di Marco Bascetta
La «fine di un’epoca», così buona parte della stampa mondiale ha commentato la morte di Fidel Castro, l’«ultimo comunista». Che cosa significa la fine di un’epoca? Intanto che ogni linea di continuità è recisa, ogni nesso tra passato e presente negato. Le categorie, le motivazioni e perfino il senso delle parole hanno cambiato di segno. Forse si tornerà a parlare di socialismo, di comunismo, ma questi non somiglieranno ai loro avi novecenteschi più di quanto la democrazia antica non assomigli alla moderna democrazia parlamentare: remota invenzione di una idea a cui si rende l’omaggio dovuto a una ragione originaria, ai primi avventati esploratori di una forma politica ancora irrisolta.
E come della democrazia greca si ricorderà esser stata fondata sull’esclusione e sulla schiavitù, del socialismo si dirà, con altrettanta ragione, esser stato edificato sulla trascendenza oppressiva del partito e dello stato.
E come della democrazia greca si ricorderà esser stata fondata sull’esclusione e sulla schiavitù, del socialismo si dirà, con altrettanta ragione, esser stato edificato sulla trascendenza oppressiva del partito e dello stato.
Ma se da Atene e Sparta ci separa una enorme distanza temporale, così non è per la Russia dei soviet o per la rivoluzione cubana. E se è vero che l’implosione delle società socialiste ha mandato in frantumi la gabbia che imprigionava ogni soggettività desiderosa di trasformare radicalmente lo stato di cose esistente, è anche vero che la «nuova ragione del mondo», la dottrina neoliberista, si è rapidamente appropriata delle energie scaturite da quella implosione. La fine del socialismo realizzato si è data così nella forma di un’occasione mancata, di un senso di impotenza posto sotto il segno della malinconia.
IL COLORE DELLA MALINCONIA è, come insegnavano gli antichi, il nero: l’«atra bile», l’umore cupo della tristezza e del disfacimento. Può sorprendere, allora, una storia di questa affezione, di questa condizione dello spirito, dipinta con tutt’altro colore: il rosso della rivoluzione sociale, sia pure sbiadito nel tempo mesto della sconfitta. Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, così si intitola un nuovo libro di Enzo Traverso (Feltrinelli, pp.240, euro 25) pronto ad incrociare, però traendone qualche insegnamento e qualche speranza proiettata nel futuro, le tonalità depressive che pervadono il nostro tempo. Più che nella «sinistra», parola i cui contorni sono sempre più indistinti ed equivoci, è tra i «rivoluzionari» che hanno marciato sotto la bandiera dell’eguaglianza che l’autore insegue le orme di questa tradizione. Solo le rivoluzioni, infatti, o le insorgenze che ne costituiscono, o immaginano di costituirne le tappe, possono sperimentare nel profondo la sconfitta, la perdita, il dolore della caduta. La prudenza del riformismo, con i suoi compromessi e le sue mediazioni, può andare incontro a battute di arresto, sospensioni, ma non a una disfatta catastrofica.
SULLA NATURA della malinconia, sulle sue allegorie e rappresentazioni esiste un imponente corpus interpretativo, di natura estetica, morale, filosofica, antropologica, psicoanalitica. Traverso, pur dandone conto, si sofferma essenzialmente su due aspetti: la perdita e il lutto: la prima destinata a una permanenza sconsolata, il secondo suscettibile di una elaborazione che ne consente il superamento, nonché la generazione di nuova energia e motivazione alla lotta. Dunque, in tutto il corso della sua storia, quella che fu chiamata «rivoluzione socialista» ha vissuto catastrofiche sconfitte, massacri spaventosi, lunghi periodi di ibernazione. I punti alti dello scontro si sono quasi sempre conclusi con tragiche capitolazioni: il 1848, la Comune parigina del 1870, forse la più celebre e vivida rappresentazione della disfatta, la rivoluzione russa del 1905, la rivolta spartachista. Eppure quel sangue versato, quelle cadute rovinose non revocavano il senso e il fine del processo rivoluzionario, la sua prospettiva storica e le speranze che aveva suscitato. Anzi, ne costituivano l’alimento.
