di Guido Moltedo
A Mar-a-Lago, la residenza in Florida che si compiace di definire la sua «Casa Bianca invernale», Donald John Trump ha provato e riprovato per giorni il discorso che reciterà oggi, leggendo il testo mentre scorre sul “gobbo” elettronico.Il discorso che inaugurerà la sua presidenza, la quarantacinquesima della storia americana. Una foto postata su twitter lo ritrae dietro una scrivania, lo sguardo inutilmente intenso verso la fotocamera e non sui fogli dell’inaugural address che tiene in mano, un’aquila bronzea lo sorveglia alla sua sinistra. Durerà una ventina di minuti.
Venti minuti per annunciare le principali misure che caratterizzeranno i primi cento giorni del nuovo presidente. I cento giorni che di consuetudine sono quelli della luna di miele con gli americani, anche con quelli che hanno votato diversamente, o una parte di essi.
Venti minuti per annunciare le principali misure che caratterizzeranno i primi cento giorni del nuovo presidente. I cento giorni che di consuetudine sono quelli della luna di miele con gli americani, anche con quelli che hanno votato diversamente, o una parte di essi.
Cento giorni di riconciliazione nazionale. Che, questa volta, si preannunciano come le prime cento giornate di fuoco di una fase altamente conflittuale che vivrà l’America, a partire dal Day One, da oggi, con l’assenza vistosa di sessantacinque parlamentari democratici all’insediamento e le manifestazioni di protesta in programma nella capitale e in molte città del paese, contro il nuovo presidente ma anche a favore, con il rischio di scontri, vivido specchio di un’America dentro un conflitto interno epocale, come non si vedeva neppure ai tempi del Vietnam. Allora era evidente la faglia politica, che era generazionale e culturale e che divideva Washington dall’«altra America» in rivolta. Una contestazione contro l’establishment e contro i poteri economici, energetici, militari.
Oggi l’arrivo di Donald Trump è sì nel segno della destra che riprende in mano le redini del potere, e dunque può esserci una «fisiologica» reazione a sinistra, anche di piazza. Ma con The Donald si va e si andrà molto più in là di questo. Perché – scomodando Antonio Gramsci – Trump è un sovversivo. Nel senso che, nelle condizioni storiche e politiche attuali, rappresenta il «sovversivismo della classi dirigenti» descritto sull’Ordine Nuovo, che non è di per sé sinonimo di rivoluzione o di rinnovamento, ma spesso è tutto il contrario, il sovversivismo delle classi subalterne che si salda con quello delle classi dirigenti e dalla miscela deflagra il fascismo.
«Fascista», è una caratterizzazione che più volte è stata rivolta a Trump, anche da parte di editorialisti dei media mainstream. Che cosa significherà di fatto il «fascismo» nella versione trumpista, lo vedremo assai presto. Ma alcuni ingredienti sono evidenti nei propositi reiterati. L’isolazionismo in Trump, nella fase storica attuale, non è l’attenzione prevalente agli affari domestici e la riluttanza a intervenire nel mondo, com’era in una certa tradizione repubblicana, ma diventa una versione moderna dell’autarchia, dell’avversione al cosmopolitismo e alla contaminazione con altre culture. È la reazione e la restaurazione rispetto all’America-Mondo dell’epoca obamiana.
Dietro Trump si muovono superpoteri dell’economia e della finanza, ben rappresentati dai capi di aziende multinazionali e banche d’affari in dicasteri-chiave del suo governo, e Trump stesso è un superricco. Ma la sua constituency principale, come confermano anche gli ultimi rilevamenti demografici, è il ceto medio bianco, specie delle aree deindustrializzate. A questo è soprattutto rivolta la sua attenzione costante anche da presidente (come anche sarà evidente nell’inaugural address di oggi). È «la gente», the PEOPLE, a lettere maiuscole, come ama ripetere The Donald, che applaudirà il suo insediamento e non le celebrities che affollarono le inaugurazioni presidenziali di Obama.
Presidente «illegittimo», secondo il parlamentare e leader dei diritti civili John Lewis, è così visto da molti americani, e non semplicemente come un avversario politico che ha vinto le elezioni. È un fatto senza precedenti. Obama, nella sua ultima conferenza stampa, ha voluto smorzare le ansie «quasi apocalittiche» dei democratici. Eppure, anche in questa sua ultima apparizione da presidente ha confermato l’eccezionalità di questo passaggio dei poteri, ribadendo che resterà in qualche modo attivo politicamente, quasi un presidente ombra, a difesa dei «valori costitutivi» della nazione. Già, perché addirittura quei valori sono a rischio.
Fonte: Il manifesto
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