inferiori che non godono di tale privilegio: negli ultimi anni l’appoggio del personale assunto a tempo pieno alle rivendicazioni di professori a contratto e dottorandi è stato quasi ovunque sconfortante. In secondo luogo per legare strettamente il nome del corpo docente fisso a quello dell’università (cioè dell’amministrazione) in cui opera, e ciò al fine di indebolirne inevitabilmente la capacità critica. In ultimo per il consueto risarcimento psicologico che quella critica comunque comporta. Ci troviamo dunque già di fronte ad una condizione di ambiguità, in cui la critica culturale al sistema (“All I want for Christmas is white genocide”) deve suo malgrado avvenire sotto le insegne di un infido privilegio che il sistema comporta. Il controllo degli intellettuali dello strato elevato non richiede mezzi coercitivi finché la loro protesta, come se non bastasse separata da quella degli strati inferiori, è da un lato avvertita a livello sociale quale spazio-di-privilegio (e dunque così depotenziata) e, dall’altro, è forzosamente portata a autocompiacersi quale spazio critico di azione culturale e testimonianza. Questa particolare ambiguità, vedremo a breve, ha giocato un ruolo importante nella vittoria di Trump e nelle discussioni conseguenti.
Ma è solo l’inizio: la libertà accademica presuppone anche, almeno in teoria, un sistema rispettoso delle minoranze: gli evangelici oltranzisti avranno il loro “disegno intelligente”, gli studenti afro-americani le loro classi su “the problem of whiteness”. È chiaro che tale visione si basa su un’idea di minoranza del tutto artefatta, perché ancora esclusivamente intesa lungo direttive di natura culturale. Nel momento in cui gli intellettuali di sinistra allargano il posizionamento culturale della minoranza in gioco alla sfera delle relazioni materiali, è lo stesso principio della libertà accademica a ritrovarsi svuotato di senso. La sinistra afferma, a ragione, che le due minoranze non sono assolutamente assimilabili: non possono essere poste sullo stesso piano perché diversissimo è il loro specifico peso e ruolo nelle reali dinamiche sociali. La prospettiva di sinistra sviluppa in questo caso una risposta più che valida: riesce a tenere insieme punto di vista della minoranza e concreta dialettica sociale.
È nel momento del voto che tale dialettica però si sfalda. Nel momento in cui (alle elezioni) il punto di vista della minoranza non può più porsi come decisivo, quella valida risposta rivela la sua incapacità a calarsi davvero sul terreno della dialettica sociale. Rivela, voglio dire, il suo implicito desiderio di risolvere per via culturale le dinamiche sociali.
Una volta spezzata per via culturale la connessione sociale di classe, ad esempio (ed è solo il motivo più ovvio) quella che connette gli interessi materiali della classe lavoratrice bianca, latina e afro-americana, è difficilissimo pensare di ricostruirla al voto (è ciò che ha provato a fare Sanders venendo ampiamente criticato).[2] Ed è tanto più difficile non abbandonando la pregiudiziale culturalista, la quale si è politicamente tradotta nella pretesa di un’egemonia della minoranza e dei suoi intellettuali. La classe lavoratrice bianca non l’ha accettata: non ha visto in tale egemonia la strada di un miglioramento delle proprie condizioni materiali.[3] La sconfitta politica, come quasi sempre accade, ha aumentato la polarizzazione a sinistra, dando ad alcuni intellettuali l’impressione che il discorso culturalista fosse quello che meglio spiegasse le ragioni della sconfitta.[4] Un “razzismo” e un “fascismo” di natura eminentemente culturale (e a tratti antropologica) sono emersi come chiavi di spiegazione. Ci si è vendicati del ‘consenso’ trincerandosi nel punto di vista identitario che vorrebbe essere tutt’uno con le ragioni di una prospettiva illuminata. E le analisi che insistono, in un Paese largamente post-industriale, sulla polarizzazione dei voti fra le città e le aree suburbano/rurali sono parte del problema.