UN PATRIMONIO EMOZIONALE e conoscitivo al tempo stesso, un’istanza imprescindibile di riscatto. In fondo, la battaglia, impari, era stata ingaggiata contro un formidabile potere di oppressione, il cui sanguinoso trionfo non poteva che confermarne i tratti inumani e dunque inaccettabili. E riaccendere, così, le speranze e le passioni rivolte al suo rovesciamento. Insomma quella tradizione che dall’omaggio reso da Marx ai caduti della Comune, fino ai massacri rappresentati nelle pellicole di Eisenstein, risuona ancora nelle strofe di canzoni come Morti di Reggio Emilia. Ma che, pur confinata nella penombra, vive, appunto, di una tonalità malinconica, di una commozione luttuosa, di un dolore per la sconfitta di quella umanità insorgente tanto immersa nella materialità della vita quanto lontana dalla retorica dell’eroe, che pervade, invece, le onoranze funebri celebrate dalla destra.
Ma vi è, però, un altro grado della melanconia, che cresce nel corso della storia del Novecento per raggiungere il suo culmine nel fatidico 1989. Questa tonalità emotiva, sempre meno capace di trarre dalla negatività dell’esperienza nuova energia non è generata da una vittoria sul campo dell’avversario di classe. A generarla è il suicidio delle rivoluzioni vittoriose o la loro «corruzione», una patologia endogena che, passo dopo passo, ne ha corroso le ragioni e le promesse. Che pure sono esistite ed hanno messo in movimento grandi masse.
LA MORTE DI FIDEL CASTRO, per tornare a questo evento fortemente simbolico, avviene, a dispetto di qualsiasi enfasi celebrativa, in una atmosfera di mestizia in cui si mescolano quelle ragioni e quel morbo degenerativo. Comunque sarà ricordata o ripensata nel futuro, è ben difficile che l’esperienza della rivoluzione cubana, possa più rappresentare un «faro» o uno «sprone», una indicazione per il tempo a venire. La morte del Che e quella di Fidel rappresentano, in qualche modo, gli estremi opposti della malinconia rivoluzionaria. Se la prima rappresenta ancora una bandiera, la seconda completa tardivamente quella cesura, quella soluzione di continuità, quella fine, che nel 1989 ha avuto la sua data simbolica e «definitiva». Ma molte sono le «fini» che la avevano preceduta. Prima tra tutte quella consumatasi a Praga vent’anni prima. E poi la deriva corrotta e autoritaria che ha segnato la deriva delle lotte anticoloniali e di «liberazione nazionale». Delle tre rivoluzioni che alimentarono l’immaginario degli anni Sessanta e Settanta: quella anticapitalistica in Occidente, quella antiburocratica all’Est e quella antimperialista al Sud, di nessuna si può dire che sia andata a buon fine. Eppure hanno cambiato il volto del pianeta e ridisegnato le mappe del conflitto. Sotto l’oppressione del rapporto di capitale, certamente, ma anche nell’acuirsi della sua crisi e delle sue contraddizioni.
CHE FARE, dunque, in questo frangente, tra la pretesa di dannazione eterna per ogni ragione e passione della rivoluzione sconfitta avanzata dai vincitori, e quella inclinazione nostalgica, restia a prender commiato dalla teleologia «progressista» e a cimentarsi con uno scenario radicalmente trasformato? Contro ogni musealizzazione della memoria, che la separa per sempre dalla capacità di esercitare una influenza reale sul presente, Traverso ripropone, sulle orme del filosofo francese Daniel Bensaid, quella concezione benjaminiana del tempo come processo aperto e incompiuto e per questo sempre disponibile ad affacciarsi sul futuro dell’utopia, quella memoria dei vinti che, come riteneva Reinhart Koselleck, possiede un contenuto di conoscenza superiore a quella dei vincitori. Ma che, come la rivoluzione stessa, è inseparabile dalla malinconia. Senza la triste rimembranza delle occasioni perdute, non si tornerebbe a riannodarne i fili interrotti. Questa malinconia senza rassegnazione è, alla fine, la consapevolezza di una storia che, pur avendo pagato enormi prezzi, non è riuscita a trasformare il mondo come aveva voluto. E dunque l’affermazione di una impresa che resta ancora da compiere.
Fonte: Il manifesto
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