La destra si è limitata a fare il suo gioco, un gioco che il trumpismo è riuscito ad interpretare a un livello superiore ai suoi predecessori. Si tratta di due mosse tradizionali portate ad un livello nuovo: da un lato l’emersione populista è stata presentata come riscossa di un’identità culturale sotto attacco (“all lives matter”; contro la dittatura del politically correct; etc.), dall’altro si è insistito con estrema decisione sul discorso economico per occupare quello spazio politico relegato dalla sinistra a un ruolo subalterno. Il trumpismo è riuscito a dare una lettura economica del fatto ideologico e una spiegazione ideologica al fatto economico.
2. “Oh my God, I am so classist!”
Stavo fumando fuori da un bar di una piccola città del Nord-Est degli Stati Uniti che ospita una nota università. Ero in compagnia di un professore di poco più di quarant’anni. Mancavano circa due mesi alle elezioni. In un tavolo, a poca distanza da noi, erano seduti ragazzi e ragazze sui venticinque anni con davanti un discreto numero di birre. Non indossavano segni evidenti di appartenenza politica, nessun cappellino con scritto “Make America Great Again” e nessuna maglietta sessista contro Hillary Clinton. Eppure il tono della voce, la pesantezza dell’accento, certo vestiario da Tractor Supplies, li identificavano immediatamente quali rappresentanti di una certa America dimenticata da post Least Heat-Moon. Non avevo problemi né sensi di colpa a immaginarmi un cartello pro-Trump nel loro giardino, né, sinceramente, una discreta collezioni di fucili. Passò una macchina sgargiante con un clacson improbabile, “our future”, disse il professore. Poi, a scusarsi: “Oh my God, I am so classist!”. Da restarci gelato.
Cos’era diventata la “classe” per quel brillante intellettuale? “Race, gender, class”; “don’t profile me”; “don’t profile them”, parole che si leggono e si sentono spesso in un’università statunitense. Senza dubbio le ho dette e scritte anch’io qualche volta, ma così, purificate dalle citazioni da Foucault, da un accenno alla decostruzione e dai giri di frase, dal “I will challenge the schematic interpretations that…”, apparivano solo come l’estremo residuo di un sinistro pirandellismo, qualcosa che, dichiarando l’immediata falsità dello stereotipo, sognava in questo modo di lasciare intoccata la specificità di quei ragazzi, e così liberarli liberando se stesso. Coscienza del proletariato, identità da costruire, riconoscimento in opposizione alla classe borghese: niente di tutto questo. Si trattava di lasciarli intoccati e liberi dallo sguardo della classe borghese. Il classismo non era più oppressione materiale: era lo sguardo culturale del borghese sul proletario. La differenza fra la borghesia di sinistra e quella di destra era ridotta alla coscienza di tale sguardo.
3. Due parole sull’8 novembre
La reazione culturale della destra è stata devastante perché la narrazione ideologica del trumpismo è riuscita a tenere brillantemente insieme motivi materiali e culturali. Il fortissimo risentimento di classe (gli zoticoni bianchi fascisti) che si legge in controluce alle prime analisi sul voto è in fondo la rivincita che la realtà si prende sulla prospettiva culturale.[5]
Ma il trumpismo non ha vinto solo perché è riuscito a parlare surrettiziamente agli interessi materiali del paese (c’è anche quello), ha vinto pure perché è riuscito a puntare le armi dell’analisi culturale contro i suoi fautori. Una mossa vincente del trumpismo è stata separare le condizioni materiali delle minoranze dal discorso culturalista su quelle. Il trumpismo ha cioè identificato le minoranze stesse coi suoi ideologi[6]: è riuscito a far passare i privilegi di questi come privilegi delle minoranze. Ma la narrazione culturalista di sinistra, non chiarificando il rapporto dialettico fra culturale e materiale, gli aveva in questo senso preparato il terreno.
Clinton ha mantenuto un vantaggio significativo esclusivamente fra quelle categorie di elettori (afro e latino americani) che potevano vedere nel discorso culturale il riflesso di un miglioramento materiale delle proprie condizioni. Ma se il discorso sulla razza ha tenuto, quello sul genere no. In un paese dove uno studente di un college costosissimo ha, entrando in classe, il diritto di declinare i pronomi con i quali vorrà essere nominato, ma che allo stesso tempo concede – in particolare nei lavori svolti dalle classi meno abbienti – permessi di maternità non pagati e computabili in settimane (o addirittura in giorni), la narrazione femminista ha finito per ritrovarsi indebolita, anzitutto perché troppo facilmente assimilabile ad una posizione di classe. Come va detto che un buon numero di studiose femministe aveva avvertito di ciò per tempo, così va pure detto che ci troviamo di fronte a un’ambiguità non risolta. In questo caso la risposta culturalista secondo cui le donne hanno interiorizzato il patriarcalismo, è la controparte femminista della più generalizzata accusa di “Fascismo”, e risiede nella consueta prospettiva intellettuale che il mondo proceda per mutamenti di natura culturale.
Meno direttamente assimilabile alla subalternità economica del discorso razziale, il discorso femminista si è incancrenito per mesi in lotte ideologiche (i bagni unisex) che sono rimaste estranee al sentire popolare. Non si è riusciti a far percepire quelle lotte come parte di un movimento condiviso e vantaggi generalizzati. E non ci si è riusciti perché la contiguità fra culturale e materiale non ha formalizzato la propria narrazione (la propria dialettica). Determinati avanzamenti socio-culturali sono stati presentati nella luce particolaristica fornita dalla teoria culturale, invece che attraverso un universalismo politico che cerca consensi (alleanze) nei vantaggi comuni. Nell’identità subalterna (l’Altro) sono state assommate una serie di caratteristiche positive derivanti meramente – siamo al limite del misticismo – dalla condizione di vittima. Normale che, nella sconfitta, la controparte sia allora diventata depositaria di una mistica rovesciata di valori tutti negativi (Fascismo). Le “vittime” che hanno votato Trump hanno preferito rinunciare alla loro capacità di azione per accomodarsi nei valori (culturali) dominanti, come traditori della propria condizione. I Sanfedisti hanno tirato giù il castello di libri della Repubblica Napoletana.
Esagero. Trump non è il Cardinale Ruffo. Il trumpismo, naturalmente anche grazie alla debolezza di partenza di Clinton, è riuscito a tenere tutto insieme: intellettuali socialisti, “politicamente corretto”, discorso sulle armi, terrorismo, crisi economica endemica, immigrati e lavoro, critica della borghesia cittadina. Ha creato una narrazione farfugliata ma ben intrecciata, ed è riuscito a farlo perché, fra le questioni sollevate, si è avvertita una qualche “somiglianza di famiglia”. Il trumpismo è cioè riuscito a occupare quello spazio – lasciato libero a sinistra – che non riguardava semplicemente il discorso economico, ma proprio la dialettica fra discorso economico e discorso culturale. L’ha fatto ovviamente in modo stravolto, contraddittorio e rovesciato, ma proprio giocandolo su binari differenti è riuscito ad assicurarsi il massimo di consenso, perché ha potuto tenere insieme settori differenti per censo e per sentire culturale.
Il razzismo più becero è stato legato a un sentire di classe (l’America rurale); il politicamente corretto è stato accusato di essere meccanismo di difesa di un ceto privilegiato, proprio mentre si accusavano gli intellettuali di sinistra di aver abbandonato la difesa di coloro che dal politicamente corretto hanno in apparenza solo da perdere; si è evocata, populisticamente, una frattura fra borghesia e popolo (qui nel senso di Asor Rosa) mentre si prendeva la politica culturalista della sinistra a sintomo principe di questa frattura (nella Rust Belt particolarmente dolorosa); si è insisto sulla whiteness quale elemento addirittura perdente nel conflitto razziale in corso; poi ci si è appropriati del discorso delle politiche identitarie secondo il principio che l’America è “nazione bianca” (chiamata alla riscossa); poi si è detto che il conflitto razziale è un’invenzione degli intellettuali socialisti e si è per un attimo evocato (e Sanders se n’è accorto)[7] il conflitto di classe; poi si sono tranquillizzati i Repubblicani ‘classici’ avvertendo che non c’è nessun conflitto di classe e ci si è trincerati (non senza evocare qualche “fronte interno” con cui fare i conti) sotto l’aquila a stelle e strisce.
Se il trumpismo è Fascismo non lo è semplicemente perché punterà alla demonizzazione dell’Altro,[8] lo è per l’ideologia altamente composita in cui è capace di esprimersi,[9] costruendo una narrazione (tossica certamente) assai meno coesa di quella dei suoi avversari, ma assai meglio predisposta a comprendere e giocare la dialettica fra culturale e materiale in termini di consenso, come la sua “rivoluzione passiva” dimostra.
Dall’altro lato si è visto di tutto questo solo ciò che la narrazione culturalista permetteva di vedere. Le accuse di razzismo (e di “class reductionism”) rivolte a Sanders[10] sono solo uno dei sintomi della mancata comprensione di quella dialettica, e sono il prodromo alle accuse di Fascismo (culturale) ora formulate. Tale accusa è del resto profondamente legata ad un modo molto statunitense di leggere il Fascismo, un’ottica che ha le sue radici nella necessità di mantenerlo separato dall’azione capitalistica. È l’idea di un Fascismo come forma mentis, come attacco alle libertà individuali, come restrizione delle libertà civili, come soppressione dei diritti delle minoranze, come uniformità culturale. Ma non è un Fascismo come attacco alle lotte dei lavoratori, come modo violento di risolvere i contrasti fra capitale e lavoro, come risvolto politico di un modo di intendere il ruolo economico dello Stato.
4. “Pasolini had not read….”
Ero a una conferenza riservata ai dottorandi in un’università della costa Ovest. Sono incontri estremamente significativi perché, oltre ad interventi estremamente ragionati, vi si possono trovare ingigantite e messe a nudo le aporie di un intero sistema di pensiero (che è ormai, sia chiaro, americano come europeo o israeliano). Credo che in nessun’altra tipologia di convegno umano del Pianeta, ad esempio, sia riscontrabile un così vivo odio etico contro oscuri medici Positivisti. Vi si possono vedere quelle estremizzazioni del discorso culturalista che studiosi più navigati evitano sapientemente, come ad esempio – tornando al nostro caso – quella fede quasi sempre mal repressa che i discorsi culturali anti-normativi vadano storicamente a braccetto (preconizzando i nostri campus illuminati). Altro tratto caratteristico di questi incontri, al lato opposto dello spettro culturale, è il demolire l’autore trattato facendone risaltare una magagna (di razza, genere, etc.). Si trattava in questo caso del Pasolini “indiano” e del suo sguardo sui subalterni. Qualcuno fece notare la necessità di allargare quel discorso alle considerazioni pasoliniane sul proletariato urbano, a quelle prossime sugli effetti del consumismo e alla sua peculiare idea di dialettica. “The problem is that Pasolini had not read Saïd”, rispose l’autore dell’intervento. La sinistra, e continuando a dichiararsi marxista, sposava una delle più lucidi definizioni date da Marx dell’intellettuale borghese: la realtà, per lui, passa dai libri nella storia.
5. Watchlist e Safe spaces
Non so chi sia dietro la Professor Watchlist di Turning Point USA,[11] una lista venuta alla luce poco dopo le elezioni che segnala le attività sospette (diciamo pure anti-Americane) di alcuni accademici: discorsi di ispirazione socialista, attacchi al Presidente, alle modalità di fondazione degli Stati Uniti, etc. Mi pare però, allo stato dei fatti (poi magari il futuro mi smentirà), che le modalità da Guerra Fredda abbiano al momento tutt’altro risultato, e che questo consista nel rafforzare l’illusione attuativa dei “profeti disarmati”. La Professor Watchlist ha, per ora, avuto principalmente tre effetti: in primo luogo ha confortato gli intellettuali perdenti sulla correttezza della loro azione politico-culturale, donando a questa – per contrasto – tratti rivoluzionari addirittura romantici; ha poi rivitalizzato le analisi culturaliste sulla sconfitta elettorale (analisi che nei primi giorni post-voto si erano trovate subalterne rispetto a quelle di marca economica); ha infine tacitato il dibattito, che era in corso da qualche mese, su cosa un campus universitario dovrebbe rappresentare.
Soffermiamoci un attimo su quest’ultimo elemento. Nello scorso agosto l’Università di Chicago ha dichiarato guerra al concetto di campus come “safe space” e ai “trigger warnings”.[12] Questi ultimi sono gli avvisi che un docente dovrebbe fare quando sta per trattare un tema che potrebbe urtare la sensibilità degli studenti (omicidio, stupro, Olocausto).[13] La studente ha in teoria il diritto di non prendere parte a quelle lezioni.
La posizione dell’Università di Chicago è chiaramente destrorsa e fa il paio con quanto in materia ha scritto Richard Dawkins: “A university is not a safe space. If you need a safe space, leave, go home, hug your teddy & suck your thumb until ready for university”.[14] Attaccare il “safe space” e i “trigger warnings” quali attentati alla “libertà di parola” (e alla libertà accademica, rieccola!) è la reazione culturalista della destra accademica al proprio effettivo stato di minorità: l’appello estremo a un principio liberale come tentativo di rovesciare le parti, tentativo, voglio dire, di far passare il discorso culturalista di sinistra come prospettiva autoritaria.
La risposta a sinistra è quanto mai automatica: il concetto di “safe space” rappresenta uno spazio di libertà rispetto all’oppressione storica della vostra prospettiva che non ha bisogno di “safe space” perché pervade tutta la nostra cultura.
Il discorso però, benché ancora tutto culturale, prometteva bene, perché finiva col coinvolgere da vicino la natura storica dei “safe space” (concetto nato contro la leva militare ai tempi del Vietnam)[15]; la questione del campus come spazio non di dialogo, ma di conflitto (anche materiale); il problema di un’azione identitaria non piagnona ma disposta a riconoscere nelle sue azioni un passo verso l’egemonia;[16] e soprattutto la contrapposizione fra campus e spazi esterni a questo proprio in materia di “safe space”. Il campus poteva cioè cominciare a comprendersi interamente quale “safe space”, riconoscendo determinate caratteristiche correlate alla sua natura (e ai suoi protagonisti) tramite il rapporto dialettico, fra identità e differenze, con gli spazi esterni, diciamo con la società. In qualche mio sogno tutto ciò poteva forse anche aprire ad una lettura materialista della “condizione campus”, nella coscienza che la cultura è effettivamente una merce – ma questo magari l’ho sognato solo io.
La vittoria di Trump (nella polarizzazione di cui sopra) ha portato a trasformare il concetto di “safe space” in quello di “sanctuary campus” – una prospettiva su cui è certo doveroso sospendere il giudizio in attesa di effettive azioni trumpiane. Al momento resta in me un disagio provocato dalla dichiarazione preliminare che afferma i “sanctuary campus” come spazi protettivi per quegli studenti che si sentono minacciati dalla vittoria di Trump (alcuni in effetti lo sono, per appartenenza religiosa e statuto migratorio), ricadendo dunque in un discorso che è agli antipodi da quello che si stava sviluppando. Il rischio è quello di sublimare le caratteristiche di isolamento del campus: un isolamento che come si è visto va a tutto vantaggio di una precisa parte politica. Però, ripeto, avendo Trump dovuto premere, in campagna elettorale, su numerosi e differenti pedali ideologici, non si sa a quale parte del suo elettorato dovrà più dare ascolto.[17] Le paure in questo caso potrebbero essere assolutamente fondate. In tal caso il “sanctuary campus” potrebbe effettivamente rappresentare, fuori dalla retorica culturalista, una strategia assolutamente materialista e di effettiva resistenza, anche condivisa con realtà sociali esterne al campus. Resta comunque abbastanza deprimente pensare che solo in presenza di azioni così drammaticamente materiali della destra, il discorso di sinistra potrebbe avere questa sterzata materialista. Vedremo.
6. “It’s my fault”
Appena arrivato in America sentii una dottoranda in Antropologia Culturale dire: “Vorrei che il mio advisor si rendesse conto che sono parte una minoranza. Ma la colpa è in gran parte mia: devo lavorare per far emergere con maggior chiarezza questa mia condizione”.
7. Predicare al coro
Una splendida espressione inglese è “preaching to the choir”. Significa letteralmente “predicare al coro”: rivolgersi a chi è già d’accordo con te. Carlo Michelstaedter, nel suo primo scritto universitario (aveva 19 anni), ha analizzato le trasformazioni dell’idea di “coro” nel microcosmo tragico del mondo classico. Quando arriva a trattare il caso di Euripide forza un poco l’interpretazione. Da un lato fa sua l’idea canonica secondo cui in Euripide il conflitto tragico si è spostato all’interno della psiche del protagonista, dall’altro però introduce un elemento portato a rivelare la connessione fra disgregazione sociale e costruzione del consenso. Alla frammentazione psicologica del personaggio euripideo (che per Michelstaedter è già sintomo dell’atomizzazione sociale nella quale è inserito) non segue nessuna disgregazione, né della società né del personaggio: segue il rigido consenso costruito sulla pletora di individui disgregati. Il personaggio disgregato ripete le parole del coro, e le parole del coro sono i dettami della società in cui il personaggio è inserito. Il personaggio vuole far valere le proprie ragioni, vuole vincere il discorso. Ma quando chi ascolta è la comunità di cui si è parte, allora le ragioni di quella risultano le più adatte a far valere le proprie, e a questo punto le proprie diventano esattamente quelle della comunità, del coro.
Di questa disgregazione si è parlato parecchio nei giorni del dopo-Trump. Alcuni intellettuali (che di sicuro ne hanno approfittato per prendersi qualche rivincita dopo anni di subalternità accademica) hanno posto sotto accusa la cultura dei campus per la sua incapacità a teorizzare e costruire un progetto politico unificante. In particolare è stata posta a critica la trasformazione della “cultura della diversità” in una “cultura dell’identità e dell’auto-riconoscimento”. Se ne può vedere un esempio alquanto doloroso nelle petizioni a determinate case di produzione (alla Disney per esempio) per introdurre un personaggio o un attore espressione di una minoranza nei loro prodotti. Una delle ultime vertenze è stata quella per far emergere, nel prossimo film, l’omosessualità della principessa Elsa di Frozen.[18] Vi ricordate le critiche di un tempo alla Disney multinazionale? Ecco, niente. Qui la cultura dell’auto-riconoscimento scende a patti col nemico.
Quella che una volta era stata rivendicazione politica tesa a costruire un modello di società differente si sarebbe, col tempo, rovesciata nella mera espressione narcisistica dell’auto-definizione identitaria. C’è del vero. Un corso universitario considerato e avvertito per eccellenza come “politico” è generalmente un corso in cui si spiega agli astanti la loro identità di vittime e l’interesse della società a mantenere occultata tale condizione. Gli effetti di ciò – considerando che tali corsi si rivolgono in gran parte a persone che solo focalizzandosi su un aspetto esclusivo della propria identità possono pensarsi vittime – sono devastanti sul piano della capacità di pensare in un’ottica (uso una parola desueta) di totalità. Quegli stessi studenti, infatti, finiranno per applicare meccanismi simili all’analisi dell’insieme sociale: guarderanno il reale attraverso finestrelle compartimentate; saranno portati ad assegnare la patente di “vittima” indiscriminatamente. Uno degli aspetti più interessanti di tale atteggiamento è stata la deriva emotiva nei campus dopo la vittoria di Trump: professori che cancellano classi perché troppo affranti, studenti che chiedono più tempo per gli esami perché emotivamente provati, etc. Le concessioni fatte dalle università sono infatti solo l’ennesimo portato della deriva culturalista: il punto non è modificare i reali rapporti di forza, il punto è rispettare le emozioni e i sentimenti di chi nella lotta è (o si sente) perdente. Si rischia di generalizzare troppo, ma è francamente difficile non vedere in tali atteggiamenti tanto un infantilismo protratto nell’età della maturità, quanto la controparte culturale di un’ adolescenza trascorsa nella nevrotica e protetta quiete di Suburbia.
Da un lato il filtraggio che i repubblicani hanno fatto delle tematiche intellettuali (anche evocando lo spazio del campus come “torre d’avorio”) ha finito coll’evidenziare la perdita di contatto fra i due soggetti; dall’altro però quello stesso filtraggio è stato usato dagli intellettuali medesimi per provare la ragione del loro operare: per costruirsi un nemico adattissimo all’occorrenza, per estendere le caratteristiche di questo nemico anche a quella parte dell’elettorato che il loro discorso avrebbe invece potuto raggiungere, per farlo infine penetrare (fioccano in questi ultimi giorni le accuse di “suprematismo bianco” verso colleghi) fin nelle mura dei campus, dove la predica al coro pare ora voler continuare intatta fino alla prossima elezione.
Nella sua ingenuità culturalista, una lettrice del New York Times ha dato del dibattito in corso un’interpretazione semplicemente fantastica: “Those of us who are white, born in this country, cisgender and not of a minority religious faith can have the luxury of turning away from identity politics in order to focus on economic inequality”. Ridotto il classismo allo sguardo culturale del borghese sul proletario, esso diventa (“race, gender…. class”) il lusso ultimo dell’intera battaglia. Chi sta lavorando per trasformare antropologicamente l’umano sentire e pensare può spostare sullo sfondo la trasformazione materiale che ne sarà, al limite, inevitabile conseguenza. La maggioranza deve farsene una ragione.
“Il fatto economico o sociale non basta a rendere ragione dell’attuale crisi […]: gli odierni perturbamenti economici e politici sono soltanto un aspetto del male che travaglia, non da oggi solamente ma qualche secolo, la civiltà nostra. […] han preteso di spiegare la crisi col fatto economico […] La funzione moderna degli intellettuali non può essere quella di creare un nuovo ordine di valori economico-sociali, ma un nuovo ordine di valori civili e spirituali ”. Sono parole di Curzio Malaparte, 1922.
[un sentito ringraziamento agli amici e colleghi che hanno letto questo breve articolo in anteprima: Laura Moure Cecchini, Roberto Dainotto, Luca Peretti, Marco Gatto, Lorenzo Mari, Achille Castaldo]
[1] Si veda soprattutto We Created Chavez: a People’s History of Venezuelan Revolution, Durham, Duke University Press, 2013.
[2]http://www.theatlantic.com/politics/archive/2015/08/a-dialogue-about-black-lives-matter-and-bernie-sanders/401960/
[3] Questo ovviamente non vuol dire che tutti i bianchi poveri hanno votato per Trump. Solo quel tanto che bastava.
[4] http://www.politico.com/story/2016/11/van-jones-trump-2016-presidential-election-231048
[5] Per decenza non scrivo il nome dell’autore, ma qualcuno si è spinto a dire che non è un caso che Trump sia risultato ampiamente maggioritario fra i cittadini di origine tedesca e italiana.
[6] Anche questa non è una mossa nuova: i suoi prodromi sono nella teoria delle élites di Vilfredo Pareto. Si tratta di considerare la storia politica come storia delle élites che dirigono il discorso politico, e dunque di assimilare – per vanificare il rapporto numerico sfavorevole – le masse a chi le dirige.
[7] http://edition.cnn.com/2016/11/17/politics/bernie-sanders-donald-trump-allies/
[8] Sugli immigrati, ad esempio, Trump dovrà ora fare i conti con quel larghissimo settore dell’imprenditoria per ovvie ragioni economiche contraria ad una stretta sui flussi così come ad una regolarizzazione democratica di questi.
[9] Le Lezioni sul fascismo di Togliatti, fra parentesi, sono ancora lettura utile.
[10] http://www.thedailybeast.com/articles/2016/05/26/the-racist-side-of-bernie-sanders-supporters.html
[11] http://www.professorwatchlist.org
[12] http://www.telegraph.co.uk/news/2016/08/25/university-of-chicago-rejects-safe-spaces-and-trigger-warnings-i/
[13] http://time.com/3860187/columbia-trigger-warning-greek-mythology-metamorphoses/
[14] https://richarddawkins.net/2016/09/safe-spaces-are-not-the-only-threat-to-free-speech/
[15] Oltre ad aver rappresentato spazi privilegiati di auto-coscienza per il movimento femminista.
[16] La necessità di istituire un rapporto fra identity politics e costruzione dell’egemonia è fondamentale, perché la costruzione dell’egemonia mal tollera gli spazi settari dei discorsi culturalisti.
[17] È tutt’altro che improbabile, comunque, che Trump continui per la sua strada (così soddisfacendo le pretese di un certo elettorato di destra) mentre le camere a maggioranza repubblicana si occupino – più silenziosamente e come già hanno iniziato a fare – delle consuete liberalizzazioni in materia economica, a cominciare dallo smantellamento dell’Obamacare.
[18] https://angelmatos.net/2014/01/19/disneys-frozen-queer/
Fonte: leparoleelecose.it
Originale: http://www.leparoleelecose.it/?p=25865
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